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LA SCIORA CECCA DI BERLINGHITT
I.
I fiori
I fiori sono il più leggiadro ornamento della natura: essi spargono il sorriso nella tacita valle, fra l’ondeggiare dei colli, e sul dirupo della montagna: i fiori sono l’ornamento più pregiato della bellezza, i simboli della gioja, l’olocausto più gradito alle care memorie. Quando la natura è spoglia di fiori, ne appare quasi mesta e induce tristezza negli animi; quando se ne riveste suscita in noi una dolce allegrezza: la fanciulla li raccoglie folleggiando nel prato, e se ne orna il seno; il [182] marito li tributa sul tavolino ove attende al lavorìo la fida sposa, e il misero che l’ha perduta, li tributa con una tacita lagrima che non va divisa da qualche voluttà, al suo monumento. I fiori di primavera ricordano la primitiva fecondità del giovanetto mondo, appena fu spinto a danzare fra le stelle, ricordano l’anno che si rinnovella, e la più bella età della vita; effondono una cara gioja che sente del cielo.
Ora le azioni umane, considerate o individue o di comunanza nella società, sogliono essere mosse dall’interno sentimento dell’uomo, e questo sentimento si svolge o prende forma, siccome varia la civiltà della nazione: quindi i popoli usciti di fresco dalla barbarie, e retti sotto l’impero della fantasia, manifestano i proprj sentimenti con clamori e con feste, mentre quelli governati dalla ragione nella maggiore civiltà, usano anzichè atti di clamore, espressioni e modi misurati e mansueti: quelle però imprimono alla nazione un carattere forse fantastico, ma grande ed originale, queste tutte adombrano di mezze-tinte, e non offrono che quadri di miniatura.
Ora il sentimento di gioja nella primavera suscitato al germogliare de’ fiori, nei popoli del medio evo appunto in tutto rapiti dalla fantasia, non poteva certo svolgersi queto e con calma, ma sibbene con clamori e dimostrazioni di pubblico tripudio; quindi ne uscirono le varie feste floreali usate al Maggio, molte delle quali non furono ignote anche agli antichi.
[183] Infatti ne’ primi secoli dopo il mille, collo spuntare il primo sole di Maggio, si destava negli animi l’allegrezza de’ fiori, e tutti erano vaghi coglierne ed ornarne le cose più care, farne tripudio. I primi che corsero a questa voluttà furono gli amanti, la cui vita essendo tutta d’affezione, hanno bisogno di effonderla negli altri. Nella notte che precedeva il Maggio, in ogni parte d’Italia si raccoglievano i fiori novelli della primavera, e fattine mazzi, serti e ghirlande, ne fregiavano le case e finestre delle belle, di cui si professavano amanti, sicchè al primo destarsi coll’alba, vedendoli, fossero cercate da una dolce immagine e da un pietoso affetto. Fatto poi grande il giorno, i cittadini d’ogni sesso e d’ogni età traevano nelle campagne per prendere maggiore ricreamento nel sorriso della natura, fra le dipinte erbette, e spirare l’aura balsamica che dolcemente oliva. Le madri infioravano il caro capo de’ figli, le spose il seno dei compagni, gli amanti si scambiavano i serti, e gli animi si esaltavano nell’allegrezza; e s’imbandivano lieti prandi, si menavano allegre danze, e si alzavano canti di gioja e d’amore: tutte le città e le ville erano una festa.
Dopo varj anni, siccome consigliava, o la necessità o qualche avventura, alcuni pensarono convenisse rendere di maggiore rilevanza e durata il tributo della primavera alle persone più care, che non fossero pochi fiori; e pure questo pensiero sorse primamente in animo agli amanti, poichè [184] l’affezione più bella del cuore è la sorgente negli umani d’ogni gentilezza. Infatti essi immaginarono elevare innanzi alle case delle loro amiche o fidanzate una pianta, che ponendo radice, restasse perenne testimonianza dei loro voti; e questa pianta fu di consueto quella dell’Alpe che ornavano di fiori e imprese, e chiamarono poi il Maggio; quindi nacque l’uso di piantare il Maggio, che come testimoniano gli antichi cronisti, era in ogni parte d’Italia. Quegli poi che non aveano modo a tanta mole, s’accontentavano di porre alla porta della loro donna un ramo di quella pianta, siccome ne sono testimonianza le canzoni di Lorenzo de’ Medici, e il motto toscano a ferire coloro che ogni dì vagheggiavano nuova bella, che appiccavano il Maggio ad ogni uscio.
Questo trofeo di gioja si rese in breve sì universale, che vollero usarne anche coloro cui solo non stringea pensieri d’amore: quindi si innalzava il Maggio nelle piazze, o come allora si denominavano, ne’ Pasquarj e nelle Braide delle città, e intorno vi si facevano danze e desinari. In Genova difatti specialmente lo si erigeva innanzi alle case degli uomini più ragguardevoli, appendendo ai rami le loro imprese e stemmi, siccome segno d’onoranza.
Da queste feste di pura gioja pel primo di Maggio, ne uscivano varie altre solennità e giuochi che si tenevano in altre stagioni. Fra le feste è specialmente gentile quella della ghirlanda, [185] ove si assembravano molte dame e cavalieri, ciascuno portava un’erba e un fiore, per formare una mistica ghirlanda; e davasi lode a chi meglio avesse o scelto il fiore od appostato il proprio.
Siccome poi nella scelta di questi fiori conveniva dare ragioni perchè si elegesse piuttosto un colore che un altro, meglio una rosa che un giacinto, si formò un linguaggio, una simbolica di fiori: così il verde indicava speranza, il rosso amore, il bianco innocenza; e vi avranno avuti altri significati appartenenti alla collocazione ed alla scelta, de’ quali col volgere delle età si è perduta la memoria ed è certo che si adoperasse anche in cose più gravi, poichè troviamo in Dante che ad indicare la sconfitta d’una fazione, usavasi porre un giglio capovolto sull’asta.
Però siccome gli uomini ritornano sovente sulle stesse usanze, non sarà inutile a induzione della pratica antica, ricordare come gli orientali usino tuttavia dare un segno ideografico ai vegetabili, e formarne un linguaggio. A indicare amore e speranza, si offre una rosa colle spine e colle foglie; se non resta nulla da sperare nè da temere, tiensi capovolta; se alla stessa si tolgono le spine, annunzia tutta speranza; invece tutto timore se è spampinata. Il fiore d’arancio collocato sulla testa indica affanno dell’animo; posto sul cuore, travaglio amoroso; sul petto, noja. Si forma un discorso e col vario modo di tenere un vegetabile, o coll’assestarne molti di specie diverse; e [186] primieramente s’indica la persona che parla quando si piega l’erba a dritta, quella a cui si parla, se è inclinata a sinistra.
Oh! se questo linguaggio fosse di moda tuttavia fra di noi, quanti curiosi ragionamenti si farebbero al corso ed al teatro, dai vaghi e dalle belle! tutti inventerebbero il loro sistema di linguaggio geroglifico, e tutti vorrebbero indovinarlo, e forse correrebbero nel segno come Klaproth, Champollon e Janelli cogli egizj, che tutti distruggono a vicenda gl’inventati sistemi, tutti leggono sulle piramidi, e forse non le intesero ancora nessuno.
Ognuno quindi vede che in quegli anni della sorgente civiltà italica, esser dovea il primo di Maggio giorno di bella letizia: Oh quanti desii avranno sollecitata questa aurora! quanti taciti amanti che timidi non osavano aprire il loro pensiero, avranno attesa quella notte per portare alla invidiata casa i loro fiori! e quanti pensieri avrà svolti l’umana malizia a interpretare d’onde venivano! Il guai maggiore sarà stato per quelle signore, che avendo un cuore molto sensibile, sono necessitate aprirlo a molti sospiri di molti altri cuori sensibili; e se tutti questi appassionati avranno innalzato sotto la loro finestra il Maggio, ne sarà uscita qualche bella novità!
Tanto infatti avvenne in Milano e son tre secoli passati, e ve ne do qui una storia, che ho cavata da un manoscritto in pergamena, che conservava un giardiniere, il quale lo aveva ereditato da un [187] ortolano: è un mazzolino di rose, forse appassite e con molte spine: sono un misero cultore di fiori, e vi do i pochi che mi produce la povera ortaglia.