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Defendente Sacchi
Novelle e racconti

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II.

Un proverbio milanese

 

Chi mai sul calare del secolo xv tribuiva un ossequio alla gentilezza in Milano, e non ricordava Francesca, la bella di Porta Vercellina? Qual bocca che avesse barba, non le inviava un sospiro? qual viaggiatore poneva piede nella città di Belloveso e non accorreva a vedere il Duomo che da quasi un secolo si veniva elevando, e la contrada del Nirone di s. Francesco ove la vezzosa abitava splendido palagio? E certo era donna avvenente nell’età più bionda, sposa a ricco signore che le tributava puri affetti, e tutte le dovizie degli avi per renderle gradevole la vita.

Ambrogio la vide fanciulla in Porta Tosa, e ne fu preso; vestì i suoi colori per insegne, corse per un anno le giostre e i torneamenti per mostrarsele prode cavaliere, usava le feste ove ella appariva, volava su destro corsiero lungo la via ove ella abitava; e al Maggio le innalzò innanzi alla casa ricco trofeo di fiori, e la chiese in isposa.

[188] Dopo pochi mesi si fecero le nozze belle e splendide, e Ambrogio tenne corte e conviti, e donò largamente a quelli che vi fecero onoranza, e si disse il più beato dei viventi. E lo fu per alcuni anni, e Francesca era soave e affettuosa allo sposo, e lo rispondeva di puri affetti e di bei costumi; ed all’aprirsi della primavera vedeasi solo innanzi alla casa il Maggio che le ricordava l’amore del marito.

Ma che non può la seduzione della lode in cuor di donna! Quando passava nelle vie si fermavano ad ammirarla i cittadini, e prima apparivaonesta che non osavano fermarle gli occhi sul volto, ma a poco a poco quella frequenza di ammiratori la allettò di vana ambizione; rispose con vezzo ai saluti, con compiacenti sguardi alle loro parole. Indi le parve nojosa la domestica quiete, scarsa alla propria avvenenza la devozione del marito; desiderò i tripudj e l’ossequio di molti: invidiò le rivali, e agognò d’avere sola voce di bella; corse alle feste, alle danze, allettò coi vezzi e colle lusinghe molti adoratori, scemò le cure che aveva pel compagno, e spogliò quella modestia che la rendevaavvenente, ed aprì il cuore a nuovi affetti.

Dopo pochi mesi in primavera, col Maggio del marito apparve innanzi alla sua casa un’altra pianta ricca di più eletti fiori: ne corse per città la novella, e Francesca n’ebbe lode; le altre donne la invidiarono, ed ella ne fu lieta e ne [189] seppe cortesia a chi lo aveva offerto. Il marito gliene gittò incresciose parole; ma ella il querelò di indiscreto e pianse, perchè volesse renderla misera fra la domestica schiavitù. Indi invanita e fatta più baldanzosa, adescò nuovi adoratori; ed all’altr’anno nel primo di Maggio apparvero quattro piante compagne a quelle di Ambrogio, e più alte e belle d’ogni altra levata in Milano, e tutti la lodarono, e Ambrogio ne dolse, ma in segreto.

Francesca al suono di quelle lodi, alla gloria di quegli ossequj universali, sente gonfiarsi di nuova ambizione: follemente si gitta al conquistare amanti; nei convegni come una civetta sul gruccio, gira il capolino intorno; all’uno una parola, all’altro un’occhiata, un sorriso; e tutta la fiorente gioventù le corre d’attorno, e dove ella appare sono deserte le altre donne. Ambrogio sente prossima l’onta e gliene fa nuova doglianza; ella il dileggia siccome nojoso, e maraviglia perchè non le sia grato se i più eletti cittadini, in grazia sua gli fanno continui ossequj. Vide il misero che al male non valeva piccolo rimedio, pianse in segreto, tacque e attese sussidio dal tempo.

Scosso il timore del marito, Francesca si lasciò più libera a’ suoi perduti consigli. Ove prima vestiva con eleganza, ma con bella decenza, fu desiderosa di seguire tutte le nuove foggie, volle gli abiti più sfarzosi, e che le lasciassero apparire nude le braccia e il petto; pigliava nuovi [190] ornamenti ad ogni giorno, e le pareano sempre scarse, frange, merletti, guernizioni e acconciature con fiori, con oro e gemme. Aprì la casa agli amanti, e volavano tutte le ore fra giuochi e ricreamenti: correa le contrade, muovea a passeggi e la seguivano lunga schiera di adoratori, e cianciava con tutti, ed a tutti dava vezzi e speranze. Si rendeva a sant’Ambrogio alla domenica tutta arredata come se apparisse ad una festa e profanava cosguardi e motti indiscreti la santità del loco. Venne l’autunno e folleggiò sui colli briantei, e fra le orgie della vendemmia parve un’aulica baccante, e ne vergognavano i semplici contadini, ne’ cui petti era ancora vergine la virtù. Giunse il verno e il carnovale, ed ella fu a tutte le feste, e di continuo fra i balli e le cene; e dove non se ne tenessero altrove in città, le dava in propria casa, e tumultuava la danza ove non furono che i taciti ricreamenti domestici, e fervevano la galanteria e i vizj, ove non furono che i puri maritali affetti.

Intanto i giovani milanesi non parlavano che della Francesca, e siccome erauniversale, la chiamavano a confidenza in patrio dialetto la bella Cecca; ed ella ne compiaceva: gli uomini desideravano avvicinarla e aversi le sue parole, e ne facevano pompa cogli altri, quasi fossero imparadisati da un suo sguardo. Delle donne poi, alcune si studiavano imitarla, e godeano sentirsi dire che la rassomigliavano, o nella acconciatura, [191] o nell’andare, o nel portare della persona, e s’accontentavano, scimie discrete, dei secondi onori. Molte la invidiavano e s’ingegnavano rivelarne i difetti, o censurarne gli abbigliamenti; e perchè spesso era vaga di troppi ornamenti la deridevano chiamandola in milanese — la sciora Cecca di berlinghitt — cioè dai frondoli o cianciafrustole. Parecchie meno prudenti, la bestemmiavano perchè rapiva loro i galanti; quasi tutte poi non vedevano la causa perchè ella avesse tanti adoratori, e per quanto si credessero indulgenti non sapevano trovare in lei spirito, bellezza.

Francesca sapeva tutte queste dicerie e le ripeteva quando era più frequente l’adunanza de’ suoi amici, ne faceva lunghe risate, compassionava le malediche siccome poverine rabbiose nell’abbandono; e i suoi vaghi le davano sempre ragione, plauso e lodi. Ambrogio vedeva, si stringeva nelle spalle e taceva.

Intanto si scioglie il verno, e la quaresima impone la penitenza, e la svergognata appare alle Sagre, elegante e cinta di amanti, come ai balli; giunge Pasqua fiorita ed ella per la prima rinnova i tripudj del carnevale, e corre fuori dalla città a spigolare le viole primaticcie ne’ campi, e le sporge agli adoratori, e tutti vanno orgogliosi d’ornarsene il petto, e inchinandola le dicono di volerla ricambiare al Maggio, ed ella con un sorriso rafferma la promessa.

Volge l’aprile al suo fine, e già tutti amici e [192] rivali sommessamente presagiscono a lei gli onori del trionfo nella festa dei fiori. È la notte del primo Maggio, e sorge in Milano un movimento, un bisbiglio: padroni e servi, uomini con piante sulle spalle, con zappe, con picche, fanti con erbe e fiori, vanno verso Porta Vercellina, e svoltano sul Nirone di san Francesco. Ivi un andare e redire continuo, un dare ordini, un lavorìo che ferve fino all’alba. Viene la mattina, uomini, donne, signori e volgo si levano di buon’ora; corrono la città per vedere ove siano i Maggi più belli, corrono al Nirone, alla contrada della bella Cecca. Aspettavano grandi cose, e sbalordiscono che il fatto vince l’immaginazione. Tutta la strada pare una selvetta di piante cariche di fiori, di fregi dorati, di augelli che tengono piacevolmente bordone fra le foglie; tutte le pareti, le porte, le finestre sono addobbate di ghirlande, di palme, di maj; insomma è la via un giardinodelizioso che non seppero immaginare e dipingere poeti e trovatori. S’addensano le genti nella contrada, guardano, levano meraviglia; altri maligni, dai Maggi enumerano la moltiplicità degli amanti, e ridono: altri chinano il capo perchè si osi conculcareimpudentemente in pubblico il pudore; e crescono le turbe, e variano i consigli, e sorge un confuso bisbiglio di voci diverse.

La Cecca aveva vegliata tutta la notte, agitandosi fra le coltri nel pensiero del vicino trionfo: a fatica si tenne di non correre più volte [193] alla finestra: udiva però il fervere del lavorìo e ne gioiva; il marito sapeva quanto avvenisse nella contrada e taceva.

È appena d’un’ora alto il sole, e l’ambiziosa, impaziente, lascia le ignave coltri, e chiede i più leggiadri arredi, si orna colla maggiore eleganza. È alla tavoletta, si agita fra alberelli di essenze, calamistri e pettini; inquieta s’adatta alla persona alla gola un coreto, un collare, consulta lo specchio e se ne spoglia e ne assume altri; lamenta d’un aghetto non abbastanza teso, d’uno spillo male appuntato, d’un riccio smosso; ma fra tanta faccenda interroga le consce cameriere, che le sono ansanti intorno, di quanto videro, e ode la ricchezza, il numero dei donativi, e ne gode, e già in suo pensiero si crea la regina dei cuori.

Sollecita: è vestita di tutto punto, più volte si osserva nello specchio aggirandosi da ogni lato, e dato plauso a se stessa, con un sorriso s’appresta a ricrearsi della vista di tanti trofei votivi alla sua deità. Accorrono ad un suo cenno i servi, aprono in un tratto tutte le finestre della casa, e Francesca con passo grave, con alto il capo, si appresenta al balcone; innoltra fino al davanzale, si sporge con metà la persona in fuori, e folcendosi colle mani si piega mollemente sulla schiena; indi gira il bel capo da ogni lato, e lo scuote compiacente, e passeggia lo sguardo sulle turbe, come chi si degna di bearle; ride, si pavoneggia e pare dica: chinatevi, io sono la più bella di questi fiori.

[194] Quella sua oltracotanza incitò la nausea fra le persone che dalla strada la guardavano, e sorse un involontario grido di alcuni: il credè ella un plauso e se ne compiacque. Ma la virtù che nella donna dormiva per ambizione, non taceva nell’animo de’ buoni cittadini, e furono indignati che si osasse gioire nel vizio, menarne trionfo e offendere la pubblica modestia; sorge un movimento inquieto, e cresce come onda sferzata dal vento, vi seguita un bisbiglio, e varie voci incomposte. Francesca invanita le crede ancora un plauso e ne galluzza, si pavoneggia e solleva la testa; ma tosto la molesta, la fere, la scuote, un frastuono di grida, d’urla e di fischi.

Impallidì, gelò: Francesca appena potea credere si osasse tanto verso di lei, cui tutti prestavano ossequio e venerazione: volea sdegnarsi, volea d’uno sguardo severo raumiliare quelle turbe, come adoperava alle danze cogli amanti: ma quelle arti sono vane ove non è corruzione individuale, e più strepitoso sorgeva il clamore del pubblico biasimo. Allora tremò, fu presa da subito brivido, se le irrigidirono le braccia, torse gli occhi e cadeva sul battuto del balcone, se non accorrevano a raccorla, pietose le cameriere: la ritrassero e l’adagiarono esanime nella prossima stanza.

Sbigottirono le donzelle vedendo il dolente stato della loro signora, e l’ebbero per morta, e non avendo alcuno che la soccorresse, levarono intorno a lei miserrimo compianto: poi come le strinse [195] necessità di consiglio, sì le furono intorno con acque ed essenze odorose, che a poco a poco le richiamarono i sensi smarriti. Parve che Francesca si destasse da lungo sonno, e fisava quelle che la soccorrevano quasi dimandandole che fosse avvenuto; ma tosto la scuotono le grida e i motteggi delle genti nella strada e le richiamano l’occorso. Allora è presa da subito dispetto, passeggia a fretta l’appartamento, dimanda se non sono ancora apparsi i suoi amici, che aveva convitati a colazione il giorno addietro, e giura che richiederà da loro vendetta degli audaci che osano dileggiarla. Guarda, chiede, spedisce fra le smanie che l’agitano in traccia di loro varj servi, e niuno appare, poichè fra quello schiamazzo, alcuni non osavano porre piede nella sua casa, o si ritraevano silenziosi dalla contrada; altri vedendo omai la loro bella caduta dalla pubblica opinione, si ridevano di lei, e si sarebbero tenuti vili apparire fra i mille adoratori. Anzi ritornavano alcuni domestici, e le riferivano gli strani motteggi con cui la proverbiavano i signori pei quali aveva mandato, e aggiungevano alcuni avere risposto, che tra tanti amanti, ella non abbisognava di loro, e che non intendevano avere ancora a che fare con una donna svergognata. Pianse di rabbia, ricorse la stanza, gittò a terra e calpestò quanti ricordi aveva de’ suoi vaghi; e maledisse il momento che gli aveva conosciuti.

Pensò quindi che convenisse fare abbattere quelle [196] piante sgraziate e que’ fiori sicchè tolta la causa cessasse il richiamo de’ curiosi: ma era invano; nessuno osava de’ servi porre mano all’opera. Intanto accorrevano in quella contrada da ogni parte nuove persone, e ridevano, e con mille dileggi narravano in pubblico tutti i segreti della bella; indi si aggiungevano grida indiscrete, e già alcuni più tristi la mettevano in canzone e cantavano — La Sciora Cecca di berlinghitt — Alla mattina la fa i gattitt — El podisnaa ghe la tetta — E viva viva la sciora Cecca! — Trafiggono quelle parole e que’ canti la donna, la stringe ira e dolore, smania, si strazia le vesti e i capelli, ed è presa da tanto affanno che poco meno è morte; disperatamente si abbandona sur una sedia, e cade in dirotto pianto.

Finalmente dopo tante ambascie, senza soccorso, derelitta da tutti, le sovvenne del marito: parve le balenasse un raggio fra la confusione de’ pensieri che l’occupavano, parve che in cuore le parlasse una speranza; ma tosto trascorse colla mente a quanto ei le avesse pur detto, per ritrarla da que’ suoi capricci, e quanto il misero avesse per due anni sofferto; e quasi le mancasse il mondo sotto a’ piedi ricadde sulla sedia e riprese il lagrimare. Pure fra interrotti singhiozzi, leva la testa, nomina il suo Ambrogio — Ah sì! mi fuggi tu pure, e n’hai ragione; io ti ho reso la favola di Milano, io ti tolsi la pace, io ti ho fatto infelice... — e le ricadeva il capo abbandonato e smorto come un fiore sbarbicato.

[197] In questo mezzo, sente due mani che dolcemente la stringono alle spalle, ode una voce che le ravviva una cara, un’antica reminiscenza: si scuote, è Ambrogio che le è vicino, che la chiama. Egli era stato a lungo celato in una vicina stanza, e tutto aveva osservato: aveva udite quelle grida dalla strada, aveva notati i primi motti ambiziosi esultanti della donna, l’ira e le furie che vi seguirono, e il rincrescimento e il dolore: aveva udito quel dimandarlo, quel pentimento, e quelle lagrime... Ah quelle lagrime gli caddero sul cuore! alzò gli occhi al cielo, e fu lieto chè gli parve d’avere riacquistata la sua compagna, e volò a confortarla: — Ah! mia amica, Francesca!...

Appena ella il vide si fece tutta rossa come una bragia, e si nascose con ambe le mani il volto, e singhiozzava.

— Ah! non merito no, questo nome! io sono schernita, io sono abbandonata da tutti.

Ambrogio le stendeva le mani, e le stringeva la testa — Abbandonata da tutti! e non vi sono io? dunque son sì misero che più non curi l’amor mio?

E l’altra sempre a capo chino — E il merito ancora? Ah! se tanto mi concedesse il Cielo, io sarei la donna più fortunata... ma l’amor tuo! io l’ho perduto, e lo meritai...

— Taci, non contristarmi: omai vedesti quanto sono fallaci le lusinghe degli uomini... e se a me ritorni, qual eri allorchè ti sposai, io tutto [198] ho dimenticato... te lo giuro per questo nostro anello nuziale.

Il fisò Francesca maravigliata — Oh Dio! e tu il possiedi?

— Sì, fu ricordo che tu davi a un tuo vago, ed ei lo donava a una donna perduta del volgo... ed io il seppi, e lo raccolsi ed ora...

Ella fu per cadere di vergogna — Me misera! e vivo? e ti son vicina? Ah maledizione a’ miei pazzi traviamenti! spingimi lunge da te, punisci...

— Sposa, omai cessa, e più non si parli del passato: eccoti l’anello, e ancora io te lo offro pegno del nostro puro amore; lo accogli? —

Francesca non osa rispondergli, le prende un tremito per tutta la persona, tiene abbassata la fronte, ma dubbiosa quasi in atto di chi dimanda misericordia, gli protende le mani. Ambrogio con fuoco le stringe la sinistra, le pone l’anello nel dito nuziale, lo bagna d’una lagrima, la chiama cara sposa: ed ella palpita, riconoscente gli prende le mani, le accosta alle labbra tremanti, vi imprime mille baci e le bagna del suo pianto. Cede il timore, e la ritrosia, si chiamano affettuosi, si guardano in viso cogli occhi ardenti d’amore, e si stringono, si confondono l’uno nel seno dell’altro.

Li riscosse da quell’amplesso il clamore delle turbe nella via, e il canto che dileggiava la donna: essa guardò il marito e nulla disse: Ambrogio la strinse a un braccio — Ti acqueta, e attendi.

[199] Scomparve, chiamò i servi, diede alcuni ordini; s’inchinarono in segno di ubbidienza ed ei ritornò a Francesca, che non osava interrogarlo: se le assise piacevolmente al fianco e si pose a parlarle d’alcune domestiche cose come il primo delle nozze: ella gli rispondea riconoscente, ma pur sempre tremava ogni volta che la ferivano quelle risa indiscrete dalla via.

Dopo poco apparvero nella stanza due servi con trombe di pubblici banditori, e andarono sul balcone: Francesca trepidava, la moltitudine della strada guardava curiosa, e quei banditori diedero fiato alle trombe, e indissero silenzio. Come tacquero que’ rauchi suoni, una voce altamente gridava: — Avanti signori, avanti chi desidera erbe e fiori: il signor Ambrogio ne ha istituita oggi nella sua contrada una fiera; la sua sposa rifiutò il Maggio de’ conoscenti, ed egli a risarcirla qui tutti unì tanti fiori, fatti venire da lontane contrade, per fare grazia in suo nome ai giardini dei signori Milanesi: oggi ei li dona a chi li chiede per buon principio alla fiera; altra volta qui converranno coi loro fiori giardinieri d’ogni parte, e se ne farà pubblico mercato — E danno nelle trombe e confondono col suono i clamori diversi che sorgono fra quelli che udirono, e trasognano alla novità.

Intanto nella via grande numero di servi abbattono quelle piante, levano le ghirlande, e solo resta intatto nel mezzo l’antico Maggio di Ambrogio. Si spartiscono a’ chiedenti le erbe, le piante [200] e i fiori, e tutti, presane la propria parte, se ne vanno facendo meraviglie, e in breve è deserta la contrada.

La novità fu in poco d’ora riferita da quei che ritornarono in ogni parte di Milano: le parole furono molte, e chi la intendeva in un modo e chi in un altro; gli amanti della Cecca, prima per isfuggire il dileggio della moltitudine, poi per non essere scherniti dalla savia condotta di Ambrogio, si tacquero, e niuno disse d’averle elevato il Maggio: quindi sorsero diverse opinioni, e molti diedero credito a quanto fu proclamato dai banditori. Alcuni si levarono a difesa della Cecca, e si biasimava all’onta che se le era usata.

Allora parecchi de’ suoi galanti, posta la ritrosìa che nasce negli animi leggieri nelle sventure, pensarono ritornare a lei, e furono alla sua casa, e chiesero di baciarle la mano. I donzelli li annunziarono ai due sposi che stavano nella stanza di ricevimento assisi vicini a un picciolo tavoliere, prendendo una refezione: Ambrogio non rispose, fece cenno alla moglie siccome cosa che le spettasse; ed ella piacevolmente:

— Dite a que’ signori, che io non mi diparto dalle leggi della galanteria, e non intendo ricevere i cavalieri che non le seguono; chi oggi non offrì il Maggio alla dama, è sleale cavaliere; ed a me solo oggi lo tributò il fido marito; quindi ei solo io desidero a mio compagno. — Fu vana ogni istanza, ebbero tutti eguale risposta, e tutti partirono a capo chino.

[201] Alla dimane, era di nuovo tutta fiorita la contrada come il giorno prima, e nuovi araldi annunziavano per la città, che era sul Nirone la fiera dei fiori, e tutti vi accorrevano e li aveano in dono: lo stesso seguì al terzo giorno. Ambrogio donò largamente a tutti, e al quarto uscì di città colla cara compagna, e andò a villeggiare per molti mesi sul lago di Como.

Correvano varie opinioni in Milano dell’occorso, e i più maligni solo diceano che più non si sarebbe rinnovata quella commedia; e dopo un mese come suole di tutte le cose, più non se ne parlava.

Ambrogio sapeva quelle dicerie, ed attendeva come solea il tempo. Era prossimo l’ottobre ed ai quattro del mese correva il giorno onomastico della sua diletta sposa, che ognora più ornava l’animo di care virtudi: ei fe’ bandire nel settembre che intendeva si tenesse in quel giorno la fiera dei fiori, che aveva instituita nel Maggio, e si rinnovasse ogni anno per tre in questa stagione; e dava a’ giardinieri, che vi venissero a mercanteggiare, alloggio nella contrada, vino alla mensa e tutti i fiori invenduti egli intendeva comperare per la propria villa. Furono a Milano molti con fiori ed erbe che vennero dai laghi lombardi e dal Benaco, e fino dal mare di Genova, e nell’autunno fiorì sul Nirone di san Francesco la primavera; durò la fiera tre giorni e tre notti, e la contrada era tutta ad ornamenti; in mezzo zampillava una fontana, alla notte [202] splendida illuminazione e fuochi artificiati; e sempre a tutti i mercanti si davano largamente vini preziosi; accorrevano a quel nuovo spettacolo i Milanesi d’ogni condizione, e comperavano di que’ vegetabili, e davano lode al signor Ambrogio ed alla sposa, che però non apparvero in pubblico per isfuggire gli sguardi altrui; e in vece nella queta casa convitarono pochi ma buoni amici.

Ogni anno si rinnovò all’ottobre la fiera, e i due sposi beati godevano ricordarsi nella presente fortuna, il burrascoso onde sorse il sereno della loro vita. Fu la Cecca esempio di virtù alle donne, di ravvedimento alle galanti, e Ambrogio di affettuoso e leale marito, finchè vecchi, ma pure amanti, si posarono in pace.

Però dura ancora in ottobre l’uso di quella fiera in Milano, dura ancora nella memoria del volgo — la sciora Cecca di berlinghitt. —

[203]

 

 




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