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Defendente Sacchi
Novelle e racconti

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I BUONI RISPARMI

Novella

 

Lunge forse quindici miglia da Milano verso la Brianza, il Lambro si avvalla in un vasto letto, che accenna vi passasse anticamente un gran fiume, e forma ai lati quasi due colline che girano tortuose a meandro. Sul ciglio e sul declivio di queste, la mano industre dell’uomo sparse la coltura, e prosperano vigneti, e verdeggiano campi, e biondeggiano le messi: le rendono varie e popolose molti paesetti, e ville e palazzi, con bei giardini, ai quali conducono ampie strade, e vie tortuose ombreggiate da boschetti fatti ameni da qualche [166] rigagnolo d’acqua che zampilla fra le sabbie e i sassi. Nella parte più bassa della valle sulla sponda del fiume, sorge il piccolo paese d’Agliate, ove una chiesa e un battistero del medioevo fanno testimonianza che il paese è antico e la tradizione dei conti feudatarj ricorda che fu potente.

A questo dilettoso seno che la natura e l’arte reseroricreante e salubre, e si chiama la costa d’Agliate, traggono i signori Milanesi, per passarsi del calore dell’estate, o per ricrearsi in autunno. Ivi spogliano sovente il fasto della città, e non isdegnano conversare col castaldo, col contadino, e udire il loro consiglio sul modo di meglio coltivare il podere, e questi offrono ad essi le primizie dei campi, e la devozione d’un animo sincero. Narrano loro pure spesso le proprie vicende e come si procacciassero fortuna, e li ricreano coproprj modi schietti, e con un ingegno pronto e vivace.

Era il settembre e s’approssimava la vendemmia e il fattore di un signore di Milano, stava in una villa della costa, apparecchiando i tini, i vaselli per raccorvi le uve: i contadini li ripulivano, li aspergevano d’acqua perchè non gemessero dalle doghe sconnesse; e il falegname rassettava quanto vi aveva di guasto. Il Conte era in villa, e poichè all’alba aveva fatto un lungo passeggio, ritornato a casa si ricreava nell’osservare a condurre quelle faccende, e specialmente nell’assistere ai lavori del falegname. Era questi un [167] uomo che appena poteva toccare ai 25 anni, ma assennato, solerte; di modi ossequiosi, ma schietti, sicchè il signore amava conversarlo, e quei gli narrava le novelle del paese, le proprie vicende. Ei aveva detto più volte che possedeva una piccola vigna, una scorticella sufficiente di legna, ed era l’uomo più lieto del mondo, perchè amava la moglie colla quale s’era sposato da pochi anni: un poichè gli ebbe ripetute queste sue fortune, il Conte il dimandò se il padre gli aveva lasciata quella vigna, o se la sposa gliela aveva portata in dote.

— Oh, rispose, mio padre, poveruomo! non mi ha lasciato in eredità che una sega, una pialla, un martello, insomma l’arte propria.

— Dunque com’hai guadagnato?

— Eh! l’è una storia la mia pari a quella di Bovo d’Antona: ma non voglio annojarla.

— Narra, narra, gli disse l’altro: mi siedo sul tuo pancone, fumo uno zigaro, e ti sto ad ascoltare.

— Come le piace: lascio di unire questi assi per non isbalordirla col martello, e bucherò intanto la stoviglia nuova che ho fatta pel lavatojo della sua cucina, perchè la signora Contessina quando viene alla vendemmia, veda tutto bello e ripulito. Girando la trivella non si fa rumore e anch’io posso parlare con meno fatica: però la badi che il fuoco dello zigaro non cada tra questi truccoli, e non s’appicchi qualch’incendio, perchè qua non vi sono i Pompieri. —

[168] Prese prestamente un asse sulla quale erano già fatte pel lungo varie scanalature, ed erano segnati col carbone con simetria i luoghi dei fori, e si mise al nuovo lavoro: intanto il signore battè l’acciarino, accostò l’esca allo zigaro, e premendolo sulla punta e succhiando lo accese; quindi guardò il falegname, che intese l’invito e si pose a narrare.

— Mio padre, poveretto! moriva, che aveva appena cinquant’anni ed io toccava ai quindici; era un buon maestro legnajuolo, e non vi era lavoro che non sapesse fare colle proprie mani. Appena fui capace, mi pose a tirare la sega, ad addrizzare i chiodi ritorti; brevemente mi fece suo garzone, sicchè poi lo ajutava in qualunque opera. Si lavorava tutta settimana come diavoli, ma alla festa, capisce bene? quel caro riposo, tirava un po’ ai vizj. Dopo Messa e Dottrina, all’osteria: ivi un bicchieretto, cinque alla mora; un po’ di tressette, un boccale; quattro chiacchiere, una pintina: un po’ di cena, veniva la sera tarda e il guadagno della settimana lo intascava compare l’oste. S’andava a casa leggieri leggeri, e al lunedì desti di buon’ora, in piedi ed al lavoro; quindi ci guadagnavamo sempre qualche cosa di più degli altri, perchè noi non abbiamo mai appiccata la coda alla festa col fare la lunediana. Pure, già la indovina, quando morì mio padre, avanzo non ce n’era, ed io non ereditai che i suoi avventori, giacchè, per grazia di Dio, tutti mi volevano bene.

[169] Seguitai la stessa vita, però attesi con calore al mio mestiere, e in pochi anni m’acquistai migliore credito di mio padre, perchè girando pei paesi, aveva cura di osservare i lavori degli altri falegnami venuti dalla Brianza o da Milano, e m’ingegnavo d’imitarli. Io era sempre di buon umore, allegria e render conto delle mie azioni, riposo dall’oste alla domenica; al lunedì mattina lesto in gamba colle scarselle vuote.

Però non seppi mai che colore avesse l’avarizia, non m’importava di restare senza avanzi: aveva un solo dispiacere, di non sapere scrivere, mentre molti altri più giovani di me, che erano andati d’inverno alla scuola comunale, avevano il loro libretto ove notavano i lavori, ed io era costretto correre ad accomodare i conti colle taglie di riscontro: non sapeva darmene pace. Una domenica dopo Dottrina, stava pensoso sulla piazza della chiesa, mentre varj fattori e contadini leggevano gli avvisi sull’angolo della contrada. Passa il sig. Curato, mi una ganascina: — Che cosa pensi mio Giannetto? sei melanconico.

— Sì, signore, e molto: penso che il suo campanaro, che mastro Giovanni muratore, che fino il pollajolo Andrea sanno leggere e scrivere; sfogliano quel loro libraccio come tanti dottori, ed io che lavoro a tanti signori, non posso segnare che con dei tagli su un legno le mie giornate; bisogna che mi rompa la testa a tenermi a memoria i lavori, fidarmi degli altri, e spesso qualche [170] cosarella scappa, e il guadagno va giù pel Lambro: quel buon uomo di mio padre non volle mandarmi alla scuola, perchè diceva, che era il quinto falegname della sua famiglia, ed avevano fatte botti e carri a tutta la costa, senza sapere adoperare la penna; ed io intanto sono qua come un bel merlo... se sapesse! ho proprio un gruppo sullo stomaco.

Il Curato, che buon uomo! mi guardò — Bravo Giannetto; impara a leggere e scrivere tu pure.

Mi cacciai a ridere — Oh, da sedici anni! se ne vorrebbero dire delle belle! e poi, o lavorare, o andare alla scuola!...

— O sedici, o diciotto, hai vergogna a tirare la sega? avresti vergogna dimani d’imparare a fare una botte, o un aratro in una maniera nuova? la è tutt’una, sia in un modo, sia in un altro, è sempre imparare. In quanto al tempo, viene l’inverno; e hai meno da lavorare; la sera... puoi lasciare quella benedetta osteria, e invece delle carte da giuoco pigliare la penna.

— Eh dice bene... ma chi insegna fuori d’ora?

— Balordo, non sono io il maestro comunale? Quanti giorni in estate non faccio nulla, perchè tutti sono al lavoro? non potrò fare per te qualche ora di più nell’inverno?

— Ah signor Curato! ella è proprio il nostro padre... Io sono qui anima e corpo.

[171] — Detto e fatto, prendo carta, penne e libri, e giù aste, rampini: ba, bi, bu, un po’ alla scuola comunale quando lavorava in paese cambiando l’ora della colazione e del pranzo; un po’ alla festa e alla sera dal Curato; insomma dalli, compita e sgraffia carta bianca, in un anno leggo, scrivo e faccio i conti. Pare un prodigio; tutti mi dicevano: — ma bravo Giannetto! — ed io in chiesa col libro alla domenica — bravo Giannetto! — ed io mi presentava colla lista scritta ove aveva lavorato. Insomma tutti mi nominavano a dito, e quando dopo Messa correva pel primo a leggere gli avvisi, le donne mi guardavano come il miracolo del paese.

Guarda e loda; i miei rampini hanno presa l’Angiolina del suo fattore, che era proprio un bocconcino da conte. Mi guardò con quegli occhi neri, e mi sentii subito a ribollire, come quel cavaliere dei Reali di Francia quando vide Drusiana. Non ho chiuso occhio alla notte; aveva bisogno di vederla e non fu difficile, perchè aveva sempre lavori qua in sua casa, ma non fui lesto nel finirli come al solito. Colei usciva spesso, ora per contare le galline, ora per raccorre le uova; capitava a questo portico per darmi degli ordini, per portarmi la bottiglia; insomma un’occhiatina, una parola, ci siamo innamorati come due gatti, e patto di sposarsi.

Un il fattore ne colse che ci scambiavamo quattro parolette; anzi nel momento ch’io [172] sporgeva all’Angiolina un mazzetto di fiori, e allungava un po’ le dita per toccarle la mano. Ne fu sopra tutto brusco, e con quella voce e quel fare grave, che quando vuol imporre rispetto imita vossignoria — Eh Giannetto! bada che ti chiudo la porta, e tu pettegola, via, subito in casa. — La povera fanciulla non fiatò, si fece rossa come una bragia e se n’andò a capo chino.

Appena restammo soli, io che non mi era perduto d’animo, e mi sentiva correre il sangue nelle vene di galoppo, lo guardai. — La porta si chiude ai tristi; io sono galantuomo. Mi piace l’Angiolina, vi è male? datemela per moglie.

Maestro Andrea si rimise un po’ da quella sua austerità, e mi prese così alla buona, come usa ella quando fuma lo zigaro in nostra compagnia — Senti, caro Giannetto: sì, sei galantuomo; bravo nel tuo mestiere; lavorare non te ne può mancare; mi piace la tua proposta: ti do l’Angiolina... ma ecco il patto. Agli stracci non penso; quanti ne avrà più, meglio per voi: sono tutti fatti con risparmj del pollajo ed io non li computo usciti dalla mia borsa: ella poi si adoperò sempre coi suoi fratelli all’utile della famiglia ed è giusto che abbia la dote: le do trecento lire in contanti...

Io sorrideva... Piano, soggiunse: io intendo che per salvarvi dalle disgrazie, abbiate una piccola vigna; quindi che tu vi metta assieme altre trecento lire per comperarla.

[173] Allora divenni smorto: era giovedì e non aveva a capitale che tre giornate di credito. — Ma caro Andrea — Ed ei fermo come una colonna — Non c’è ma che valga, se con tanto lavorare non vali a metterti assieme trecento lire, sei un poveruomo; non voglio che l’Angiolina, se ti rompi un braccio, vada a mendicare. Hai capito? bada bene a non parlarle più, se no ti levo i lavori, e dirò al padrone perchè cambiai falegname.

Giudichi ella che dolore di testa! cominciai a pensare, ma non vi trovava capo fondo. Mi venne in mente di pigliare un salvadanaio come usava quando era piccino, e ogni sera vi metteva qualche soldo, per due o tre sabbati alcune lire. Ma un , cadutomi il bisogno di pagare un contarello un po’ grosso per certe cene che giuocando m’erano state appiccate, invece da aspettare come mi consigliava l’oste, preso puntiglio diedi del bastone sul salvadanajo: vi trovai venti lire; pagai l’oste e il resto allegria; in tre giorni le ho spacciate. Intanto cresceva il bruciore per l’Angiolina, e non vi era maniera di vederla fuorchè quando usciva di chiesa; la mi guardava tutta trambasciata la povera ragazza, ed io aveva un crepacuore che mi sarei dato del martello pel capo.

Fra tanti affanni che mi toglievano il sonno, finalmente mi venne in pensiero di andare a prendere parere dal sig. Curato — M’ha insegnato a scrivere, chi sa che non trovi rimedio anche per queste trecento lire!

[174] Infatti sono da lui, gli narro tutto colle lagrime agli occhi: mi accarezzò — Quanto guadagni? — Non mai meno di tre lire al giorno — Ma dove vanno? — Capisce bene? un po’ di compagnia, qualche cena, qualche merenda... — Ma ne hai necessità? non mangi bene a pranzo? — Anzi benissimo, perchè di solito mi viene dato ove lavoro e spesso metto i piedi sotto la tavola coi fattori — Dunque la merenda è inutile, la cena si può risparmiare, o almeno ridurla a poco: bisogna fare economia sui vizj e sulla gola; tutti i giorni, o tutte le settimane mettere a parte un po’ di risparmio. — Eh! l’ho provato, ma il salvadanajo!... e gli narrai la dolorosa storia.

Il buon prete rise e mi parlò d’una nuova maniera per riporre i risparmj, ch’io non avrei potuto toccarli; al sabbato mattina di buon’ora mi disse di portargli quel che aveva di sopprappiù; era una lira. — Vale anche questa, disse, e salì il calesse e andò a Milano. Alla sera mi riportò un libretto sul quale era segnata quella lira: in fine dell’anno aggiunse, ti sarà restituita con tre centesimi di profitto: non potrai spenderla, e ti sarà resa con utile: ora a te l’aggiungervene altre, l’utile sarà in proporzione: tutte quelle che hai, dalle a me; ogni venerdì sera portami il libretto ed io lo recherò coi danari al sabbato a Milano, e lo faremo crescere; e in questo modo acquisterai da sposare l’Angiolina. —

Non mi parve vero di meritare quella lira; [175] accomodate le partite al primo venerdì gli diedi quanto mi pareva di superfluo: così feci ogni settimana. Quel non avere denari, mi faceva fare economia, perchè mi piace di pagare e non tenere debiti: insomma gli diedi fino dieci lire alla settimana, ed ogni sabbato il libretto viaggiava a Milano, e quando giungeva, io gli faceva buon viso come ad un amico, e gongolava di vedere aumentare la somma. Tutto il io studiava il libretto e il modo di far crescere le lire, e dalli e lavora, e risparmia, in undici mesi le trecento lire erano assieme: quel sabbato che giunse il libretto e vi lessi quel trecento, spiccai un salto alto come questo pancone.

A mattutino volai dal Curato a prendere consiglio: dopo Messa, dal fattore a dirgli che aveva le trecento lire; ed essendo in quel momento passata dalla stanza l’Angiolina, la salutai subito come sposa. Strabiliò mastro Andrea a quella notizia, mi guardò come per chiedermi se dicessi davvero; ma udito che dei danari rispondeva il sig. curato, non cercò più oltre; si volse all’Angiolina e disse — Sarete sposi: la vigna te la venderò io, ed è proprio un pezzo di terra da padre.

La notizia si sparse: tutti meravigliavano e davano mille interrogazioni; il fattore rispondeva:

— Avrà fatta economia; è quanto mi piace — Ma vi furono i maligni; dalli e pensa, si rivilicò che quindici giorni prima era stato fatto un furto in un paese vicino; appunto di cento scudi, e i [176] ladri si dicevano due: tre cento lire per uno da dividere. Ecco che mi si mette in ispalla un bel tabarro nuovo, perchè gli uomini usano sempre a un modo, cambiano opinione d’un loro simile colla facilità con cui si mutano di camicia, e per un’apparenza oggi lo riveriscono galantuomo, dimani lo manderebbero su per la scala e giù per la corda, come un birbante.

Quella maledetta voce si sparse e crebbe: fu detta a mastro Andrea, all’Angiolina; gli trovava un po’ freddi, non sapeva indovinarne la causa, e finalmente seppi anch’io la bella novità. Era l’altro sabbato dopo la mia dichiarazione; può ben pensare che disperazione. Volevo rinunciare alla sposa, al paese, volevo andare come Guerino Meschino agli albori del sole. Corro prima dal Curato gonfio di rabbia e di affanno; mi consolò — Non dubitare. —

Alla mattina uscii di buon’ora dal paese per sentire la Messa altrove, e tornai subito come mi aveva ordinato. Non fui veduto in chiesa, crebbe il bisbiglio; tutta la Costa ne parlava — È fuggito, è in prigione; colui aveva viso da mariuolo — Venne il vespro; alla dottrina il Curato disse prima di finire — I padri di casa si fermino dopo fuori della chiesa, perchè mi bisogna di parlare. —

Infatti era piena la piazza e tutti volevano indovinare la cagione, e i più credevano fosse per avere mie notizie. Il buon prete capitò. — Che [177] se ne dice di Giannetto? — Oh che bisbiglio! ne uscirono d’ogni colore; e mastro Andrea colla voce da Conte: — Non avrà mia figlia per certo. —

E il Curato sollevandosi alto come un Vescovo quando la benedizione papale — Eccovi i frutti del pensar male, dei giudizj temerarj! Possibile che Giannetto, il quale è sempre stato un giovane religioso e dabbene, debba mutare vita e costumi in un momento?

E una voce petulante — Ma quelle trecento lire sono piovute dal cielo! — Il Curato trasse un libretto — Ecco le trecento lire di Giannetto. —

Tutti si cacciarono a ridere gridando — Carta, carta! — Ed egli — Sì, ma carta che canta: questo libro è della Cassa di risparmio: questa Cassa è in Milano, riceve una volta alla settimana, cominciando da una lira fino a trecento, i danari che depositano quelli, che invece di sciuparli all’osteria, li pongono a parte per trovarli tutti assieme quando fanno bisogno; ogni volta che vi si portano, sono notati su questo libro, e si ha il guadagno del tre per cento all’anno. Giannetto portava a me varie volte alla settimana i suoi risparmj; io li mandava a Milano ed egli in meno di un anno, versò a poco a poco dugento novanta cinque lire, e dimani con questo libro va a Milano e ne ha trecento. Venite qua increduli, toccate colle mani, vedete volta per volta le sue poste: una lira, poi due, poi cinque, e fino dieci, e quando è avvenuto il furto, Giannetto ne aveva [178] già pagate duecento sessanta; più egli depositava e più cresceva in economia, perchè quell’avere i danari in tasca... — Allora spiccai dalla porta della chiesa dove stavo appiattato — Si spendono tutti. —

Fu un gridare universale di maraviglia e di gioja, perchè a molti doleva quel sospetto: il povero mastro Andrea corse pel primo ad abbracciarmi, e spedì tosto a casa il figlio maggiore a consolare l’Angiolina.

Oh quanti discorsi si fecero attorno a quel libro! e crebbero maggiormente quando fra cinque o sei fatto lo scritto e presa la vigna, mastro Andrea andò a Milano col libro assieme al Curato, ed ebbe le sue trecento lire; io mi sposai l’Angiolina e fui contento come la Pasqua.

Appena posi sesto alle mie cose, e pagai qualche debituccio fatto in anticipazione di lavoro per comperarmi un po’ di masserizie di casa, tornai a pigliarmi due libri di risparmio, uno per me, l’altro per mia moglie; anch’ella mandava a Milano le economie, i guadagni fatti sugli uovi e sulle galline, e in tre anni abbiamo una casa ben provveduta; io ho scorta di molte asse, e presto compero il resto della vigna da mastro Andrea che vale dugento scudi.

Benedetta questa invenzione della Cassa di risparmio! molti mi hanno preso ad esempio; hanno pigliato il libretto, e quando è il tempo di pagare la pigione o il livello del podere, quando capita [179] l’inverno, e bisogna comperarsi un gabbano pesante, cavano il libretto dell’economia, e i denari sono pronti: mentre prima, pianti, vendere le masserizie o sbattere i denti mezzo ignudi fra il ghiaccio e le nevi. Le dirò di più: il fattore di suo cugino, il mastro muratore, e il campanaro, col libretto hanno messa assieme la dote delle figlie, e le hanno maritate bene; mentre gli altri che guadagnano più di loro, ma spacciano tutto, appena trovarono un contadino che le volesse, e bisogna che tirino la zappa.

Insomma benedetta la Cassa di risparmio, ma prima di tutto benedetto il signor Curato che mi ha dato quel buon suggerimento; noi poveri contadini non ne sappiamo nulla di questi preziosi soccorsi, e se vi è un Curato che ha amore pe’ suoi parrocchiani, che suggerisca loro quanto è vantaggioso, fa altro che la carità di qualche soldo! Questa è la vera carità: a me co’ suoi consigli, ha dato il saper leggere e scrivere, prendere una bella vigna ed una buona moglie. Benedetta l’anima sua! sono sei mesi che è morto, e lo abbiamo pianto tutti, ed io coll’Angiolina ogni domenica verso sera, andiamo nel cimitero a inginocchiarsi ov’è la sua croce, e recitiamo il rosario pel nostro benefattore...

Voleva più dire, ma uno scoppio di pianto gli troncò le parole: anche il giovane Conte era commosso già da qualche tempo, e quando Giannetto pianse, gittò lo zigaro, si spiccò dal panco, [180] e fuggì rasciugandosi gli occhi! Dopo un mese giunse nel villaggio una pietra nera con parole in oro: fu posta nel cimitero: era una iscrizione che il Conte, a proprie spese, pose alla memoria del buon Parroco.

[181]

 

 




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