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Defendente Sacchi
Novelle e racconti

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NON È PIÙ IL TEMPO CHE BERTA FILAVA

Novella storica

 

I.

 

Vengono questi signori? — È passato un corriere che vola verso Padova, e disse che sono poco lontani. — Oh davvero! ho voglia di vedere questo Enrico iv che per togliersi l’anatema di dosso, stette tre giorni nella corte del castello di Canosa a piedi nudi, coperto di cilicio, in mezzo alla neve, prima che Gregorio vii gli acconsentisse di baciargli il piede. —

Ah sì! fece una grave penitenza; ma ritorna col fiato grosso, va verso Roma con forte armata, e chi sa come la vorrà finire, perchè vi è molta [377] rabbia da tutte le parti. — Eh! lascia che se la giustino tra loro; prepariamo i fiori per ispargere sulla porta della chiesa. Sai che Enrico ha seco Berta, la sua nuova sposa, ed è stabilito che si fermeranno su questa piazza ove riceveranno l’omaggio dei signori del paese, indi andati in chiesa a breve preghiera, ripiglieranno il viaggio di Padova.

Alternavano queste parole la mattina d’un giorno d’estate del 1081, un sagrestano ed un abate sulla piazza di Montagnana, piccolo paese poco lontano da Padova: intanto dalle case, dalle contrade uscivano persone d’ogni età, e accorrevano curiose sulla piazza, e dimandavano a quei due se venisse il corteggio, e uditane risposta, ritornavano in casa e uscivano di nuovo.

Finalmente s’odono suonare in festivo metro le campane del tempio, e si leva nel villaggio un subito gridare di voci — Giungono, giungono; sono poco lontani; sono a veduta di quelli che stanno spiando sulla torre. — E fuori d’ogni parte gente, e tutti si affollano sulla piazza, e tutti si volgono da una parte, allungano il collo, e si levano sulla punta de’ piedi per vedere se giunga alcuno. Ad ogni fragore lontano, alcuno gridava: — Eccoli, eccoli — ad ogni arrivare di nuove persone chiedevano — se erano lontani, se erano molti, se erano ben vestiti, se bella la Regina; — e gli altri a rispondere in mille modi, e un cicalare confuso, e un muoversi e un dimandare.

Finalmente s’ode una tromba; tutti fanno [379] silenzio, tutti s’affisano ad un lato, una voce grida: — La bandiera, evviva — e tutti ripetono evviva, e le campane suonano, e le grida addoppiano; la gente cresce, le trombe si avvicinano, e gli araldi muovono fra la moltitudine che si allarga ossequiosa. Inoltra un drappello di cavalieri, di soldati vestiti di ferro, con grandi spade che ora appena potrebbero reggere i nostri militi, e sulle quali era scritto — durum in damnum — onde poi le dicevano durindane; altri portavano mazze ferrate sulla spalla, tutti scudi e rotelle di varie forme e grandezza.

Dopo i soldati veniva un gruppo di cavalieri arredati con armi dorate, fra’ quali primeggiava uno che e per l’abito più ricco, e per l’ossequio onde gli altri il seguivano, tosto si conobbe per Enrico. Seguitava un carro tutto recinto da cortine di seta e fregiato a frappe d’oro, formate a padiglione. Quando quel corteggio arrivò in mezzo della piazza, i cavalieri scavalcarono e furono tosto intorno all’Imperatore, e chi gli prese le staffe, chi gli pigliò la briglia, ed ei spiccò un salto e fu a terra.

Il carro intanto era giunto innanzi alla porta del tempio, ed Enrico avvicinatovisi ne rimosse le cortine e si vide assisa sopra ricchi origlieri una giovane donna, bella d’aspetto, riccamente vestita; e il popolo iterò grida di evviva, e poi toccandosi col gomito si dicevano l’un l’altro: — Guarda, guarda come è bella! Oh quante gemme! evviva, evviva. — Ed essa d’un inchino sapeva loro cortesia.

[380] Intanto Enrico le porgeva la mano, ed ella si levava; alcuni araldi portavano una scala, l’accostavano al carro, ed ella tutta leggiadra scendeva.

In questo mezzo erano accorsi, sulla porta della chiesa, i sacerdoti arredati di paramenti pontificali, e benedivano agli illustri peregrini. Innoltrarono quindi i maggiorenti e il capitano del paese, e tenutisi a ragguardevole distanza dalla coppia augusta, alternavano grandi inchini ed interrotte parole fra la reverenza e la confusione; quegli inchini ripeteano pur tutti, ma niuno avea pensato di offrire un donativo. Berta e lo sposo, poichè ebbero risposto compiacenti a quegli omaggi, per togliersi a maggiore importunità, mossero lentamente in giro sulla piazza, facendo vista ora di guardare a trofei di fiori, ora alla facciata del tempio sulla quale erano a bassorilievo rozzamente scolpite caccie, colombe, uomini a cavallo e fregi simbolici: intanto ad ogni piccolo loro movimento, la moltitudine affaccendata e curiosa allunga il collo, intende lo sguardo, calca, preme, innoltra, ritrae, sicchè era su quella piazza un commoversi di genti, che pareano foglie secche d’autunno aggirate dal vento.

Però fra tanto movimento, la Regina s’accorse che presso l’ingresso della chiesa, era sempre stata immobile e ritta sui due piedi una donna in verde età, di forme gentili, avvolta in povere vesti: costei aveva una sua rocca al fianco [381] rafferma allo scheggiale, e mentre tutti oziavano, si agitavano e correvano, ella annicchiatasi in disparte fra lo sporto ed il muro della porta, seguiva pacatamente a trarre a grandi agugliate il filo della rocca e a ravvolgerlo sul fuso; guardava que’ personaggi, ma però non restava dal suo filare.

Berta maravigliò nel vedere quella donna e voltasi ad uno de’ signori del paese che le stava vicino, il dimandò chi fosse: costui e per dispetto che la poveretta si fosse posta colà al lavoro, e perchè temeva la Regina non lo avesse a sfregio, rispose essere una miserabile stordita. Sentì la buona femmina l’insulto e nulla rispose, diede una spalmata al fuso, guardò quel signore con un tal atto piuttosto di compassione che di risentimento, indi fisata la Regina chinò il capo con un sorriso e quel fare modesto che indica rispetto. La Regina s’avvide costei non essere scema, pazza, e mossa da naturale vaghezza, se le accostò, e piacevolmente le chiese chi fosse e perchè tanto affaccendata.

La buona femmina sospese il proprio lavoro, raccolse il fuso nella sinistra, e preso coll’indice ed il pollice la rocca la abbassò alquanto, lasciò cadere la destra, e fece un inchino — Mi chiamo Berta — le rispose, e la Regina sorrise — Oh! hai il mio nome: brava prosegui. — L’altra con un modesto rossore che se le diffuse sul volto, fattasi più animo riprese: — In fresca età mi [382] tolse il cielo i cari parenti, e sola restai sorella e madre a due fanciulli, e senza fortune, anzi poveretta come Giobbe: eppure il Signore mi avea lasciata più che a quello sgraziato, la salute e buone braccia, e bisognava adoperarle alla meglio, e mi rivolsi alla rocca: con questa guadagno il pane pe’ miei fratelli e per me; ma fila, fila, povera Berta, ne cavo poco e misero guadagno. —

Ed a lei tosto la Regina — Non hai chi ti stenda una mano? sei sola? non hai un parente, un amico, un benefattore? non ti capitò mai un marito? sei giovane!... Ah signora! pei poveri non vi sono parenti: ho un solo amico di mio padre che si ricorda di me, ma miserabile ei pure non può darmi che consigli: esso dividerebbe con me la cura de’ miei fratelli, esso mi stenderebbe una mano... ma fila, fila, povera Berta, non giunsi mai a mettere assieme un pizzico di danari per pigliarmi uno straccio di letto. — Fece un sospiro, alzò gli occhi al cielo pieni di lagrime, le terse col dorso della mano, e riprese — Sono tre , e giunse novella che oggi l’Altezza Vostra viaggiava per questo paese; tutti accorsero all’alba sulla piazza e attendevano: io pure desiderava vedereeccelsa Regina, ma e il pane ai miei poveri fratelli chi intanto lo guadagna? venni colla mia rocca, e mentre si attese questo momento, mentre tutti oziavano in vane parole, io la vuotai due volte... è vero mi fu necessità ridurmi in quest’angolo per isfuggire gli scherni [383] degl’indiscreti, ma io silenzio, e seguo il mio lavoro; tutti gridi e motti, e la povera Berta intanto filava; ed ecco che il cielo mi consente non solo vedervi, ma ottenere un vostro benevolo sguardo, udire la vostra voce. Eccelsa Regina, altri vi sparsero il suolo di fiori, i grandi vi tributarono inchini, ed io che non ho nulla che meriti a tanto splendore, io vi offro quanto ho di meglio, il lavoro delle mie mani: degnate accogliere il dono della povera Berta. —

Spiccò dalla rocca il fuso, vi ravvolse il filato dell’ultima spalmata, lo raffermò con un cappio a uno dei lati, e con mano tremante, con uno sguardo timido e incerto, piegato un ginocchio a terra, lo sporse alla Regina.

Que’ che erano intorno e tendevano curiosi l’orecchio, fecero un riso di disprezzo a quell’offerta della buona donna, e alcuni scuotendo il capo la rimbrottarono quasi commettesse un grave errore; altri con cenni della mano le indicarono di allontanarsi; ma tutto era niente per la discreta filatrice; e sporgeva il fuso alla Regina, ed ella con un compiacente sorriso lo prese — Povera Berta! il tuo dono è prezioso più di quanto darmi potessero i più grandi signori di Montagnana; sarebbe sempre una sola parte delle loro dovizie, tu mi dai l’aver tuo, il frutto delle tue fatiche, il pane della giornata: povera Berta, ti sono grata: alzati e mentre io vado in chiesa, qui riunisci i tuoi piccoli fratelli; il cielo penserà anche per loro. —

[384] Entrò nel tempio e la seguirono Enrico, i grandi che le erano di seguito, e i signori di Montagnana: costoro passando dinanzi a Berta le gittavano un’occhiata ed un sogghigno di compassione e di disprezzo. Berta intanto stava umile a capo chino, e appena diradarono le turbe, corse pei fanciulli, e fu di nuovo alla porta della chiesa. Uscì la Regina, la guardò, sostenne il passo e le raccomandò perchè seguisse a tenere que’ pargoletti a buona custodia. In quel mentre davasi il segno della partenza, veniva il carro della Regina, ed essa volgendo alla donna l’ultima occhiata le diceva: — Fila, fila povera Berta, che il cielo non dimentica i bisognosi. —

Si diede nelle trombe e il corteggio reale prese la via di Padova, e tutti gli abitanti di Montagnana lo accompagnarono fino fuori del paese con acclamazioni ed evviva, e come si dilungava lo seguirono coll’acume dell’occhio finchè uscì di veduta, e ritornarono. Erano diversi i discorsi fra loro; quali meravigliavano allo splendore di tante armi, quali motteggiavano perchè sperarono donativi, e ritornavano a mani vuote, quali si applaudiano di non avere offerto nulla a migliore risparmio.

Intanto Berta aveva rappiccato alla rocca un nuovo fuso, e filava sulla porticella della propria casa; era la sola di quella terra che avesse offerto un presente all’illustre pellegrina, e chi passando la motteggiava, chi la compassionava del [385] filo perduto: Berta li guardava appena e seguiva il suo lavorìo, e solo talora provocata rispondeva: — E che lamentate? chi di voi non diede più di inchini a que’ signori? e pretendete d’esserne pagati? — Allora alcuno la riprendeva: — Oh tu invero ne fosti rimeritata! perdesti il tempo ed il fuso. — Berta scrollava il capo: — Io m’ebbi assai: ella accolse quel mio povero dono, mi diede parole di consolazione, fece più di voi che mi schernite. — Volevano gli importuni rappiccare nuovi motteggi, ma la buona donna non rispondeva, traeva dalla rocca il filo, e diceva: — Fila, fila povera Berta, e lascia del resto cura al cielo. —

Con questi vaghi discorsi passò l’intero giorno: al nuovo ognuno era tornato alle cure usate, nessuno pensava a quanto era seguìto, parlava di Berta o del fuso. Ma non fu lunga la quiete: al mezzodì s’ode un lontano suono di tromba, trae gente, corre alla parte onde venne, e il suono cresce e si avvicina, e tutti guardano; si vede lontano un cavallo, poi due, poi tre; e un piccolo drappello d’uomini armati di tutto punto. Giungono, fanno corteggio a un cavaliere di splendide insegne, lo ravvisano, è quegli che stava sempre al fianco della Regina. Appena sono in mezzo alla piazza que’ militi si fermano, un araldo chiama in nome dell’impero il capitano e i maggiorenti di Montagnana: corre la voce e tutti traggono ossequiosi, e il popolo s’affolla intorno; [386] incerto, curioso, guarda e tace. Il cavaliere come vide folta l’adunanza, cala dal corsiero, e tosto un soldato gli presenta una cassetta d’oro: tutti la guardano, ei l’apre, vi pone entro la mano e cerca. Ognuno procaccia indovinare che debba contenere — Sarà il diploma che concede a Montagnana le torri e le mura merlate — Sarà il privilegio d’avere lo Scabino nel paese — Sarà il rescritto che franca Montagnana da Padova — E quei che erano vicini al capitano del villaggio lo tastavano col gomito — È il diploma di Conte — ed ei sorrideva.

In fine il cavaliere trae il misterioso tesoro, e lo solleva, lo ostenta nella destra: tutti guardano impazienti, esclamano maravigliati: — Il fuso di Berta! — Suonano le trombe, si fa silenzio, e quegli parla in gran voce: — Ossequio ai voleri della Regina: essa manda riconoscenza alla sola povera donna di Montagnana che le fece un donativo: perchè poi non sia senza compenso la generosità della buona filatrice, ordina al capitano di questo paese che si doni a Berta tanta terra del comune quanta formi un quadrato, il lato segnato dal filo che è avvolto sopra questo fuso: la Regina rifarà i danni al comune: si eseguisca; pena bando dell’impero a chi si oppone.

Si di nuovo nelle trombe, e tutti si guardano in viso, e trasognati non fanno parola. Intanto quel drappello de’ militi imperiali incede verso i campi, e sommessi li seguono que’ di Montagnana. [387] Poichè giunsero nel luogo più ubertoso, sostenne il corteggio; il cavaliere fatto coll’indice ed il pollice d’ambo le mani anello, e impostovi le due acute punte del fuso, commise il capo del filo al capitano del villaggio: questi traendolo andava lentamente lungo il campo, e il fuso girava e il filo si svolgeva, e quando fu vuoto il primo fece un segno, e l’altro si rattenne. Allora ordinò che dietro quella misura si segnassero tre altri lati, sicchè si facesse un ampio quadrato, e il capitano e que’ di Montagnana ubbidirono, sicchè si tracciarono i confini di un capace poderetto.

Intanto era giunta alla povera Berta una voce che la chiamava, ed ella venne colla sua rocca al fianco; e stette atteggiata di modestia innanzi al cavaliere. Questi la salutò piacevolmente chiamandola per nome, e presala per mano la condusse in mezzo al terreno segnato e le disse: — Berta tu ben filasti: i poveri e i generosi sono prediletti della Regina: questo è tuo podere; soccorri i tuoi fratelli, e vivi lieta: guai a chi turberà la tua terra, o muoverà i confini de’ tuoi campi: dirai che li acquistasti nel tempo che altri stava oziando e Berta filava, e li protegge l’Aquila dell’impero. —

La buona donna ne era meravigliata, chinava un ginocchio, alzava le mani al cielo — Sia benedetta la Regina! — Intanto si dava di nuovo fiato ai cavi bronzi e il drappello partiva, e gli [388] abitanti del villaggio, incerti, maravigliati, si guardavano in viso, si stringevano nelle spalle e taciti a poco a poco si disperdevano e ricovravano nelle proprie case. La buona Berta non ne prese orgoglio, corse a baciare i proprj fratelli, perchè avesse il Cielo provveduto più largamente ai loro bisogni, e fidanzò l’amico che solo l’aveva soccorsa di consigli, perchè coltivasse i campi, mentre ella pur seguiva a filare.

In questo mezzo diversi affetti e pensieri si volgeano fra i paesani della filatrice; curiosità, maraviglia, e un tacito sogguardarsi, e un sogghigno di disprezzo, e que’ motti che sfuggono involontarj nel succedersi di contrarj pensieri. Ma infine quando videro segnata tanta parte de’ campi che formava un poderetto onde era tolta la buona donna da’ passati disagi, furono presi da quella tacita invidia che sorge negli animi a un bene altrui, in ispecie quando si è persuasi che si potea egualmente conseguirlo. Allora incominciarono a mormorare, perchè il capitano e i capi del paese non avessero offerto alcun donativo agli illustri viaggiatori; poi ognuno biasimava se stesso siccome smemorato, perchè non avesse pensato soccorrere a quella scortesia col dare un presente come fece Berta: ognuno la ragionava a proprio modo e chi per iscusarsi diceva, non essere facile indovinare che la Regina si accontentasse sì di poco, e altri rispondea che coi grandi è solo sufficiente dimostrare la devozione dell’animo. In que’ discorsi [389] tutti pareano incitarsi a nuovi pensieri, scrollavano il capo in una tacita deliberazione, e si ritraevano a capo chino.

Ne’ giorni che seguirono, nessuno più fece parola di quanto avvenne alla filatrice: però sulla strada che da Montagnana mette a Padova, si vedeano molte persone di quel paese silenziose e sole, diverse di sesso, andare leste, ma dubbiose d’essere vedute, tremanti che altri scoprisse i proprj pensieri. Giungeano a Padova, correano le contrade vagando come gente nuova e curiosa: poi chiedevano le novelle del giorno, poi dimandavano sommessamente della Regina, se era giovane e avvenente, se fosse lecito vederla, e parlarle. Udirono che appresso a tre giorni dovea rendersi coll’Imperatore nel circo, per vedere lo spettacolo del Castello d’Amore, che la città celebrava per festeggiarla, e che largiti i premj ai vincitori, dava libera udienza a chiunque volesse parlarle: que’ di Montagnana furono lieti a tale notizia, non risposero, si dispersero fra gente e gente, ed attesero.

Sorse il giorno della festa, che in que’ tempi di cavalleria e di gentilezza, crearono i Padovani a simboleggiare le cortesie d’amore e ripeterono parecchie volte fino al secolo xiii. In mezzo a un’ampia campagna, erasi formato di legne ben conteste un circo a vari gradi, tutto ricoperto di tappeti addogati ed a colori diversi: alla destra dell’ingresso sorgeva eminente un palco tutto [390] rivestito di seriche stoffe di varj colori, a frappe, a fregi arabescati, cose tutte che i Veneziani recavano dall’Oriente nel commercio d’Italia. In mezzo al circo, sorgeva un elegante castello formato di legno, con torri e merli, ma avea tutte ornate quelle torri e que’ merli di ghirlande, di fiori e di trofei; alle porte, alle finestre, erano invece di ferriate imposte e serraglie, cortine di stoffe abbassate e chiuse: nell’interno non archi, non freccie, ma fiori, essenze odorose, frutti e confetti: a farvi guardia stavano non guerrieri armati di ferro e di ferocia, ma gentili dame arredate di tutta eleganza, piene di vezzi, di lacciuoli e di lusinghe.

È il vespero: già il popolo affollato nel circo alza grida diverse, ed è impaziente dello spettacolo: giungono la Regina ed Enrico col corteggio, e appena si collocano a’ loro posti, si il segno della battaglia. Ecco appaiono nel circo, e vanno per assediare il castello molti guerrieri: però non vestono corazza, non coprono il capo coll’elmo, il braccio cogli scudi, non portano lance o spade, ma indossano un’elegante cotta d’arme tutta di seta a frange d’oro, vanno a capo scoperto e tengono piene le mani ed i turcassi di fiori e di confetti. Si attelano innanzi al castello in aspetto più di preghiera che di minaccia, suonano gli oricalchi, e tosto si vedono aprirsi le cortine e apparire alle finestre e sui merli molte dame gentili che dagli occhi accesi e [391] dagli atti soavi, accennano essere preste a muovere aspra guerra ai cuori. I cavalieri chinano i ginocchi e intimano loro di arrendersi, ma le fiere negano: sorge minaccia, corrono suoni di battaglia, l’ira ministra l’armi, e s’accende una zuffa ostinata fra i guerrieri e le belle assediate: si gittano a vicenda, non sassi e freccie od olio bollente, ma quelle piovono nembi di fiori ed essenze odorose, e questi spingono a combatterle serti di mirto, mazzi di rose, vezzi di perle, monili, confetti; si traffiggono di dolcissime parole, e gli uni pregano misericordia; e le altre negano d’arrendersi; e intanto s’alterna una musica dolcissima d’amore. Finalmente dopo il combattere di alcun tempo, i guerrieri s’accordano di fare l’estremo di loro possa, e messa mano a molti panieri di marzapani, di confetti e di melarancie, ne gittano un tal nembo contro alle belle che combattono dalle finestre e dalle torri che le stringono a ritirarsi; altri muovono lo stesso assalto a quelle che guardano la porta, sicchè retrocedono, si danno per vinte, e i guerrieri entrano nel castello e gridano la vittoria d’amore.

Ne uscirono quindi menando trionfo, ed ogni cavaliere adduceva a braccio una delle vinte dame, che camminavano orgogliose siccome vincitrici, e fra lieti suoni venivano a deporre corone di mirti innanzi alla Regina; essa dava loro donativi ed encomj, e li invitava alla prossima danza che già si apparecchiava nell’interno del [392] Castello d’Amore: essi la inchinano di nuovo e ritornano a quel loco improvvisamente tramutato in elegante sala per ballo.

Intanto gli araldi aveano annunziato essere permesso parlare e chiedere grazie agli sposi augusti, ed appena diedero luogo i combattenti, trassero in numerosa schiera cavalieri e dame e cittadini padovani, e quali prestavano omaggio a Enrico, quali a Berta e ne aveano cortesi risposte. Allora uscirono dalla folla da varie parti, uomini e donne in ricche vesti, e tutti si diressero alla Regina, e tutti come le furono innanzi guardandosi fra loro si conobbero d’una terra. Berta dal suo seggio li guardava benigna ed accennava loro che le aprissero i proprj desiderj, e quelli rispondevano di venire da Montagnana a portarle un donativo, e tosto il traevano di sotto alle vesti; erano matasse di filo, o grandi fusi carichi di filato, quali avvolti in fiori, quali recinti di fettuccie a colori, di nastri dorati, e piegavano il ginocchio, e li offrivano a Berta, e levati cedevano il loco al vicino: la Regina accoglieva il presente e lo rimetteva al suo scudiere.

Come ebbero tutti fatta l’offerta, ella seppe loro cortesia, e perchè stavano muti a riguardarla, come quelli che pur attendessero alcuna cosa, chiese loro in che modo potesse rimunerarli. Tutti ammutolirono, chinarono incerti il capo, la guardarono con un sorriso e un desiderio. La Regina li comprese — Duolmi del vostro viaggio; qui [393] traeste allettati dal modo onde fu rimeritato il fuso della povera vostra paesana: miei cari, ella offrì spontanea quanto voi oggi mosse o invidia, o desiderio di guadagno, ed era passato il tempo che Berta filava; il mio scudiere vi rimetterà il vostro dono, e ai bisognosi rifarà le spese del viaggio: ritornate al vostro paese e procurate con onesta fatica accrescere le vostre dovizie, poichè questo filo non può procacciarvene: non è più il tempo che Berta filava. — Si levò dal seggio e sorse intorno un applauso de’ circostanti; mosse al Castello d’Amore e prese una danza.

Que’ svergognati riebbero i loro fusi e le loro matasse, ed una moneta; muti, silenziosi ad uno ad uno si rimisero sulla strada già trita, e ritornarono sull’imbrunire a Montagnana. Andavano a capo chino e a quelli che li chiedevano ove fossero stati, a quelli che a parte del segreto dimandavano come la fosse andata, rispondevano solo; — Non è più il tempo che Berta filava.

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