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Defendente Sacchi Novelle e racconti IntraText CT - Lettura del testo |
Viveva in un Castello posto fra gli Svizzeri un grave barone; toccava ai cinquant’anni, di bella persona, ben vestito di carni e con tal mole di ventre che occupava un’ampia sedia a bracciuoli: rubizzo, colle gote pienotte e sempre rubicondo, orecchie rossiccie, occhi piuttosto piccini, capelli ritti sul capo come setole.
Costui poco curava e dei titoli degli avi, e degli stemmi, e dei diplomi, e delle cortigianerie: giacevano nel suo castello polverose le antiche armature, e sugli scudi s’avrebbe potuto scrivere con un dito — insegne di pace, — nelle loriche aveano intrecciato agiatamente i loro fili gli aragni, e nei ferrei elmetti aveano i gufi, le rondini e i sorci formato il nido. Ei ridea di tutte quelle vanità e solo poneva sua gloria e cura nel prosperare le vigne, coltura a cui aveva ridotto tutte le terre del suo feudo. Ne’ terrapieni e ne’ bastioni di guerra che ricingevano il suo castello, avea distesi ampi pergolati, e ne’ sotterranei, ove già si custodivano le armi e l’occorrente per difesa contro i feudatari nemici, egli avea disposto lungo ordine di botti, tutte belle e lucide come specchi. Invece delle tradizioni de’ suoi padri, delle novelle che corrono [265] pel mondo e fanno spesso indigestione, amava udir narrare a coloro che venivano a visitarlo il modo onde meglio potare un tralcio, ordinare un filare, procurarne abbondante vendemmia. In vece degli inchini de’ vassalli e delle servili adulazioni, era lieto quando a tutta lode il chiamavano il barone Giovanni padre del vino. Teneva come nojose le lettere, e lamentava gli anni che per volere del padre aveva perduti in giovinezza negli studi, poichè diceva che lo avevano tolto alla sola erudizione cui lo aveva sortito madre natura, quella dei misteri di Bacco. I libri gli conciliavano il sonno, e gli aveva tutti per parti di menti in delirio; di tutta la copiosa biblioteca raccolta dagli avi, ei vi trovava solo merito di prestargli la carta per filtrare l’ultime reliquie delle botti. Oh se lo aveste udito lamentarsi dei codici in pergamena e delle edizioni in carta con colla, perchè non gli valevano a nulla! le ultime solo trovava accomodate a copertura del suolo per disporvi sopra l’uva e farla appassire.
Esso vegliava la vendemmia, la pigiatura delle uve, la bollitura del mosto, e prendeva tutte le cure perchè il vino del suo feudo riescisse del migliore. Alla tavola il facea recare in ampi fiaschi: ai piccioli bicchierini in cui beveano i suoi padri, ne avea sostituiti alcuni di alte mascelle e corpacciutoni, uno de’ quali ei chiamava un fiato di vino, e guai a quegli fra i suoi convitati che non valesse a vuotarne uno senza alitare. [266] Generoso banchettava sovente amici e conoscenti, e con tutti solo ragionava de’ proprii vini, e ne ostentava la eccellenza, e sosteneva che non pativano rivali.
Era l’agosto, e già le vigne del barone Giovanni promettevano copiosa e bella la vendemmia. Esso andava di continuo a diporto pe’ suoi poderi, guardava compiacente a que’ gravi filari e diceva a’ suoi amici: — Questa è vera gloria, e non l’aver alzate quelle torri e quel castello: il succo della vite è il principio d’ogni buon’opera sociale: credete voi che vi sia sapienza e amore senza un fiato di vino? Ah in quest’anno che fece caldo assai, vogliamo averlo di gran forza! sarà pari a quello che bevevano i sette savi della Grecia. — In questo mezzo s’ode il trotto d’un cavallo; è un mercante lombardo che attraversa la Svizzera e si rende ad Augusta per sue bisogne di commercio, e dalla strada meravigliato guarda a que’ vigneti e tanto gli appajono rigogliosi e fruttiferi che più volte esclama: — Oh che belle vigne! lunga vita a chi ne è il padrone. —
Vennero riferite quelle parole al barone Giovanni, e tosto ordinò a’ suoi servi corressero dappresso al viaggiatore, e sì il pregassero a sostenere un po’ finchè ei lo vedesse; anzi ei stesso, il segue e lo raggiunge, gli fa onoranza e lo invita a dimorare quel giorno nel suo castello, e l’altro già stanco dal cammino tiene il gentile invito.
Non andò molto, e per refocillare l’ospite venne [267] apprestato il desinare nella grande sala delle armi. Erano apparecchiati sulle tavole ampi fiaschi, capaci tazze e scodelle, e il lombardo encomiava il vino del barone, e il barone versava, e giù un fiato; e non volevano mai vedere le tazze vuote, e quando erano piene desideravano leggere sul fondo — viva chi beve — e si tracannarono tanto vino ch’erano due botti.
Il barone Giovanni gongolava d’allegrezza e diceva quello il dì della maggiore sua gloria, perchè aveva trovato chi rispondeva all’amor suo per l’invenzione più bella che onori l’umano ingegno; e il lombardo modesto s’accoglieva quella lode e venivano nuovi fiaschi. In fine furono molti discorsi e il barone inspirato meglio d’un poeta alla fonte d’Ippocrene, diceva con parole enfatiche le lodi del vino, e il salutava conforto delle anime, rallegrator del cuore, fonte di salute; e volgendo l’inno a quello della sua cantina, l’ossequiava pel migliore del mondo.
Il lombardo cui nè quelle carezze nè il confortativo che aveva nello stomaco, poterono inchinare all’adulazione, gli rispose che prendeva errore, e in Italia aversi vini che lo vinceano in bontà e ne’ colli lombardi, e in que’ di Toscana, e ne’ sulfurei napoletani. Parve questa al barone grande novella, poichè tutti que’ che usarono il suo castello, già abituati a dar lode a’ suoi padri d’ogni virtù, almeno per non smentire se stessi, tributarono quella adulazione alle sue vigne, e le [268] proclamavano prime dell’universo. Sbalordì il feudatario a quell’asserto dell’ospite, spalancò gli occhi, rizzò le orecchie e si fe’ più rosso in viso: — E che dunque vi è al mondo un vino miglior del mio, ed io nol conosco? oh son pure infelice!
Percosse col pugno chiuso sulla tavola, e questa rintronò cupamente, tintinnirono i fiaschi ed i bicchieri, si scosse la stanza e tosto si videro esterrefatti fuggire dalle aragnatele, dalle armi e dai turcassi, insetti, pipistrelli e sorci, e tutto fu in quel loco un orribile trambusto. Impallidì il lombardo, accorsero palpitanti i servi, e solo tra quello scompiglio il barone Giovanni restò immobile, atteggiato di meraviglia e di dolore. Tutti il guardarono e videro sulla sua fronte le grandi passioni che gli combattevano in animo: fra quel silenzio ei s’accoglieva un gran pensiero, e pareva Cristoforo Colombo quando meditava un nuovo mondo; ma il pensiero del barone era più grande perchè non volgeva sur un presentimento, ma sulla certezza vi fosse un vino migliore del proprio. Finalmente si scosse, si alzò, diede un amplesso di gratitudine all’ospite:
— Oh anima lombarda grande e generosa! tu mi hai aperto gli occhi alla luce del vero, e vedrai s’io ti credo, —.
Chiamò intorno a sè tutti i servi, commise loro le cure de’ suoi poderi, e annunziò che aveva determinato di viaggiare Italia ed assaggiarne i vini. Furono vani i lamenti e le preghiere, perchè si [269] togliesse da quel proponimento; al nuovo giorno si divise dall’ospite che si rimise al suo viaggio, ed ei con ragguardevole salmeria, con muli carichi di denaro e gli agi convenienti partì per l’Italia.
Tra i suoi servi il più fidato era il conservator delle cantine, e assaggiatore dei vini, e lo chiamava Tello, perchè lo dicea salute del suo feudo. Il volle seco nella peregrinazione, ma sel facea precedere d’un buon miglio nel cammino coll’ordine che ad ogni osteria innanzi a cui passasse, ne assaggiasse il vino, e dove il trovasse squisito, scrivesse fuori sulla parete col carbone un Est, unica parola latina, onde ancora si ricordasse delle tante che fu forzato di mettersi a mente, ne’ sei anni che fanciullo doveva conversare con Virgilio e Cicerone, e maledirli perchè gli procuravano digiuni e sferzate: però viaggiando nella classica terra del sapere, nel secolo di Vida e Fracastoro, non volle parere minore di nessuno in erudizione, e almeno il suo cantiniere accennasse sentire di latinità. Il corteggio poi ove vedeva quel magico simbolo si soffermava, e l’oste subitamente, come Tello aveva ordinato, veniva al barone con un fiasco di vino, ed ei ne beveva più fiati. Poi sur un libro di pergamena da cui aveva fatto raschiare gli antichi versi latini che alcuni credono di Ovidio, scriveva il luogo e il suo voto di quanti gradi a suo giudizio, quel vino vincesse o fosse vinto dal proprio; e tirava innanzi.
[270] In questo modo assaggiò i vini delle colline d’Asti, quelli di s. Colombano; salutò voi padri del lombardo liquore Montarobio e Montavecchia, e meglio degli antichi fasti di Brianza, e delle guerre suscitate al suono della campana di Bar, raccolse le notizie dei vigneti onde ridono quelle colline. E passò nelle terre modanesi, e toccò Romagna e pose piede in Toscana, e sovente l’Est brillava sulla porta dell’osteria, e il barone vi dava tributo di più fiati, e più volte sul suo Albo, che valeva meglio di quello delle signore su cui si scrivono tante inezie, ei segnava i meriti dei vini italiani. Spesso aveva pure indicati alcuni di parecchi gradi migliori del proprio, e quivi faceva uno scoliaste che non era certo di quelli che immiseriscono le bellezze di Dante, ma dava lustro al vino, perchè segnava che se ne spedisse una botte al suo castello.
Percorreva i colli toscani, e già ricco di tante cognizioni palpitava di gioja, considerando che niun barone poteva andargli innanzi in sì utile erudizione, e forse meditava fare la statistica dei vini, che certo darebbe più ricreamento che quella dei delitti, e se si trovasse potrebbe formare una delle belle pagine del giornale di Lampato. Sovente splendeva l’Est e lo allettava più del viso soave d’una fanciulla, e rinnovava la prova e si persuadea che l’Italia era la madre del sapere.
Dopo parecchi giorni di viaggio saliva un’amena collina, tutta ridente di piante e di vigneti, sulla [271] quale vedevasi la piccola città di Montefiascone. Appena pervenne alle prime case la compagnia de’ viaggiatori vide sopra una porta una bella corona di lauro, fronda che a raffigurar bene quali siano gli antichi e quali i moderni, passò d’in capo agli eroi a insegna d’osteria. Era rapito in bei pensieri il barone Giovanni alla vista di quei vigneti e sentìa un caro presentimento, pari a quello degli amanti all’avvicinarsi dell’aere che respira la bella, pari a quello che nei drammi avvisa due sconosciuti che sono congiunti di sangue. Il fermarsi del suo cocchio gli annunziò che non fallivano i suoi presentimenti, ed ivi doveva essere il segno desiderato. Alza gli occhi, guarda, vede la magica parola, ma ripetuta tre volte; protende le mani in segno di meraviglia, chiama i suoi intorno a sè ed esclama: — Oh questo è il luogo della fortuna! Est, est, est grand’uomo quel nostro Tello, e il suo avviso è sublime. Qui ci tratterremo, qui discendo; bisogna onorare il luogo ed assaggiare con comodità le delizie che offre. —
Non aveva ancora dette queste parole, che apparve Tello sulla porta dell’osteria gridando Est, est, est, con una tazza colma di vino. — Ah signor barone! io ben era persuaso che si sarebbe fermato, e volli aspettarla. Siamo nel paradiso terrestre. — E gli sporge la tazza, e il barone in un fiato la ingolla ed è come rapito in estasi; e Tello una seconda, ed egli giù, e quegli una terza, ed il barone nel ventre.
[272] I servi scaricarono tosto i bagagli, stallarono i cavalli, e furono date al signore accomodate stanze, e gli agi che meglio si potevano in quel luogo montuoso. Ei di nulla si curava, poichè solo pensava a quel vino, e ad ogni cosa che se gli chiedesse rispondeva: — Va bene; oh che vino! — ne beveva un fiato e tramestava la bocca, scorreva colla lingua sulle labbra, e mandava giù l’acquolino, e messa una mano sul petto esclamava: — Oh consolazione! —
Dopo poco riempiva il bicchiere, lo sperava incontro al sole, vi sorrideva compiacente ed aggiungeva — Est, est, est: ceda il falerno ed il greco: alla mia salute! — E l’ingordo vase era presto ad accôrre nuovo liquore.
Passa un dì, passano due, al terzo Tello è dal padrone per udire a qual’ora intenda rimettersi a suo viaggio. — Oh profano! che pensi tu mai? viaggio! qui conviensi fermare molti giorni perchè abbiamo trovato la fenice dei vini, e tu l’hai scoperto; bravo, sei un eroe. Ben disse quel leale Lombardo che i vini d’Italia erano meglio dei nostri: oh! ei sì mi ha insegnato in un giorno più, che in tanti anni non mi dissero i maestri che costarono tanto tesoro a mio padre: bestie, si gloriavano di sapere che facessero Sesostri e Semiramide, sudavano a narrarmi quanti peli avesse nella barba Socrate, e non sapevano, non m’insegnavano che il vino di Montefiascone era migliore di quello del mio feudo; oh profani! al limbo! — E bocca alla tazza, ed è vuota.
[273] Dopo alcuni giorni il discreto scalco vedendo che il barone ogni sera era cotto, temendo pel soverchio bere non ammalasse, il richiese di nuovo se voleva rimettersi in cammino, cui esso fosco, dispettoso: — Oh sei pur importuno! tu vuoi turbarmi ogni gioja: conviene studiare queste viti, vedere come si coltivano, e provarci se ne riesca trapiantarle ne’ nostri poderi. Non venirmi quindi più innanzi con questi tuoi sciagurati consigli; partiremo quando me ne verrà voglia; fammi portare un fiasco e taci. —
Tello si stringe nelle spalle e non fiata, e il barone beve, scorre il colle, visita le vigne, le ossequia con devozione, ritorna alla sua stanza, cionca, e si rimette a nuovi passeggi, e sovente tacito e solo a capo chino quasi lo abbia grave di forti pensieri. I servi se la passano allegramente perchè senza cure ogni dì per loro è feriato, e come ordinava il barone non manca loro mai vino; e attorno a un tavolo, grida, canti, sette alla mora, e bombano; e il padrone applaude ridendo: — Brava gente, allegria. —
Anche Tello accortosi che il meno male era assecondarlo, faceva ogni piacere di lui ed allargava un po’ la cintola, e ne toccava qualche bicchiere più del consueto.
Però di questa lunga dimora del barone, del suo vivere solitario e silenzioso, maravigliavano gli abitanti del villaggio, che non avevano veduto mai passaggiere fermarsi più d’una notte in quel [274] monte per prendere riposo; ogni dì si dimandavano; — Oh è qua ancora? — e tenevano il computo d’ogni suo passo e motto, malignando studiavano di scoprirne la causa e sospettavano vi covasse sotto qualche mistero. Gli stessi pensieri e più gravi sospetti molestavano il padrone dell’osteria.
Aveva il Battista una bella e fresca moglie, sposa di soli due anni, della quale, cosa rara per un marito, era perdutamente innamorato; quindi al sommo geloso, poichè verace amore non va disgiunto da questa malattia. Era Sandrina giovane costumata, gentile e avvenente quanto può esser donna che abbelli i colli toscani: rispondeva con pari affezione all’amore dello sposo; di carattere soave, assai timida, per ogni piccola cosa si scompigliava come un fiorellino allo spirare d’un’aura.
Il barone Giovanni, sebbene avesse sempre nel tenero suo cuore dato prima luogo a un buon bicchier di vino, di qualunque donna, fosse pur sì bella da diventar l’eroina di un romanzo, pure dava qualche mite occhiata a costei. L’era grato ogni volta che andava nella sua stanza per recargli le biancherie venute dal bucato, e talora si compiaceva farsi versare da lei il vino nella tazza; la chiamava la sua Ebe, la dea delle vigne. La Sandrina poi, per quanto fosse modesta, pur nell’umile sua nazione sentiva con alcuna compiacenza quelle lodi largitele da un barone; [275] assegnava a cortesia se ei discendea talora a parlarle, poneva ogni sollecitudine per mostrarsegli grata, e talora se richiedeva vino e non erano presti i servi, non isdegnava di portarglielo di propria mano.
Battista, che non vedeva ragione al restare sì lungo di quel signore, e notò quegli sguardi di lui alla moglie e quelle piccole cure ch’essa gli usava, entrò in subita gelosia. Ne mosse qualche querela alla Sandrina, che con un ingenuo sorriso gli chiese se impazzava, e gli fece una carezza. Non piacque quella risposta al marito, epperò stava in sospetto, cui davano pur esca certi motti maligni che gliene gittarono in proposito alcuni tristi amici. Nè andò molto che gli accrebbe il dubbio, il vedere il barone taciturno, sentirlo sovente sospirare come costumano gl’innamorati. Per giunta un dì gli venne riferito che il forestiere chiuso nella sua stanza, non si sa con chi, fu udito esclamare; — Oh vita della mia vita, come ti amo! —
Corre alla moglie, le dimanda se sia stata nella camera del barone, nè sa ella negarglielo, perchè gli portò un paniere di frutti: allora Battista ricominciò a lamentare la propria disgrazia, e piangere sè sventurato marito che tanto la ama e non merita d’essere tradito. Sandrina a que’ lamenti è non poco turbata, muta colore e presa dalla sua naturale timidezza, non sa formare parola, e si ritrae cogli occhi gonfi di pianto.
[276] Il marito argomenta sia dispetto d’essere scoperta, pone di vegliarla e certificarsi della sua fede, ordina ad un suo fante che ove la veda salire le scale che mettevano alle camere de’ forestieri, s’affretti di avvisarnelo.
Il barone intanto addoppiava nel bere e perdeva la salute, e si stava quasi l’intero giorno nella propria camera; quindi crescevano i sospetti del Battista. Dopo pochi giorni gli è detto che la moglie n’andò negli appartamenti superiori: palpita, s’accende, corre lesto come un gatto, sale le scale in pochi salti, lieve lieve procede sulla punta dei piedi, s’accosta alla porta sospetta, e senza fiatare vi pone l’orecchio; sente uno stropiccio, poi de’ sospiri, poi la voce commossa del barone.
— Oh vita della mia vita, come ti amo! lascia ch’io ti avvicini la mia bocca e colga la soavità delle tue dolcezze: lascia ch’io ti guardi perchè sei la mia sola consolazione! Ahi perchè non posso qui restarmi per sempre? questo è il solo pensiero che mi rattrista. Oh! perchè non posso tutto il giorno scambiare teco tanta beatitudine?
L’ostiere è persuaso che ivi sia chiusa la malvagia moglie e spira vendetta: corre per le armi, furente risale, e sotto colore di recare qualche cosa al barone sospinge la porta, entra e il trova solo: maraviglia, ma è forza frenare il dispetto, e tacere.
Però volò alla moglie e le fece una gran villania; e come usano i gelosi che nell’ira rivelano [277] i proprii pensieri, le disse che quind’innanzi l’avrebbe sì tenuta di vista, che se allora ebbe agio a fuggire non le riescirebbe altra volta, e sacramentava che letrarrebbe l’anima dal petto insieme al suo drudo. La donna alza gli occhi al cielo e tremante non gli fa altra risposta che di sospiri.
Quindi ei stava sempre in agguato, e perchè la salute del barone scapitava e non usciva mai, ei ritornava sovente alla molesta porta ad origliare. Una mattina, e aveva lasciato da poco la moglie intesa alle domestiche cure, udì il barone ridere.
— Oggi sono di buon umore: con te io caccio la melanconia, vivo nell’amor tuo. —
Non dubita il marito che di nascosto vi sia venuta la Sandrina, entra, non vi è alcuno e il barone se la ride.
— Oh che abbiamo, caro Battista? sai ch’io ti voglio bene? sai che in casa tua ringiovanisco? —
Al Battista non sentivano niente di dolce queste lodi, e confuso gli riferì quanto aveva meditato per velare quella sua venuta, e partì. Non sapeva darsi pace di quanto gli accadea; era persuaso che il barone fosse preso d’amore, voleva illudersi sull’innocenza della sposa, ma non vi era nella casa altra donna; aveva udito dire al barone parole d’affetto e il trovò solo: pensa frenetico, e più s’avviluppa nel mistero e nell’affanno.
[278] Ne parlò con alcuni amici con cui di continuo conferiva queste cose: costoro vennero tosto nel sospetto che il barone sapesse di magia, arte a que’ tempi assai sparsa: quindi si fosse sulle prime fatta venire la Sandrina per forza d’incanti, e vintane la ritrosìa; ma poi innamorata anch’essa e fatta esperta nelle malìe, ad ingannare la vigilanza del marito, quando giungeva si avvolgesse d’una nebbia, o trasformatasi in qualche mosca prendesse la fuga. Il Battista se ’l persuase facilmente e ne fu dolentissimo, e convertiva quasi in odio il suo grande amore per la moglie, e preso da nequitoso animo l’avrebbe uccisa se non lo teneva spavento che l’amante ne facesse co’ suoi sortilegi aspra vendetta.
Però gli gravava troppo una vita sì inquieta, agitata; pensò togliersi quella spina, e almeno allontanare il rivale; ma nessuno de’ servi volle pigliarsi quella molestia. N’andò egli stesso a lui, e trattosi il berretto in attitudine rimessa come increscioso il pregava.
— Signor barone in vero debbo usare un tristo ufficio; ma mi è necessità... —
— Parla, mio Battista, io amo te e quanto ti appartiene: disponi di me: omai io non trovo di vivere lietamente che in questa terra. —
— Mi duole di non potere rispondere in tutto a queste sue premure; ma conviene ch’ella mi lasci libero l’albergo, e si compiaccia partire. —
— Oh vaneggi! che dici mai, perchè? —
[279] — Ei ci deve venir qua su una famiglia di signori Fiorentini ai quali ho allogata la mia casa: e l’è già buon tempo che d’oggi in dimani li prego a ritardare finchè ella parta; ma poichè vedo che non vi pensa, m’è necessità... pregarla... Perdoni, signor barone, ma la mia parola è data, e non mi conviene scontentare quei signori, perchè vi tornano ogni anno. —
— Ah non turbarti, caro Battista, fa’ che vengano, ci accomoderemo alla buona; io m’adagio ad ogni modo; mi darai altre stanze, quelle là su, vicine alle tue. —
— Signore... è impossibile; la famiglia è numerosa e le abbisognano tutte. —
— Oh! sta’ quieto, si aggiusterà tutto: parlerò io colla tua buona Sandrina; le donne sanno accomodare le uova nel paniere. —
Il povero geloso a questa proposta si fe’ tutto rosso, sentì corrersi per le vene un fuoco e un gelo, gonfiò d’ira e quasi proruppe nelle ingiurie; ma il timore della magia, e d’essere convertito in qualche bestia gli fece usare prudenza: supplice, con voce tremante, il sollecitava di nuovo.
— Ah! me ne duole, signore illustrissimo, ma è impossibile: mia moglie non può fare miracoli... Favorisca dirmi per qual giorno sarà libera la mia casa, perchè possa farlo sapere a que’ Fiorentini da un messo che mi venne questa mane a richiedermene. —
Il barone sospira, si leva dal letto, su cui stava [280] coricato quasi tutto il giorno, passeggia a lungo per la camera, si ferma, pensa, guarda l’ostiere, alza gli occhi al cielo, e dopo lungo silenzio — Lasciami solo, ti darò risposta fra poco. —
L’oste gli fa un inchino, ed esce con buone speranze, ma curioso allenta il passo, ode che l’altro geme, tende l’udito e ascolta.
— Battista birbone... me infelice? dunque dovrò dividermi da sì prezioso tesoro? è impossibile; morirei... Ma e non posso io egualmente... senza stare in questo albergo, con questo nojoso Battista che mi contrasta l’unico mio bene? vi è sola una casa in Montefiascone? provveda Tello — e chiamò il servo.
Queste parole trafissero il tapino, poichè gli aprirono i disegni del barone e ne fu desolato: ei sperava, che allontanato quel seduttore, avrebbe racquistato l’amore della moglie, che pure amava. Corse a precipizio dagli amici, e come già tutti partecipavano del suo dolore, posero insieme un nuovo consiglio; furono tosto con lui al Podestà, e il persuasero che non patisse più a lungo quel vituperio in città, nè concedesse allo straniero di pigliarvi altra casa. Mentre disputano tai cose, si annunzia il siniscalco del barone Giovanni che chiede parlare al magistrato: questi fa ritirare gli altri in una vicina stanza, e che entri.
Tello per parte del proprio signore, querela Battista perchè il cacci dall’osteria, ove pagava quanto altri, pure non vuole restare a suo dispetto, [281] piglierà un’altra casa, e chiede al Comune perchè gli acconsenta di fermarsi in Montefiascone finchè gli aggrada. Il Podestà non vede come si possa negargli questo desiderio, ma per prendere più maturo consiglio, il licenza dicendogli che consulterà coi Signori e gliene riferirà le determinazioni.
Prorompono subito nella camera l’oste e gli amici, e gli sono intorno con preghiere e lamenti, perchè non si soffra più oltre uno stregone, e il minacciano di tumulto dei commossi terrazzani; e tosto giunge chi espone il susurrare dei cittadini, i quali più non volevano nè il fattucchiere, nè le sue malìe. Allora il Podestà sbalordito, pregato, minacciato, prese il più savio partito, n’andò ei stesso al signore svizzero, e gli disse che la sua lunga dimora in quel piccolo paese, aveva fatto nascere sospetto egli parteggiasse nelle fazioni che dividevano gli Stati vicini, e quindi non essergli concesso fermarsi più a lungo. —
Maravigliò, impallidì il barone Giovanni a quella notizia; poi si rialzò sul letto ove giaceva, e riprese per la prima volta in sua vita la fierezza degli avi, e in voce ferma e dispettosa gli rispose:
— In vero questa è inospitalità, è villania: nè certo io userei questa misura con un mio nemico se dimandasse asilo ne’ miei feudi. —
— Signore non è scortesia, è necessità: in un piccolo paese il vostro lungo fermarsi... [282] Appunto perchè nel vostro feudo si piglierebbe licenza da voi, e a questa sola i vostri vassalli si acqueterebbero, volgetevi al governatore di Roma, e se esso vi acconsente questa città a dimora, e noi pure vi acconsentiremo: non può seguire in altro modo. —
— Mi concederete almeno pochi giorni, finch’io mi rimetta alquanto in salute. —
— Tutta la presente settimana. —
— Otto giorni dunque? domenica ventura sarò altrove. — Squassò il capo, si coricò, volse le spalle al Podestà: questi si ritrasse e Battista fu l’uomo più contento del mondo, e sperò racquistare la perduta pace domestica.
Queste gelosie e questi dispetti erano divulgati, li sapevano i servi del barone e stavano dubbj della vita di lui fra tanti sdegni in paese straniero, e il vegliavano di continuo. Nessuno però ardiva avvertirlo, neppure Tello, poichè ei lo aveva più volte garrito siccome poltrone e che non si fosse dato attorno per ottenergli di restarsi più a lungo, e sollecitava il momento di risanare per cacciarli tutti siccome traditori, e solo vogliosi di darsi buon tempo in nuovi viaggi. Però al male cagionatogli pel soverchio bere era pessima giunta il presente affanno, sicchè incominciò a patir di febbre, che non prese mai tregua, ma si fece più gagliarda coll’allontanare dal momento in cui si manifestò.
Alla dimane vennero i medici, e dichiararono [283] che una misteriosa malattia lo minacciava nella vita. Tosto parecchi tristi diedero voce ne fossero causa i filtri d’amore, e la Sandrina per togliersi un testimonio importuno, mettesse in opera le fattucchierie apprese per spacciarlo caritatevolmente all’altro mondo, e già alcuni susurravano convenisse dare costei alle fiamme. Però il malato che sdegnava ogni cibo, pur seguiva a ingollarsi molti bicchieri del buon vino, e più ne diveniva avido quanto peggiorava nel male; la febbre era continua ed ardente.
I medici ne vedevano un mal fine, gli dichiararono che conveniva cessasse da questa bevanda per lui micidiale, e solo procurasse saziare la continua sete coll’acqua; gli consigliavano pure di farsi trasportare al vicino lago di Bolsena o giù del monte per respirare un’aria meno secca, e quindi meno nociva alla sua presente infermità. Queste erano le ragioni che usavano, ma in fatto volevano allontanarlo, perchè ben si persuadevano da’ suoi sospiri e da alcune espressioni che gli udivano dire quando era solo, che non lasciava quegli sciagurati amori colla Sandrina; quindi continuo scompiglio fra marito e moglie, ed ogni dì si temeva non ne seguisse un grave danno.
A quel consiglio de’ medici nulla rispose il barone, girò intorno gli occhi foschi e cadde in sì profondo pensiero che restò immobile, quieto, sicchè s’avvisarono lo pigliasse il sonno. Tello lo richiese se bisognava di qualche cosa, non rispose,gli fe’ cenno di andarne, e uscirono tutti. Stavano però intesi a quanto dovesse seguirne, e quali per dargli ajuto se l’udissero gemere, quali per curiosità, si fermarono presso la porta della stanza.
L’inquieto Battista sospettò che quel volere restar solo non fosse senza causa, e che per l’ultima volta colui avesse intenzione di farsi venire cogl’inganni la sua donna: corse a furia alla Sandrina, la trascinò per un braccio nella propria stanza, la minacciò di ucciderla se ne usciva e ve la chiuse. La donna tutta sparuta, atterrita fra tanti guai e come istupidita, lasciava che la cacciasse il marito ove gli suggeriva l’ira; questi non le credeva però nulla, e tutto in lei vedeva artificio della sua arte nuova diabolica di non rispondere, vincere col silenzio ed operare.
Però ei quel dì aveva preso il più disperato partito; la chiuse perchè non ne uscisse che tramutata per le malìe: con molt’oro aveva da un valente esorcista appreso il modo e ottenuti i sussidj per sciorre qualunque stregoneria: recava un pentacolo o una laminetta di rame con sopra cifre, numeri e misteriose parole; una pergamena con scrittevi orazioni, dell’acqua benedetta, degli scongiuri che si era messi a mente, e un coltello micidiale: se la moglie viene all’amante egli entra nella camera, rompe l’incanto e l’uccide: ride e geme per la vicina vendetta.
È alla porta del rivale, sono intorno gli amici, vi è Tello co’ suoi in armi per soccorrer al padrone, e riparare ad ogni mala ventura: è una pressa, un trambusto, un fremere e guatarsi bieco: tutto annunzia un’aspra zuffa al primo segno; seguane che può niuno vuole ritrarsi. Nè dimorano molto, e odono il barone che si muove sul letto; sospira, geme, interrotte parole; zitti ascoltano, ei parla:
— Ah sei qui mia unica consolazione? — Un calare, un ascendere sul letto; altri sospiri, e queste espressioni con una voce tutta di pietà e di dolore: —
— Ah sì! mi sei conforto unico d’una misera vita. — Nuovo silenzio e un affaccendarsi, un dimenìo, e poi con accento di pianto queste miserrime parole.
— Dunque per l’ultima volta? e i barbari hanno deciso, e tu non dovrai più consolare questo misero, ravvivare l’anima mia? Le mie labbra più non dovranno fruire tanta dolcezza?
— E l’oste sbuffa: — Oh! la è venuta la traditora... infame donna, e l’amai tanto!... ora la ammazzo; briccone aspetta... lasciatemi... e dà mano agli esorcismi e allo stile, e Tello il rattiene, e il barone segue:
— Non solo non dovrò più avere questo bene, ma pur anco lasciare questa terra che tu rallegri, non più respirar l’aura che tu fai balsamica e di paradiso? Ah! fortunati abitatori di questo colle, fortunato Battista che ti possiede. —
E Battista come un forte innebbriato dà un [286] calcio nell’uscio e gli altri il tengono, e il barone ripiglia:
— Oh eccoli i feroci: vieni, dammi l’ultima consolazione, prima che i malvagi mi ti tolgano. Oh! come godo di guardarti per l’ultima volta, e côrre con questa mia bocca...
E l’oste furente spalanca le porte, precipita nella stanza, alza il pentacolo, la pergamena e il coltello, e gli altri dietro a lui. Tremavano tutti d’un gran delitto e dentro: guardarono... ognuno vide, comprese e trasognato ristè.
Il barone era assiso sul letto col berretto da notte; una mano sul cuore, nell’altra un bicchiere colmo di vino, il fissava rapito in estasi con occhi da innamorato: a quell’improvviso irrompere di tanta gente alza la tazza, la guata, le parla con lena affannata.
— Oh eccoli i malvagi! vogliono rapirmiti: vieni, mi consola per l’ultima volta — e la vuotò avidamente, e toccandosi il ventre sospirò — Or muojo volontieri — e cadde supino sul letto, rorida la fronte di gelido sudore coll’ansia della morte.
Si guardarono tutti in viso, era tolto in parte il velo al gran mistero. Si avvicinarono al letto, nessuno osava parlare; osservavano il barone e ne avevano pietà. Accorse il medico, gli sentì i polsi; era convulso, ardeva per la febbre. Lo dimandò, si scosse, lo sguardò bieco, e ricadde col capo sull’origliere.
[287] Pure il medico con dolcezza il prega a rispondergli, a dirgli la causa del suo nuovo affanno, e se non vale a porvi rimedio. Il malato apre languidamente gli occhi, sospira e con voce fioca ed incerta — Crudeli! voi mi rapiste...
— E chi mai? parlate? tutto vi sarà reso: confidatevi signor barone, siete fra amici. —
— Inumani, mi proibite di gustare quel balsamo, quel bene unico per cui lasciai la mia patria e i miei castelli, e finchè ne ebbi un sorso sostenne la mia virtù; ma era l’ultimo... era l’ultimo! non ho più speranza... non ne berrò mai più... sono infelice! — e cadde in dirotto pianto. Una fiera convulsione gli concitò tutte le fibre, e la natura stanca da tante tribolazioni parve mancargli e svenne.
Battista a quella prova aveva scoperto il vero amore del barone, e qual rivalità gli tenesse, non della Sandrina, ma delle botti; quindi scosse la gelosia e tutti i pensieri di malìe. Presto corre alla moglie, è in ginocchio a braccia aperte, confessa il suo fallo, dimanda misericordia, e tanto accarezza quanto fu aspro e crudele; Sandrina sempre buona, perdona, contenta di riavere la pace, solleva il marito e per tutto castigo mentre il mira con affetto, il chiama cattivo; ed ei ride, abbassa per vergogna il capo, le bacia una mano e poi l’altra, ottiene un amplesso e torna al malato.
Intanto que’ ch’erano intorno al barone avevano [288] gran voglia di ridere per lo scambio di quello strano amore, ma fatti pietosi a’ mali di lui usavano ogni argomento per riaverlo; e lo stesso dottore s’accorse che il rimedio di togliergli il vino era peggiore del male e cambiò di pensiero. Dopo poco in fatti quel misero rinvenne, e il medico tenendo in mano un bicchiere del miglior Montefiascone che l’albergatore aveva fatto trarre allora allora, glielo presentò.
— Confortatevi, signor barone, non vi sarà tolto il balsamo che vi consola; eccovi, ve lo porgo io stesso; lo spillò Battista da una botte ancor vergine, e omai più niuno vi contenderà di restar quanto vi piace su questo colle. —
E Battista se gli accosta e il prega — La beva signor barone, è d’un vasello intatto di cinquanta bigoncie; la beva e si rassicuri che potrà restare nel mio albergo finchè le piace; tutto è accomodato: la beva signor barone. —
A questi conforti, a queste parole che parevano rugiada su inarridito stelo, il barone si risentì, si rizzò lento lento su le piume morbide facendo puntello del sinistro braccio alle membra spossate: prende la tazza, la guarda, lo rianima un sorriso.
— Dunque noi non saremo divisi, unico amor mio? Est, est, est: mi pare di venire ora a conoscerti, ad assaggiarti per la prima volta. — E vuota la tazza e lecca coll’avida lingua le labbra e inspira profondamente; riprende coraggio, [289] solleva il capo, e lo squassa orgoglioso — Tutte cinquanta per me, caro Battista; tutte cinquanta ve’: Tello vi porrà le mie chiavi; io poi qui prenderò la mia casa, e mi sarà questa terra un’altra patria. Qui scorrerà dolce la mia vita come un fiume di latte, o piuttosto come il mosto di queste uve immortali: qui vicino alla vita della mia vita, all’amor mio, sarò beato.
E tutti gridarono — Evviva il barone Giovanni, padre del vino. —
Ma quelle speranze erano pur troppo fallaci, il misero era consunto da un interno malore e una febbre continua lo struggeva.
Però a tutti que’ mali e affanni stava in cima la brama del suo stomaco signore de’ suoi affetti; ei chiedeva un fiato di vino, e gli amici glielo sporgevano, che sarebbe stato il negarlo fatale.
Ma il male già il conduceva agli estremi e fu forza a que’ che il ricingevano aprirgli il suo pericolo: accolse la infausta notizia con calma, e uno sguardo agli amici, uno pietoso al fiasco posto vicino al letto, e silenzio: eloquente sguardo e silenzio sublime quanto quei di Didone e di Sordello.
Poi chiede una tazza del Montefiascone, ma non fu assorbito che in tre fiati: cattivo indizio a tutti e al barone; ei si vede spacciato. Chiama Tello, l’ostiere, la Sandrina, il medico, e i servi, e dona a tutti largamente: dispone per testamento che i beni de’ suoi feudi sieno spartiti a benefizio de’ poveri che li lavorano, a condizione di [290] coltivarli a vigne: ne dà pure buona parte a Tello, e gli ordina di trapiantarvi molti tralci dell’uve di Montefiascone, sicchè prosperi quella manna sui monti svizzeri: gli vieta di portare le sue spoglie mortali in patria e calarle nella tomba degli avi.
— Voglio esser sepolto a Montefiascone, nella terra che alimenta sì squisite viti, e impongo che ogn’anno si versi sulla mia fossa due botti di questo prezioso liquore, est! est! est, mio tesoro in vita: ah! certo le mie ceneri rinfrescate da questo vivifico umore sentiranno ancora qualche senso di piacere. — Beveva un sorso e si componeva in quiete.
Le forze fuggivano, si disseccava il labbro, e il fuoco interno gli inaridiva le fonti di vita: era il vino onde aveva fatto tanto abuso; pure si raccomandava a Tello perchè mentre avesse un filo di vita, non lo privasse di quel confortativo. Tello fedele, fino agli aneliti estremi, gliene veniva umettando la bocca; e gli occhi del barone nuotanti nella morte si rivolsero a lui e parvero esprimergli gli ultimi sensi di gratitudine. Gli sopravvenne un affanno, un sudore freddo, una nebbia alle pupille, un tremito, e il barone passò, e tutti dissero — povero diavolo! — è l’orazione funebre del genere umano.
Gli si fecero grandi e splendidi funerali, quali si convenivano alla sua dignità, ch’ei non aveva curata in vita; ma è in vano, gli uomini vanno pazzi per la distinzione di grado, e a cui [291] non ne vuole vivo, gliene danno morto, e poi si lamentano delle ineguaglianze sociali: elleboro a tutta la razza umana di tutti i secoli!
Chi ebbe più giudizio fu Tello, che convertì in carità il legato del padrone, e i poveri del paese dissero che il barone Giovanni era pio e sobrio. Tello fu più leale, poichè lo fece seppellire nella chiesa di s. Flaviano, e scrisse sul sasso che il copre l’epigrafe che è in principio di questa storia, ove è detta la causa che trattenne il suo signore sul monte e il soverchio bere onde morì; ma Tello s’era educato non cogli uomini, ma col vino, e lo disse l’antico savio; che fra il vino sta la verità.
Passarono gli anni e resta quel sasso e quella memoria, e resta quel soprannome del triplice est al buon Montefiascone, abile non solo a inspirare un poeta, a riscaldare un vecchio, a rinforzare un filosofo, ma a innamorare sì un uomo che ne vada sotterra per passione e sfinimento.
Oh! non ghignate signore mie, nessuna di voi può vantare simili miracoli: eppure ogni dì qualche amabile vagheggino con due bei baffi, che se non piacciono ai dotti, piacciono a voi che valete meglio d’un’accademia, udite parlarvi dei vostri occhi che fanno male al cuore, di voler morire d’affanno; e non muore mai nessuno. Chinate umile la testa, confessate che lo stomaco vale più del cuore nelle grandi passioni; e fortunato chi inchina solo a quelle dello stomaco.
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