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Defendente Sacchi
Novelle e racconti

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LE PIANELLE TURCHE

Avventura
del pittor Lippi3

 

Però le cose non camminarono sempre liete. Ne andai ad Ancona e nuovi amici, nuove belle, nuovi tormenti, e nuovi tormentati. Ne corsimo per diporto un con una barchetta in mare ed ivi se la cibavamo allegramente, quando ne fu sopra una fusta di mori, ne presero a man salva [368] e ne menarono tutti in Barberìa. Poveri pittori, povero Lippi! schiavo chi sdegnava le catene: pane ammuffito, acqua fresca, un cencio per letto, lavorare da mattina a sera, servire ad ogni comando, un bastone sempre alzato sulle spalle, e la morte sugli occhi: monna Lipaccia mia buona Nonna che voleva farmi frate, aveva ragione: il ripeteva ogni : — Se avessi la tonaca vivrei con pace: andrei a buscarmi ventura con belle ciancie; ed il peggio che me ne potesse seguire, sarebbe toccarmi l’esser posto in novella come frate Cipolla; manco male. —

Intanto que’ pirati andavano colle loro navi in corso, e dopo pochi giorni ritornavano carichi di bottino, lo ponevano in comune e vi mettevano intorno grida e salti, e facevano loro orgie; indi lo spartivano a misura del grado e delle durate fatiche. Vi traevano sovente anche di belle donne che alcune dividevano fra loro, altre riconducevano ai mercati d’Oriente. Che belle creature! aveva pure il gran patimento di vederle in podestà de’ barbari. Fra tanti guai, il peggio che mi cuoceva era di non potere alzare gli occhi sopra le donne, nere, bianche, perchè quei maledetti turchi minacciavano appiccarne ad una antenna d’una nave. Anche il mio padrone ne aveva molte e le tenea, com’è usanza maomettana, chiuse in appartate stanze, sicchè mai non vedevano che il brutto ceffo annerito del loro signore.

[369] Però non l’andò sempre a rovescio in tutto; perchè io era instancabile, destro a servire il mio padrone, e valeva un cenno a indovinarlo, prese a prediligermi, e a me solo fra gli schiavi consentiva l’entrare nella casa ed attendere a certe sue faccende. Quindi mi toccava qualche buon boccone, qualche altro favore, e ciò che più mi solleticava, aveva talora la ventura di vedere alcuna di queste belle schiave, che occhiava alla sfuggita; e m’accorsi da certi sguardi che saettavano, che sapea lor meglio la pelle bianca della nera; ma quell’antenna di nave mi metteva il brivido nei denti. Pure l’istinto la vince anche a rischio del collo. Un Adibech ne era ito sopra mare; passato il meriggio, tutto quietava in quella casa, ognuno era lontano, osava custode penetrare nell’Harem, poichè è luogo come sacro ed ossequiato, e quando lo stesso Signore vuole andarvi ne fa precedere un segno, e prima di porvi piede lascia alla porta le pianelle. Pensai di procacciarmi la buona ventura, e fui da un loro romito, sopra il quale metteva una finestra del gineceo, e quivi mi posi a cantare una ballata fiorentina.

Mosse quelle donne subita curiosità, trassero alla finestra, e stavano tutte mezzo ascose fra le cortine a spiare: desideravano vedere e temevano d’essere vedute. Io allora le chiamai perchè avessero pietà del povero schiavo; e come ve ne era alcuna italiana, m’intese, e sentii che [370] sommessamente ne parlava alle altre. Ripetei la preghiera e una voce angelica cantando mi rispose — Fuggi, ah fuggi! se ti coglie il musulmano sei morto: fuggi bell’italiano. —

Allora io le dissi che egli era lunge sul mare, che nessuno ne vegliava: dopo un breve bisbiglio che sorse fra loro a consulta, vidi aprirsi le cortine e sei amabili creature allungare il capo alla finestra, che parevano sei polli i quali sporgano il collo fuori dalla stia, e vedono il cibo dopo lunga fame. Mi guardarono compiacenti, mi salutarono con certi risolini abili a far ribollire il sangue nelle vene d’un morto; ed io, ardire, e senza altre parole, mi arrampico fra alcuni sporgenti tavolati, e in due salti sono sulla finestra e nella stanza, e senza levarmi i calzari. Spaventate, si ritrassero quelle donne, dando un grido di meraviglia e di paura; ma io, posto mano a’ miei vezzi, sì blandii ora l’una ora l’altra, che si calmarono; indi presero meco dimestichezza, e mi si fecero intorno e mi guardavano, e volevano sapere di mie venture, e mi dicevano le loro, e ne era interprete l’italiana, sebbene ce la intendessimo subito assai bene fra tutti anche cogesti e cogli occhi. In somma tutte presero simpatia meco, che piaceva loro più il mio viso bianco del ceffo abbrustolato del loro signore, e mi ponevano a sedere in mezzo a loro, ed io già le amava tutte.

Beata stanza era quella, se alle sgraziate che [371] l’abitavano fosse stato libero uscire a proprio talento, e le avesse consolate sovente la presenza di qualche uomo che fosse stato loro amico e non padrone.

Varie camere elegantemente addobbate formavano l’Harem, e quella ove tutte convenivano di consueto, era tutta a cortinaggi di seta listata a due colori: le pareti erano bianche e liscie, ed avevano solo a fregio dipinti nella parte più eminente alcuni uccelli o fiori orientali. Ad ogni lato erano varii specchi, quasi quelle donne dannate ad essere sempre sole, dovessero pur vedere moltiplicare il proprio sesso a maggiore angoscia. Stendevasi ad ogni lato per sedere un ampio ed agiato letto tutto formato a coltricette rivestite di stoffe seriche: in mezzo alla stanza stava un rotondo tavoliere tutto coperto fino a terra d’un ampio e ricco drappo intessuto in oro: altrove spartiti con simmetria vedevansi arredi preziosi d’argento e d’oro, vasi di fiori, serbatoi di essenze odorose, ornamenti di perle e di pietre risplendenti, quali li tributavano alla rapace mano de’ pirati l’Italia, la Persia ed il Catajo. Mi offrivano di que’ fiori, di quelle acque fragranti, mi confortavano con alcuni cibi squisiti, e per farmi più onoranza, vollero, come usavano con Adibech, prepararmi la nuova bevanda che allora tramandava l’Arabia ai musulmani, e non se ne aveva ancora gustata in Italia.

Pochi anni passati, alcuni pastori arabi [372] avevano notato che quando i becchi e le capre mangiavano di una pianta denominata caffè, erano prese da insolita allegrezza e vegliavano assai. Fu ciò riferto all’abate d’un vicino convento e perchè era dolente che i suoi monaci venivano sovente presi dal sonno nelle notturne salmodie, pose di fare cuocere di questo frutto, ne compose una bevanda, e datala loro a bere li teneva svegliati. Lo seppe il Mollah Chadely che pativa di continua sonnolenza, prese di quel frutto, lo abbrustolò e infranse, e ne cavò un beveraggio più squisito. Se ne diffuse tosto l’uso fra i Dervis e i Maomettani che lo hanno fra le voluttà più gradevoli, e il più pregiato presente all’amicizia. Di questo nettare vollero deliziarmi quelle amabili donne; e prestamente racceso un bragiere, e postovi sopra un capace recipiente con acqua, e fattala bollire, vi infusero di quella nera polve che oliva soavemente. Poichè spumante gorgogliò sugli orli del vaso, la versarono in liquore in alcune tazze d’argento, e con cari vezzi me la porsero a bere: meco scambiavano le loro tazze, e sguardi e parolette, sicchè io mi bevea la più cara voluttà che abbia mai gustata in mia vita, avrei attinta se fossi stato frate; però era tanta la dolcezza che in quel momento non ebbi neppur tempo a pensare che monna Lipaccia aveva torto.

Ma convenne partire e ne calai per la via ond’era salito, dando promessa di tornarvi. certo io era restìo all’invito e sovente v’andai, e [373] mi parevano ore beate quelle: era una simpatìa, un affetto, un amore universale con quelle amabili donne, un’armonia mirabile, una cuccagna.

L’andò bene per molti giorni: ma la buona fortuna ne rese ciechi e imprudenti, le mie visite frequenti e non sempre in buon tempo. Un che io era nell’Harem e avea sorbito il mio buon caffè che amava quanto le mie monachelle, e mi stava innebbriato tra loro, ecco s’ode il segno che ne veniva Adibech e un grido disperato di tutte — Ah fuggi, fuggi! — Volo alla finestra; stavano aggruppati molti pirati in quella parte riposta, intesi a dividersi un bottino e il calare era l’essere tosto trafitto dalle loro sciabole. Fu uno squallore e una tristezza di tutti; alle donne pareva ch’io già fossi morto ed esse gittate in un sacco a macerare in mare. Volsi gli occhi allo spento bragiere, mi corse un pensiero, presi un carbone, ordinai alle tapine di stare tutte raggruppate da un lato, intese a guardarmi senza far motto: non compresero quant’io meditassi, ma spronate dal timore seguirono il mio consiglio. Allora io prestamente sull’opposta parete mi posi col carbone a delineare i tratti d’Adibech e di tanto egli indugiò a levarsi le pianelle che ebbi tempo di farne il volto e parte della persona. Mentre timoroso e dubbio attendeva a quella cura e pensava da vero che monna Lipaccia aveva ragione, entrò tutto profumato il negro musulmano.

Appena mi vide, arretrò stringendo il pugno [374] sulla daga che aveva al fianco, guardò fieramente le donne e me, che come non mi fossi accorto di nulla, seguiva a tratteggiare il mio disegno. Ei cava il ferro e bestemmia Maometto; le donne cadono in ginocchio, fanno delle braccia croce sul petto e danno un grido. Allora come riscosso mi volgo; ed egli alza la mano, mi viene sopra per ferirmi, ma corre coll’occhio alla parete e vede il suo ritratto. Maraviglia alla novità e sta sospeso a guardarlo. Vidi fausto augurio e tosto chinato un ginocchio, ossequioso, ma franco gli dissi: — Punisci signore la mia pietà, ma abbi compassione all’amore di queste tue innamorate: esse dolenti di vederti sì di rado, scopersero un ch’io nel cortile segnava nell’arena il tuo ritratto; desiderose d’averlo per confortarsi, vedendoti almeno in effigie quando sei lontano, mi pregarono se volea farne uno in questa stanza. Mi parve onesto il desiderio, sebbene pericoloso l’assentirvi; pure credei non dovesse essertene grave e oggi venni: stava in fretta lavorando, ed esse lunge timorose e liete guardavano. Ora puniscimi se l’ho meritato. —

Fu gran fortuna dell’arte; il barbaro che più non aveva veduto simile prodigio, scoprendo le sue forme, osservava maravigliato e taceva. Le schiave alle mie parole s’erano riconfortate; trasse innanzi sommessa ed ossequiosa la bella italiana, e con timidi ma seducenti modi gli ripeteva quanto io aveva detto, domandava perdono dell’ardire, [375] e dicevagli che esse intendevano fargli una gradevole sorpresa come avessero avuto quel tesoro. Ei nulla pur rispondeva, ed io tosto ripreso il carbone, proseguiva il lavoro e in breve finii quel ritratto come egli era arredato in quel momento.

Poichè fu a termine, e lo inchinai colle braccia sul petto, ei mi pose una mano sulla spalla — Cristiano, volgiti all’oriente e adora Alaah, che oggi ti dona la vita. —

Gli feci un grande inchino e n’uscii, ringraziando e monna Lipaccia che era stata causa, io apprendessi il disegno, e le pianelle che m’avevano dato tempo di farne buon uso.

Adibech poscia volle che io gli facessi qualche altro lavoro, e tosto trovati alcuni colori come me li poneva la fortuna d’innanzi, gli pinsi un ritratto che gli parve meraviglioso. Le sue mogli, come lo portai nell’Harem, il pregarono che facesse ritrarre esse pure, le movesse un po’ di vanità o qualche altra più sottile malizia; lo concesse il moro, sicchè io fui il più lieto del mondo, perchè potei a mio grand’agio andarne più volte fra loro, e accertarle dell’amor mio, e avermi il caffè, e i vezzi; e quando giungeva Adibech annunziato dai suoi segnali, sempre io dipingeva.

Ma per quanto fosse dolce quella vita era pur sempre servire; sicchè accortomi che il mio padrone m’aveva posto affetto, gli chiesi di vedere il mio cielo e la mia patria. Egli vi accondiscese, mi condusse a Napoli, mi fece libero, e vidi le [376] belle napoletane, e bevei il buon vino di Lipari, e dimenticai presto le mie amiche dell’Harem ed il caffè. Gran fortuna avere un cuore sensitivo ed un palato di buon gusto! si accomoda ad ogni beveraggio, e non si intisichisce mai di maledetto sentimento.

[377]

 

 




3 Questo frammento fa parte di alcune Memorie di Filippo Lippi, scritte da lui stesso verso il 1420 e scoperte in un palimsesto che esisteva in una biblioteca del mondo.






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