Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Defendente Sacchi
Novelle e racconti

IntraText CT - Lettura del testo

Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

Scery e Luben

Novella sentimentale

 

 

E se non piangi, di che pianger suoli?

Dante

 

Tutti que’ che vedevano Scery la guardavano compiacenti e la proclamavano bella; ella passava oltre senza accennare di intendere quella lode, e alcuni la dicevano fiera, altri modesta; qualche profano indispettito di non vedersi osservato osò dire che non ne capiva niente, e concitò le risate della brigata. Scery aveva due occhi accesi, scintillanti che pareano accorre tanta luce di cielo da risplendere fino nelle tenebre: eramodesta che non li girava mai, e pativa anzichè le venissero tacciati di lusinghieri, fossero creduti immobili; [218] però erano specchio delle sue interne emozioni, sicchè sul viso le splendeva l’alma serena come fiamma di candela in un secchio d’acqua fresca. Portava la testa con grazia, era nell’aspetto piacente, simpatica: intorno al collo recava un ornamento che pareva la criniera d’un leone; bionda il capo e bionde pure le finissime lane onde vestiva la persona. Movea con gravità e leggiadria, severa e dispettosa non pativa che alcuno se le accostasse con familiarità e osasse strisciarle un fianco: non era però selvatica come Madonna Laura, ma chiamata rispondeva volgendosi con tanta grazia che la innamorava. Aveva un cuor nobile e generoso; non recava offesa a’ suoi nemici, sebbene fosse in suo arbitrio il farlo; sentiva gratitudine pei favori che le usava la sua benefattrice.

Luben era bello siccome un Dio, direbbe un grecista come usò Omero di Paride, e si vorrebbe a lodarlo quella divina bocca della antica sapienza. Luben portava alto il capo quasi per ostentare la propria avvenenza: sulla fronte e sul cipiglio non era la melanconia d’un filosofo, ma la nobile serenità d’un artista o d’un romanziere. Prolissa, profumata le scendeva la bionda capellatura fino sul collo, gli fiorivano sulle guancie due folti mustacchi, e due baffi rilucenti gli ombreggiavano la bocca, che quando apriva, mostrava bellissimi e bianchi denti. Vestiva sempre ad una foggia, ma elegante e di colore diverso; snello della persona faceva salti e scambietti come un ballerino.

[219] Luben era il prediletto di due buoni conjugi, che gli usavano ogni indulgenza; quindi era bizzarro, desiderava variare i cibi, starsi sempre fra il conversare più brillante. Amava le femmine e sovente assecondava il capriccio che gli girava pel capo, usciva di casa e stava assente, non senza grave trepidazione di chi lo cresceva con tanta cura. Ma al suo ritorno ei sapeva usare intorno ad essi tante moine e accarezzamenti, che ne calmava lo sdegno, e ne otteneva invece del castigo, nuovi favori.

Scery e Luben erano due creature che unite avrebbero presentata la più bella copia che vivesse sotto il sole, e portagentil prole da invidiarne la madre più affettuosa; ma la sventura dovea troncaredolci speranze.

Ma sento interrompere — Or di’? saranno amabili questi tuoi signori, e già pajono tali che potrebbero stare fra gli eroi dei romanzi de’ quali è sì vago il bel mondo; ma perchè ancora non ne dicesti d’onde fossero e di qual prosapia, se del popolo o grandi? L’uno ne pare un antico Gallese o Scandinavo, l’altra una bella della Senna; agli ornamenti si crederebbero o Turchi o Spagnuoli, alle affezioni, del bel paese d’Italia: or via cavane di curiosità, e perchè meglio s’accresca la nostra simpatia, chiariscine dell’esser loro, e poi segui a impietosirne colla tua storia; narrator di sciagure.

— Oh siete pur curiose, amabili leggitrici! sarebbe forse la prima volta che vi abbattete in [220] personaggi da romanzo, de’ quali l’autore dimenticò la condizione e la patria? Purchè vi abbiano le grandi passioni, e le grandi sventure, a che monta se coloro che la patiscono sieno della patria degli stracchini o del caffè. Pure non sono romantico del tutto, e vo’fare contenta la vostra curiosità.

I miei due esseri privilegiati, non furono educati fra i fantasmi delle nebbie sulle quali cavalcano le anime di Fingallo e di Ossian, tremarono innanzi ad un inquisitore di Spagna, videro saltellare sulla Senna un’intera nazione e credersi sapiente e coprire gli spropositi col nome di dottrina. Scery e Luben tengono appunto della patria dello zuccaro e degli stracchini. I loro padri vennero da poco tempo in Italia dal Congo, e tragittando il mar d’Affrica stanziarono a Napoli, d’onde alcuni loro nipoti transitarono in Lombardia, e a Milano nacquero le due creature che mossero la vostra curiosità. Essi non sono eroi, volgo, padroni, servi; non ostentano titoli, non isdegnano cortesia; sono due esseri posti sotto la tutela della società, la quale di buon grado educa ed alimenta; creature che non hanno nemici, e tutti accarezzano e desiderano; infine... sono due Gatti d’Angola.

E che ridete? e vi par egli tempo che si possa farsi beffe d’un novellatore? Credete forse che queste due creature non possano salire colle loro avventure pari a Teresa e Ortis, a Lucia e Renzo, a Dafni e Cloe? Non hanno anch’essi il cuore e [221] un cuore che palpita come il vostro, amabili leggitrici? e quando vi è il cuore non vi è la macchina del romanzo? non hanno essi pure passioni veementi? non sentono sdegno e affetto? non si chiamano in lor favella quando corrono i tempi d’amore? non si usano cortesie e vezzi, non si appalesano le passioni onde ardono e con ben maggiore fatica che voi non duriate? Infatti voi state languidamente assise sulle vostre ottomane attendendo che venga il damerino elegante a dirvi le tenerezze d’amore. Questi si leva da soffice letto, e profumato e ben pasciuto s’avvia per visitarvi; lentamente procede per le strade agitando fra le dita una leggiera bacchetta, o fumando il suo zigaro, si riposa in cammino ad un pajo di caffè a cibarsi di qualche ciambella, a bersi un bicchiere di madera; e finalmente giunge ansante, vi narra che è sfinito d’amore, che langue, che muore. E voi sempre assise, torcete gli occhi, dimenate il capo, e un riso, un sospiro, una promessa, e la felicità vi sorride da ogni lato. Ora volgete un po’ uno sguardo agli amori di questi esseri di cui vi ridete: non un gabinetto, non molli sedili, non squisitezza di cibi, e di confortativi. Senza casa, stretti a narrarsi il loro amoroso fuoco sotto l’aperto cielo; per non essere veduti vanno modestamente a celarsi nelle cantine, si trovano, si guardano, si chiamano fra le cataste delle legna: o corrono sopra i tetti saltellando da una tegola all’altra, facendo capolino intorno alle torri de’ cammini, e [222] col pericolo che altri venga a molestarli, che l’indiscrezione dell’uomo li turbi con grida incomposte, e col più grave pericolo di rotolare dagli alti palagi, spettacolo miserando al cittadino che passa nella via.

Dopo tanti disagi, negatemi che questi esseri sentano per lo meno al pari di voi la più gentile e la più bella passione del cuore. Que’ poi della razza d’Angola tengono del calore del lor nativo paese nelle passioni, sono miti negli altri affetti e accolgono nobili sentimenti, poichè sdegnano la caccia de’ sorci, e non adoprano le unghie; moderazione che nessuna di voi potrà vantarsi d’avere usata in tutta la vita.

Scery eramanierosa che s’aveva acquistata le cure di una buona fanciulla, che l’ebbe in dono nata da un mese. Appena la sua benefattrice si levava alla mattina, Scery se le aggirava intorno ai piedi e la vezzeggiava col capo, mettendo un certo tornire dal petto che pareva una preghiera, e ne otteneva il latte suo cibo prediletto. Poi spiccava un salto sulla tavoletta, e innanzi a lei perchè la lisciasse e pettinasse, e intanto le lambiva la mano, ruzzava e alzava la testa, si rigirava e agitava la ricca coda. Quando era bella e pulita pareva vagheggiarsi e andava a diporto nel giardino, ma appena udiva la voce della padrona che la chiamasse, o un suo sospiro o lamento, in pochi salti saliva le scale, mettevasi alla porta e con un flebile miagolato dava cenno d’aprirle; e tosto era sull’appoggio della sedia e [223] colla testa se le sfregava intorno al collo. Se passeggiava la seguiva ad ogni passo; se riposava se le accostava queta queta, se le adagiava d’appresso, la stava riguardando e parea volesse dirle: — riposa che cesseranno i tuoi affanni. — In fine era il solo essere vivente che per molti anni dividesse le molte tribolazioni che sostenne.

Ma venne il fausto per quell’angelica fanciulla; era fidanzata e contenta. Lo sposo non aveva grande amicizia cogatti, forse, essendo mezzo letterato, per gelosia di mestiere; pure accarezzava Scerydiletta alla futura compagna: la sdegnosetta ch’era pudica come una pulcella e non voleva esser tocca, sovente gli sfuggiva dalle mani, poichè ei le faceva certe carezze e le dava certi baciozzi alla disperata, ritornava che chiamata dalla sua padrona. Però in que’ era più allegra dell’usato vedendo di buon umore la sua benefattrice, ed era anch’essa sovente in mezzo alle visite e reverenze, care noje che non si scompagnano mai dalle cerimonie nuziali.

Fra le molte persone che capitavano a gratulare alla sposa, con certi complimenti che pareva avessero tutti appresi sulla stessa ricetta, vi si recarono due conjugi gentili; e il barone era uomo d’alto ingegno e fu grande presso quell’uomo che fu più grande di tutti. Erano dolenti di non avere figli, non nipoti; tenevano per caro trastullo Luben: in una casa di continua pace conjugale era il prediletto, e vivacchiava a sua voglia. Videro essi la [224] Scerybella e vispa, e tosto motteggiando, il barone propose di fare un bel pajo di nozze col Luben. Alla fidanzata che era un fior di modestia, parve il discorso poco convenevole e nulla rispose, ma applaudì il resto della brigata.

Alla dimane è allestito il cocchio, sono accoppiati i cavalli, e vi salgono i due conjugi con Luben tutto profumato e cincinnato che pareva un damerino la sera d’un ballo. Questo mariuolo non era novello al corso milanese, e sovente era stato fra la frequenza delle carrozze a Porta Orientale. Si pone sul sedile del cocchio a fronte de’ suoi signori e alza il bel capo e scuote con nobile orgoglio la fulva criniera, e guarda lungo la via i cavalieri e le dame che pedestri si rendono al passeggio, e pare commiserare alla bassa loro condizione. I giovani galanti che corrono le contrade per trovare la buona ventura, allungano il collo ed aguzzano la vista per spiare se nella carrozza vi sia qualche creatura a cui furare uno sguardo e poi ostentare una conquista; si abbattono nel bel viso del cittadino angolese, è rintuzzata la loro curiosità e ne restano a bocca aperta; poi ridendo e motteggiando girano altrove la vista: Luben non si scompone e pare compiacersi della propria avvenenza.

Dalli, trotta, scarrozza a rompicollo, e il carro trionfante s’appresenta a una porta; fischia il servo che colle braccia alte pende sulla pedona posteriore, scivola sui gangheri la posterla ed entra il [225] cocchio rimbombante in un atrio; calano i cristalli, s’apre uno sportello, si svolge un volante montatojo a quattro gradi, discendono i due signori, e reca la dama sul braccio l’avvenente Luben. Salgono le scale, si spalancano le porte, e un incontrarsi, un dar di baci, uno scambiare di saluti e di accoglienze, fra chi giunge e chi attende. Luben si spicca dalla signora, scambia due salti in mezzo alla sala, squassa la giubba, e tosto un cicaleccio uno schiamazzìo — e l’è bello, e l’è grazioso — e chi lo guarda e chi lo chiama. L’orgoglioso pare senta quelle lodi e se ne compiaccia, e mentre i suoi signori narrano la lunga storia delle virtudi di lui, esso poco umile in tanta gloria, sta assiso gravemente sulle gambe anteriori colla testa alzata, e pare un Pastor Arcade che letto in accademia il suo sonetto, s’accoglie gli applausi dei commossi uditori.

In questo mezzo scricchia una porta socchiusa, e da picciola apertura entra nella stanza la Scery in traccia della sua padrona. Non cura che tutti gli sguardi si rivolgano a lei, inoltra, e passeggia tutta atteggiata di modestia e di virtute, sicchè pareva dire alle anime: sospira. E sospirò Luben appena la vide: snello e gajo le corse incontro, e alquanto petulante andò col viso sì vicino al viso di lei che respirò l’alito della sua bocca. Parvero alla Scery poco decenti que’ modi, si trattenne sui piedi, retrocesse di un passo, lo guardò severa, e si credè gli scagliasse in sua favella un grave rimprovero.

Stavano tutti intesi a que’ motti e tutti [226] interpretavano quell’accento eloquente e ridevano, meno la benefattrice di Scery, cui non piacea quel giuoco. Ma l’impronto Luben non era tale da sgomentarne: aveva nel mondo galante corse molte venture; nei luoghi sotterranei, sulla sommità de’ palagi, fra le botti e le tegole, aveva sovente contrastate le amanti ai rivali, e vinta la ritrosìa delle più austere. Comincia a girare intorno alla bella, le sguizza vicino e la tocca col capo, poi postosele d’innanzi, alza dolcemente una zampa e la tenta, e l’annasa e la molesta, e manda dalla gola un gemito, un sospiro.

La Scery, fiera come Diana — stile classico — non si rimoveva e torcea altrove la testa, e l’avreste proprio detta una di quelle pudiche donne che passano nella via fra i motti degli importuni garzoni raccolte e austere. Ma tutti gli sguardi della brigata erano rivolti al duetto di quelle creature privilegiate, come quando tutta la platea sentiva le melodiose voci della Lalande e di Rubini, e parea proprio che Luben ripetesse quelle patetiche parole di Romani — la tua immagine beata — come un angelo celeste— e un’ansia, un tornire frequente e corto che aggiungeva — ti ho raccolta nel mio cuore. — Sono sempre gatti che ricreano gli spettatori, ma questi non erano pagati trentamila lire; e al solito gli spettatori applaudirono al più petulante e ciarlatano. Ed ei prendeva baldanza, e alzatosi sulle gambe posteriori si attentò colle braccia recingere il collo e il petto della Scery, [227] e mandare certe patetiche grida che cercavano le orecchie e le viscere.

Allora Scery più non tenne la sofferenza; un’occhiata alla sua padrona e vide che non rideva, s’accorse che mal comportava quella contumelia: Scery ardire, e un salto addietro che pare uno di quelli che fa nel circo Guerra quando cade da cavallo e vuol far credere che giuoca; e mosse gravemente verso la porta che fu tosto aperta da mano pietosa. Luben restò un momento scompigliato a quella fierezza, ma tosto ripreso ardire la segue, prima lento lento come chi pensa a’ casi suoi, poi trotta, galoppa, le è innanzi, le gira intorno; ed essa sempre grave incede per la propria strada. È sulla porta; l’audace torna con procaci motti a importunarla, e le salta sul dorso e le piglia la coda: ella se ne sdegna, rompe la virginal timidezza e repentinamente volgendosi lo guarda, soffia, ringhia, alza una zampa per minacciargli uno schiaffo, prende rapidamente la scala e sopra. Luben le è alle spalle, ed ella quando raggiunge il secondo piano, torna a minacciarlo con gravi parole che le gorgogliano nella gola: l’impudente non cessa, e Scery rapida s’aggrappa sur un tavolato che mette a un abbaino, e via sul tetto; e l’amante dietro.

Fra tutti questi sdegni la brigata aveva sempre riso e in ispecie i due protettori di Luben, i quali vedevano in lui grande spirito, come usano i padri in tutte le insolenze dei figli, anche quando [228] strappano l’orologio o sciupano gli abiti alle persone. Ridevano di quella petulanza del loro creato, esaltavano la sua intelligenza e talento, e aggiungevano che solo gli mancava la parola, e quasi lo proclamavano il Byron dei gatti. Ma dopo quella baruffa per cui tutti trassero sur un ballatojo, e videro gli amanti sul tetto, cominciarono a palpitare i cuori.

La Scery camminava sicura e raccolta da una tegola all’altra; l’ardito Luben si spingeva a salti a molestarla. In fine la femmina stanca si riparò alla torretta d’un cammino che era verso la grondaja, e Luben ne seguiva le orme. Ella girava intorno al fummajolo, digrignava ed il guardava con tanta severità che pareva dire: — nessun mi tocchi. —

Quell’aringo di giostra sentimentale sull’ultimo declivio del tetto, parve pericoloso alla compagnia, e chi temeva per Scery, chi per Luben; e tosto s’alzò un grido a chiamarli, voci confuse e suon di labbra con elle. Scery stava queta, guardava la sua padrona e parea rassicurarla; s’appostava ora a questo ora a quel lato della rocca sempre presso all’angolo, d’onde faceva capolino per vedere il giungere del nemico e ritrarsi; o se le ruinava alle spalle, avere tempo a svoltare e porsi in difesa all’altro lato. Non così usava Luben: il suo cuore appassionato era spumante come il vin di Sciampagna — stile romantico — era stato uso a vincere ogni capriccio, e invano lo feriano le [229] voci esterrefatte de’ suoi signori che tremavano di quel suo delirio. Esso ha solo un pensiero, una salute, conquistare la bella: grida incomposte, arruffa i velli e il ciglio, salti a destra, a manca della torre, e minaccia: la Scery prudente non si perde d’animo, si ritrae al lato del fummajolo volto al pendìo e sta quatta e celata. Luben più non la vede, delira, manda voci d’amore e di sdegno, annasa e s’accorge ove sia nascosta; s’accovaccia, s’aggruppa, miagola, spicca un salto rasente la torre per venir sopra alla ritrosa; ma ahi sventura, sventura! il salto era veemente, era scoccato verso il declivio: quindi precipita alla meta, si scuote, vacillano i piedi al maggior peso del corpo. Scery s’era ritratta: ei si confonde, balocca, si muove, retrocede; è sulla riva della grondaja, gli manca il terreno, è con due piedi nell’acquatojo, si turba, si volge, tutti gridano... è caduto.

Un gemito universale ferì il cielo, assordò l’aria e non s’udì una voce, non gli ultimi lamenti del povero Luben. Tutti gli occhi lagrimosi erano rivolti in lui e videro gli aneliti estremi d’una vita che fuggìa: ei raccolse le forze, si rialzò, ricadde, si rotolò miseramente sul suolo. Già alcuni erano precipitati dalle scale, e raccolti intorno allo sfortunato: inutili sollecitudini! il misero versava dalla bocca sospiri e sangue, fissava immota la pupilla in quelle commosse de’ suoi benefattori, e pareva dare loro l’ultimo addio... e quelle pupille si [230] appannarono, e spirò. Che cuore, poveri vedovati del gentile Luben, che sentimento fu il vostro a quel miserando spettacolo? Ah! ben a ragione foste lungamente inconsolati.

Intanto Scery, causa innocente di tanta sciagura, si era ritirata dal tetto e parve compresa da pietà di quello sfortunato. Lenta lenta calò le scale, si ritrasse nella stanza della sua padrona, si pose sur un cuscino a’ piedi dell’arpa, si rotolò, e stette a lungo senza muoversi, senza prendere cibo: si seppe se fu in lei maggior dolore per la morte di Luben, o dispetto per la imprudenza di lui, la quale fra que’ che non furono testimonj poteva far nascere sospetto della sua pudicizia. Certo ne fu dolente a lungo, fra i sentimenti che se le suscitarono, vi ebbe nel suo cuore gentile un po’ di quella compiacenza, onde spesso sono solleticate le femmine quando alcuno è sì pazzo da dedicar loro un suicidio.

Così gli uomini avevano proposto, e la fortuna dispose diversamente di queste due belle creature. Luben fu compianto molto dalla razza umana, poco dalla propria: di questa i maschi il tacciavano di leggiero e libertino, i più discreti d’imprudente; le femmine dissero che aveva poco spirito a innamorarsi d’una schifiltosa: tutte però in segreto invidiarono la Scery. Questa poco curò di loro dicerie, e finchè l’ebbe, le bastarono i vezzi della sua padrona... Poi... ora pare rivolta alla filosofia, forse per salire fra le illustri [231] contemporanee: vive queta, silenziosa, meditabonda, ma non s’è mai potuto sapere che cosa pensi del suo secolo e dell’incivilimento: va a capo chino e tace, e non si sa se questa prudenza le varrà quanto l’essere stata pudica.

[232 bianca]

[233]




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License