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Defendente Sacchi Novelle e racconti IntraText CT - Lettura del testo |
S’alza nel tempio una preghiera fra il canto dei Leviti e la devozione de’ fedeli, canto di mestizia che richiama i patimenti di chi redense gli umani, e devozione di genti commosse al gran mistero: s’alza nel tempio una preghiera, e muove dal cuore di una donna sì rapita a devozione, che pare un Serafino. Di forme avvenenti e leggiadre, avvolta in modesti panni, raccolto intorno al capo il velo che le cade sul petto e sulle spalle, sparge dalla soavità del viso un’aura d’amore, dalla modestia degli occhi la testimonianza delle virtù che [204] la fregiano. Nè falla quell’apparenza, poichè casta di pensieri, amante allo sposo, soave d’affetti, gelosa della propria pudicizia, innalza la preghiera al cielo perchè le conservi sempre puri i sentimenti dell’animo. Ah! tu preghi, o bella, e arde nel tuo petto un santo amore conjugale, e sollevi gli occhi per devozione, nè vedi che poco lunge presso una colonna del tempio, un uomo nell’età fiorita, ti guarda e palpita e ti accoglie nell’animo: hanno fine le sacre funzioni e t’avvii alla casa col pensiero allo sposo, nè curi che quell’uomo ti attraversi la strada, ti guardi importuno, ti segua molesto. Passano i giorni della mesta settimana, e fiorisce la Pasqua, e tu cammini fra le vie della tua Avignone, ti diporti fra i campi suburbani, e ti rallegri perchè sulle piante e sul suolo vedi germogliare la primavera, e non t’accorgi che questo uomo ti segue e nota ogni tuo motto, e sospira. Oh! ma chi ne prende sospetto, s’egli è in ogni luogo, primo ai passeggi, alle feste, alle corti bandite; primo fra sapienti e trovatori; nei consigli dei re e de’ papi? è l’uomo universale: ognuno l’ossequia, ognuno lo nomina a dito, nè donna o cavaliere presume tanto di sè, che possa credere di meritare gli volga due volte lo sguardo Francesco Petrarca.
Eppure egli è preso d’amore: signor del mondo s’è fatto servo di due begli occhi e corre a bersi la luce ov’essi risplendono, a respirare l’aura ove quella donna respira. Tra la frequenza delle [205] feste, nelle radunanze cortigiane, egli avvicina Laura e le parla parole cortesi e gentili, ed ella gli risponde come suole grave ed onesta; e l’un sospira e l’altra non se ne avvede.
Passa alla mattina il Menestrello per la strada e canta la cantilena di Rolando, canta i Cavalieri della Tavola Rotonda; poi le ballate di Dante, le canzoni di Casella: il popolo ode, applaude, e il poverello gli dà l’obolo, ed il signore la veste. Ritorna il Giullare al canto e dice novità per accattare nuovi doni, dice la Sirvente del trovatore di Provenza, ed in voce più soave il sonetto del poeta italiano — Era il giorno che al sol si scoloraro — Per la pietà del suo fattore i rai — e narra di uno che in quel mesto giorno è preso d’amore, e la sua amata non se ne avvide e nol cura. Tutte intendono gli animi a quelle dolcissime querele, ma dimandano invano chi sia quel poeta e chi la donna.
Ode anch’essa la bella francese que’ versi e vi applaude, e manda al cantore un dono: intanto passa per la via un uomo famoso nel secolo, ma poco noto qual poeta volgare; guarda al balcone, saluta Laura ed ella risponde modesta e si ritrae collo sposo.
Dopo pochi giorni, era assente Guido, era deserta la strada, era l’ora inusitata; s’ode la voce del Giullare, e la donna trae al balcone ed ei canta novità. Incomincia con voce armoniosa versi dolcissimi — Quel che infinita providenza ed arte — [206] e narra che il Creatore fece grazia a un picciol borgo di sì bella donna — Talchè natura e il luogo si ringrazia. —
Sono intorno il popolo e i fanciulli e nulla intendono, e la pudica applaude dal balcone ai versi e non invidia quelle lodi, non desidera sapere a cui si mandino, e dona al Menestrello: allora egli afforza la voce e canta ancora novità — Quando io movo i sospiri a chiamar voi — E il nome che nel cuor mi scrisse amore — e segue e intreccia parole di laudare e reverire, sicchè palesi che una Laura è la dama cui si volgono i lamenti del poeta; ei faceva più forte e più soave la voce quando parlava di lauri; e Laura diveniva tutta vermiglia dubitando non si credesse essere quei versi a lei diretti, e incerti girava gli occhi e voleva ritrarsi. Allora sbocca da una celata strada l’uomo del secolo e volge gli sguardi alla bella e il Menestrello ripete —
Se non che forse Apollo si disdegna
Che a parlar de’ suoi sempre verdi rami
Lingua mortal presuntuosa vegna —
e il poeta salutava Laura d’un sorriso che gli annunziasse l’amante. Allora le fu aperto il segreto di que’ misteriosi versi, di quelle frequenti apparizioni, di quegli sguardi, di quelle parole del Petrarca, e n’ebbe dolore. Al saluto di lui rispose d’un grave e severo inchino, sicchè gli accennasse [207] che i suoi affetti e pensieri erano puri, erano del suo compagno, e niuno osasse alzare tant’alto il desìo.
Dopo quel giorno ei divenne più amante ed ella più austera, e invano le giugneano all’orecchio i lamenti del vate, colla voce soave d’una favella sì che s’ingentiliva nell’espressione delle sue avvenenze. Austera al poeta quando le veniva d’innanzi e quando le parlava; ei ne sentì nell’animo grave rampogna e disperato affanno: cercò nuove genti, corse l’Italia, visitò i cenobi e le corti, e trasse dalle dimenticate pergamene la sapienza degli antichi. Fra quelle cure lo solleva un pensiero, resta tacito e silenzioso, scorre la mente fra celestiali bellezze e costumi, e cadono sulla carta alcuni versi; è il pensiero d’amore, è il pensiero di Laura: sono i canti che esprimono que’ suoi affetti ascosi.
Pure contrastava sovente colla coscienza d’un rigido dovere, egli si apponeva a colpa un desiderio, che sebbene non fosse diviso, turbava la modesta virtù d’una casta sposa. Poneva le speranze, proponeva di fuggirla e fare alta emenda con una severa virtù; ma vinceva la passione veemente che reggeva ogni suo sentimento, e scriveva nuovi versi d’amore, e ritornava nell’aere sacro e sereno ove splendeano i begli occhi di lei, a bere le chiare, dolci e fresche acque ove ella deterse le belle membra; a baciare il ramo, l’erba e i fiori ch’ella alimentò d’uno sguardo. E tu udisti [208] amena Valchiusa la sua voce, e lieti ripeterono i tuoi echi parole d’amore e di galanteria in una nuova lingua a te innanzi ignota, e con una dolcezza che non udrai più mai; e il tuo nome, valle avventurata, vinse quella di Tempe che fece sacra il Venosino: quella accolse parole di voluttà, e fra l’armonia de’ canti udì il rude grugnito del gregge di Pirone; e tu una voce udivi di cielo che si componeva fra le armonie dell’universo, ad encomiare l’essere più perfetto che formò il Creatore nella sua prima idea, perchè temperi le miserie dei mortali.
Ma la bella Laura era pur fida al marito e in lui poneva solo la felicità della sua vita, nè pur mai aprì il cuore ai lamenti del suo poeta. Oh! qual donna potè resistere alla seduzione di una gloria che s’inchinava al suo piede! Salve, Laura, che se avesti onori celesti da chi ti amò, ben meriti se serbasti tanta virtù, d’esser beata in cielo.
Però quelle lodi che correvano nei canti della nazione, fra una nuova poesia di gentilezza e d’amore, adogliavano la pudica francese; quegli sguardi de’ curiosi, l’essere segnata da tutti coloro che la vedeano, erano crude ferite alla sua modestia e ne pativa nell’animo. Sovente ella si dolse della propria avvenenza, e sovente colle lagrime agli occhi ne chiese perdono al marito temendo ei la dubitasse lusinghiera. La rassicurava con cari vezzi Guido che assai fidava nella virtù di lei, [209] ma ella pur languiva come fiore che apre il seno allo spirare di tiepid’aura, ed è percosso poi dalla continua brina di gelide notti.
Aveva intanto di nuovo il Petrarca a lungo peregrinato; ai versi d’amore, scritti nel volgare della sua patria, aveva associato un grave canto nella lingua del Lazio: i re lo assisero presso il loro seggio, Roma gli recinse la corona del lauro immortale, la nazione lo salutò il maggiore de’ viventi.
Tra quella fortuna che gli fa lieta la vita, spesso gli corre una nube sulla fronte, ne turba il sereno, e lenta scompare: è l’immagine di Laura che se gli suscita in mente, è la sua antica passione che lo commove; sospira, pensa, e s’acqueta in un interminato desìo: beato quando colle rime può spargere i sospiri onde nutre il cuore!
Ma una nuova fortuna gli viene ad allenire alquanto quell’affanno, che in lui cresce allontanandosi da Valchiusa per rendersi a Roma; e da Bologna volge addietro il guardo, e plora perchè gli fugge la vista delle Alpi. Quivi si abbatte per via in un uomo d’età matura, che il vede, gli corre incontro e il saluta come si suole con chi ne stringe ad un tempo amicizia e rispetto. Petrarca gli fa buona accoglienza, e meraviglia come ei lasciasse la sua Siena; e l’altro gli risponde d’essere chiamato dal Pontefice in Avignone. A quella notizia balena sul volto del poeta un pensiero, quindi gli spunta sul labbro un sorriso [210] ond’era sì scarso, e sporge la mano all’amico — Ah, Memmi! dammi la tua fede: voglio da te un gran favore, e t’affido un mio segreto. — Memmi gli stringe la destra e lo rassicura.
Allora Petrarca prese la sinistra dell’amico e l’intrecciò nel suo braccio e lo condusse alla casa del suo alloggio: si chiusero in una stanza, e vi stettero a lungo, nè alcuno osò spiare i loro secreti. Dopo qualche ora furono visti passeggiare di nuovo per la città, scambiare molti discorsi, e sul volto del poeta era una letizia inusitata, una speranza. Dopo poco si divisero; Memmi correa le strade, vallicava le alpi, giungeva in Avignone, chiamava notizie di Laura e udiva che era mesta, timorosa di essere tenuta lusinghiera al poeta e meno modesta. Ei voleva avvicinarla, e porre piede in sua casa e non gli fu concesso; procacciava vederla ai passeggi, alle feste, e mai non vi appariva: la raggiunse nel tempio, fra la devozione, ed era sempre raccolta, gli occhi inchinati e avvolta nel velo, e rare volte il rimuoveva e concedeva a vedere quelle bellezze peregrine. Ma ei pur la seguiva pertinace in suo pensiero, e fu visto più volte guardarla fissamente, accostarsele importuno, ritrarsi in un angolo del tempio, e talora trarre una breve tessera dal seno, e fissarla, sorridere o sdegnarsi, e con qualche cosa che teneva in mano celata, passarvi sopra. Laura s’accorse di quelle importunità e apparve di rado in chiesa.
Intanto viaggiava il Petrarca e pensava all’amico [211] ed alla promessa: ogni volta che riceveva ambasciate e lettere palpitava d’una speranza, e ricadeva nella mestizia vedendola invano.
Parte da Avignone un corriere del Papa per Roma: passa le Alpi e chiede se fu veduto valicarle il Petrarca per tornare in Provenza; passa Milano e chiede del poeta, passa Parma e Bologna e Modena e ne chiede, e si corruccia di non trovarlo, e pare più sollecito di lui che della propria missione. Giunge a Firenze e appena è alla porta, domanda se vi è il Petrarca, e ognun risponde che vi arrivò da pochi giorni. Corre la novella del corriere che chiede dell’uom grande ed è recata a lui; ei se ne compiace e muove per andarne in traccia; ma in quel punto il corriere gli è innanzi, gli porge un piego, gli nomina un amico: il Petrarca s’allegra, gli stringe la mano e si dividono. L’uno vola pel suo viaggio, l’altro si ritrae nelle fide sue stanze e palpita nell’aprire quel piego: svolge una carta, ne toglie un’altra, ne lacera una terza, trova due assicelle e sorride; rompe i nodi che le congiungono; le divide e prende con mano tremante quella che ha un orlo intorno al fondo, solleva un velo, e guarda e non sai se è una statua o persona viva. È un’effigie su quell’assicella, un’effigie di donna, è un ritratto a matita.
Dopo lungo silenzio si scosse, sorrise, chiamò Laura, le parlò: poi posò quella tavoletta, la riprese, la ripose ancora, la chiuse in luogo sicuro [212] e uscì di casa, e andò come frenetico per Firenze: ritornò tosto, la trasse dal ripostiglio e palpitante non si saziava di guardare quell’effigie. Dopo due giorni di delirio, si ricordò dell’amico che la mandava e venne un altro desiderio: — Oh perchè non è a colori! — Desiderò che Simon Memmi fosse vicino per sciogliergli il dubbio, e si sovvenne che nel plico era una lettera; la trovò, la lesse, e udì la durata fatica per ritrarne que’ pochi segni, e il mandare un disegno di quelle belle forme perchè non fosse intanto frodato di quella presenza, e la promessa di fargli a maggior agio un ritratto a colori sopra tavola. Udì che Laura era triste, e se ne dolse: guardò il ritratto e si rallegrò, e prese a scrivere per ringraziare il pietoso amico, e gli scrisse soavi versi e gli parlò di Laura, che la gratitudine è bella se è associata all’affetto più dolce della vita.
Ricco di questo dono egli era beato: l’avea seco ne’ viaggi e negli studj, lo guardava e sorrideva; soventi scriveva lamenti d’amore, ma pur talora versi di meno tristezza. Ritornò colle rime alle lodi del pittor Memmi, e quelle rime si divulgarono perchè ogni suo sonetto appena composto, e fuggitogli di mano, era sparso per tutta Italia, copiato e letto da tutti, cantato per le vie e nelle corti dai Menestrelli e dai Giullari. E giunse fino a Laura quella gioja del Petrarca, la notizia di quella rapita effigie, e que’ versi che erano testimoni del furto, e s’accrebbe la sua mestizia.
[213] Ma il Petrarca ne era lieto, e s’avvisava che si fosse fatta mansueta la sua donna, perchè in quel ritratto il pittore gliela aveva rappresentata meno austera: e quasi nel suo immaginare confidava ch’ella dovesse qualche giorno farsi pietosa al suo lungo penare.
Ma non doveva durare molto quella illusione, quella quiete dell’animo suo. La pestilenza aveva corsa Europa, mietute mille vite e fatto sovente palpitare l’amante. Era il 19 maggio 1348, ed ei da Verona erasi reso a Parma: ivi riceve una lettera, la legge, freme e piange: Laura cadde fra i mille.
Dopo quel dì fu chiuso ad ogni letizia: muto, triste, non un momento di tregua, non un conforto; solo pianto. Cercò varie terre, varie città, ma non scemava il suo affanno. Dopo qualche mese di quel disperato dolore, trae quel ritratto dal luogo ov’era in serbo e d’onde prima gli era sempre rifuggita la mano; lo trae, fa forza a se stesso e lo guarda nel dolore. Poscia, presa alquanto di calma, apre il suo Virgilio, e scrive sulla pergamena queste parole:
— Laura illustre per virtù, celebrata a lungo ne’ miei versi, apparve a’ miei occhi ai 6 aprile 1327 nella chiesa d’Avignone sull’alba. Nella città stessa, nello stesso mese, nello stesso giorno, nella stess’ora dell’anno 1348 fu quella luce tolta alla luce nostra, mentre io era a Verona ignaro di tanta sventura. Il corpo castissimo fu collocato ai frati Minori al vespro del dì che morì: [214] l’anima son certo che, come dice Seneca dell’Affricano, ritornò in cielo d’onde è venuta. —
Affidato il suo dolore a quella pergamena, che ora esiste nell’ambrosiana di Milano, gli parve trovare in essa un amico a cui versarlo, e spesso vi posava il mesto capo e prendeva alcun riposo ai tanti travagli. Talora sollevandolo inspirato, pigliava la penna, e maritava ai versi d’amore versi d’affanno; e Laura estinta non fu men grande di Laura che facea beata di sua presenza la terra.
Correva il Poeta di nuovo i monti e le città, era agitato tra le cure delle corti, tra le ambascerie dei grandi, ma sedeva sempre la mestizia nel suo cuore, gli suscitava un sospiro, e quel sospiro si convertiva in versi di lamento. Dopo le fatiche del viaggio pigliava riposo, quietava la persona, chiudeva gli occhi e si spargeva su quel volto una soave pace: ma parea talora che un raggio d’un celeste sorriso si diffondesse su quella fronte: era un sogno di Laura che gli parlava; ma quel sogno fuggiva, ed ei ne affidava alla carta la rimembranza, e lamentava perchè al suono di quelle parole sì pietose e caste, non rimanesse in cielo.
E voi udiste, Euganei colli, il canto dell’appassionato poeta, e tu accogliesti, modesta Arquà il grande alla cui fama è angusto il mondo. Fra quelle amene colline ove ride tanto bello di natura, quanto ne è sparso ne’ versi del trovatore italiano, trascinava quel canuto il debile fianco, [215] andava a Padova, a Verona, a Venezia, ma ritornava pur sempre alla pace dei colli, ed ivi attendeva a’ cari studj, e dolce nell’età matura gli era il riandare l’orme dell’antica fiamma.
È il 1374, una mattina, e il poeta siede nella stanza ove sono raccolti i suoi libri; un pensiero gli spunta sull’animo, e il più caro della sua vita, è il pensiero di Laura: ne fissa l’effigie, corre la mano al Virgilio, apre quella pagina e quella memoria; il pensiero s’innalza al cielo, e china il capo su quella pagina... e più nol solleva.
Un dolore, un corruccio, un darsi e ricevere la notizia funesta, corre Padova, Venezia, Lombardia, Italia, Europa: — Petrarca è morto. — Trassero a folla le popolazioni dalle città vicine in Arquà, e stavano meravigliate a riguardare quel volto tranquillo, su cui pareva riposare il sonno di pace, e piangevano la perdita acerba.
Peregrinano ancora le genti fra la solitudine di quei colli, e visitano devoti la casa ove dimorò Petrarca.
E i sassi dove fur chiuse le membra
Di tal che non saranno senza fama
Se l’universo pria non si dissolve.
Tutti osano scrivere il proprio nome su quelle pareti, e lo meritò uno solo, che sebbene fiero, di spiriti indomiti, sentì potente una passione sublime, e la passione d’amore, e diede all’Italia il dramma [216] come l’antico vi diede la lirica. Io vi trarrò umile, silenzioso, e tutto pieno di pensieri d’amore, ossequierò quella casa e quell’avello; ma ossequierò del pari la memoria d’una donna che fu amata e pianta ed ebbe casti fino i pensieri; e commosso, associandovi una mia dolce ricordanza, ripeterò per quell’aere:
Io vidi in terra angelici costumi,
E celesti bellezze al mondo sole.
[217]