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Defendente Sacchi
Novelle e racconti

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LA LATTAJA DEL LAGO

Novella

 

Oh lat! Oh lat! —

Era una voce argentina di donna che eccheggiava nella strada d’un popoloso paese prossimo a un lago di Lombardia. Due amici che conversavano nelle stanze superiori di un palazzo che fiancheggiava quella via, trassero al balcone per vedere chi levava quel grido.

Era una bella forosetta di forse diciotto anni, vestita contadinescamente: aveva una sottana piuttosto corta, sicchè lasciava scoperta parte delle ben tornite gambe, rivestite d’un par di calze bianche di [480] bucato; un grembialetto bianco, un giubbarello colla manica tagliata al gomito, dalla quale soverchiava quella della camicia, guernita d’una trina a trafori. Aveva in capo le treccie rafferme con spilli d’argento, e sopravi rappiccato un breve cappello di paglia: copriva le spalle e il seno con un fazzoletto, in mezzo al quale, ove le code si ripiegavano sul petto, vedevasi un mazzolino di fiori freschi: al braccio sinistro le pendeva un canestro col manico, con entrovi varie bottiglie di vetro sottilissimo piene di latte.

Con queste ella girava il paese, annunziava col grido il suo giungere, fermavasi ove era dimandata, con una misura versava il latte nel serbatojo che se le offriva, a proporzione della moneta che le era data: indi lesta, snella, tornava a correre le contrade; ed a fare quel suo richiamo.

— Oh lat! oh lat! — tornò ella a gridare, mentre que’ due curiosi spingevano il capo fuori del balcone, come due colombi dal nido, e tosto uno:

— Oh bella! guarda, guarda che viso d’uva moscadella! che pomo primaticcio! ehi, bella ragazza, badate un po’ anche a noi?... Ed ella, — Oh lat! Oh lat! — e spiccia, spiccia, senza far vista d’udire, si dilegua, svolta al primo angolo, e s’ode eccheggiare nell’altra contrada la sua voce.

Rimasti que’ due con un palmo di naso, incominciò il conte, che era il padrone di casa:

— Ma vedi che bella creatura! per verità che farebbe gola d’appiccargli un baciozzo.

[481] — Eh! rispose l’altro più giovane e quello appunto che aveva chiamata la fanciulla: non ci vuole molta fatica: queste ragazze vanno in giro portando il latte, chiamate entrano nelle case, e intendi bene, umane debolezze! i signori che capitano dalla capitale garbano loro meglio de’ villanzoni de’ monti; un vezzo, una parola, valgono più dei sospiri di un mese soffiati a Milano sotto un palco alla Scala.

— T’inganni, Carlino mio, l’altro rispose: credi pure, in questa buona gente di campagna vi è ancora della virtù; l’imparano colla religione, e innanzi che giungano a perderla ci vuole assai. —

— Ah! ah! forse costoro non faranno all’amore?

— È una cosa diversa; altro è parlar di morte, altro è morire: avranno anch’esse i loro adoratori, ma non corrono che parole alla domenica, qualche serenata, qualche mazzo di fiori, e tutto in fede di future nozze: quando poi viene il tempo di stringere i gruppi, una buona merenda sul lago, e sono sposi e contenti.

Carlo scuoteva il capo: — Già tu sei l’uomo che vede la virtù universale: quanto metti a scommessa, che dimani quando costei passa, se la chiamiamo viene sopra e non sarà tanto austera come pensi?

— Bada a non perdere: ecco uno zecchino da godere insieme: ma ricordati ch’io non voglio insolenze; andrà perduto se ella sarà mansueta alle [482] tue moine; io starò là nella vicina stanza; sempre pronto a darti sulla voce. —

Detto e stabilito, e il resto della giornata si volse allegramente in buona compagnia.

Alla mattina Carlo si levò un po’ prima del consueto, si lisciò i capegli ed i baffi, s’arredò con qualche eleganza. Quando lo vide l’amico:

— Eh, eh! aria di conquista!

— A momenti ti scrocco lo zecchino.

— Bada che non l’hai ancora in tasca — e da lontano:

— Oh lat! oh lat! —

— Oh! eccola, viene: io mi ritraggo; fa’ la tua parte; ricordati che non voglio indecenze. —

Intanto la bella lattaja poneva piede nella contrada e faceva il suo grido, e come fu vicina alla casa, il giovane sporse il capo dalla finestra:

— Ehi! quella del latte, entrate, salite lo scalone a mano diritta. —

Ella ode, alza il capo verso la casa onde usciva la voce, guarda la porta e dentro: sale, è in anticamera, non vi è nessuno:

— Signori! quella del latte — e inoltra a passi brevi e con riguardo, allunga il collo per ispiare nelle porte aperte se viene gente, e vede in fondo a molte stanze un giovane signore che le accenna di andare avanti.

Ma ella avvezza, appena entrava nelle case, a vedere co’ recipienti pel latte i domestici, la fantesca o il cuoco venirle incontro, in corte o sulle [483] scale, o nell’anticamera, restò maravigliata a quella novità, prese sospetto di qualche inganno, e si fermò sul limitare della prima stanza. Il giovane signore seguitava a gridare:

— Avanti, bella lattaja: venite qua. — E non si muoveva, ed ella tenendosi immobile sulla porta:

— No, no; venga ella qui, che io ho i piedi sporchi per entrare in sì belle camere. —

E l’altro pur chiamandola a più potere, se le avvicina d’una stanza; ed ella rispondendo, senza avvedersene entra nella prima, e dalli, e chiama, e vieni e non vieni, per avvicinarsi l’uno all’altro, il giovane riduce la lattaja nella seconda stanza, ove giunge egli pure: tosto leva un gran lamento di quella diffidenza, e facendo vista di cercare recipienti pel latte, gira dietro alla contadina, e accostatosi alla porta, con un urto la serra senza ch’ella quasi se ne accorga fra il tanto schiamazzìo onde colui assorda la stanza. Indi prese una capace tazza, si assise sopra una ottomana, e dicendole che la empiesse di latte, se la fece accostare: allora guardandola tutto vago:

— Oh come sei bella! via, siedi tu pure qui vicino, e facciamo quattro chiacchiere — e la fanciulla mostrando di non comprenderlo, con ingenuità:

— Signore, non ho tempo: or via quanto latte vuole? due soldi bastano per empiere questa tazza.

— Oh che importa a me del latte! penso ai tuoi occhi furbi! sei bella sai?

[484] — O bella, o brutta non sono per lei; vuole o non vuole il latte?

— Ih! Ih! sei ben fiera — e si levò e petulante le prese il mazzo di fiori che aveva in seno:

— Dammi questi fiori, che ti donerò un anello.

E l’altra prestamente ghermì i suoi fiori:

— Che anello? non ne ho bisogno: questi fiori sono del mio sposo, e non li darei per un tesoro.

— Oh sei ben fedele! or via siedi meco, e narrami di questo sposo. — E allungava una mano e le prendeva un braccio, che era fresco e morbido come una giuncata.

La contadina si ritrasse dispettosa:

— Finiamola signore: la saluto — e volò alla porta, mise mano alla molla, ma il giovane l’avea raggiunta, e col piede impediva che aprisse. Ella non si scompose, alzò gli occhi, aveva pensato.

L’altro più ardito se le accosta di nuovo, la punge con procaci motti, e allunga le mani: la fanciulla non risponde, prende una bottiglia di latte e gliela avventa in faccia: la bottiglia di vetro sottilissimo si ruppe, e tutto gli immollò gli occhi e il petto, sicchè sbalordito retrocesse di due passi ponendosi le mani al viso. La villanella colse di quella tregua, corse colla destra alla molla della porta, la girò, aprì ed uscì, dicendogli con mal piglio, che era povera, ma onorata.

In quel momento il conte sbucò dal nascondiglio, e ridendo all’impazzata:[485] — Oh! ti sta bene, cane petulante: saprai ora quanto valga la galanteria delle lattaje.

Il povero Carlino tutto spennacchiato, come un pollo caduto nell’acqua, era corso a uno specchio per osservare se il vetro gli avesse sconcio il bel viso: non gli aveva fatta che una piccola graffiatura, si racconsolò, e col moccichino di seta s’affaccendava a rasciugarsi il capo ed il petto. L’amico lo guardava e seguiva a ridere:

— Oh la va bene e la va molto bene! sei proprio conciato per fare visita alle damine villeggianti: puoi narrare loro che gli amplessi delle contadine del lago sono sì dolci che sanno di latte. —

E l’altro che pur si affaccendava ad asciugarsi:

— Il diavolo porti lei e te: non credeva che vi fosse tanta austerità in queste deità minori: basta, farò digerire la rabbia quest’oggi collo zecchino perduto; ora mi muto d’abiti, poi saliamo il vapore e andiamo a mangiarvi sopra alla Cadenabia. — L’amico lo guardò e sorrise:

— Hai fatti i conti senza l’oste: caro mio, collo zecchino perduto non ti tocchi un dente. Mettiti una mano alla coscienza; la povera lattaja per tua colpa ha rotta l’ampolla e disperso il latte: vada il tuo zecchino per risarcirla; io v’aggiungo il mio per soprappiù. — Ah! ho capito, l’altro rispose mentre s’arricciava i baffi, vuoi farti innanzi alle mie spalle... Ma dove si va a pigliarla?

[486] — Non dubitare che la troverò io, se mi prometti di dimandarle perdono dell’ingiuria.

— Ingiuria! bada come parli: si vede che non sai di galanteria; per una donna non è mai ingiuria, una dichiarazione... via non farmi quella faccia brusca; ti accontenterò, un pardon più o meno a questo mondo è poco male; ne dico tanti alle belle di Milano quando tocco loro un piede, una mano, un gomito, che posso ben sacrificarne uno alla ninfa sdegnosa del lago.

— Bravo, sono contento: muta la camicia bagnata, ch’io intanto vado e ritorno. —

Uscì, e seppe in breve notizia della buona villanella: era di un paesello poco lontano sopra il lago, veniva alla mattina al borgo per vendere il latte delle giovenche di suo padre: era buona, savia, e sebbene girasse pel borgo e nelle case, serbava una mirabile innocenza e virtù. Tornò, narrava ciò con rincrescimento dell’offesa fattale all’amico che era già tutto attillato, e mentre gli parlava, colla spazzola spolverava la cappellina: come ebbe finito, questi scuotendo un po’ le spalle:

— Oh via, non affannarti tanto, che quei due zecchini le aggiusteranno lo stomaco. —

Presero una barchetta, si spinsero sotto il paesello ove dimorava la contadina, e furono sulla sponda, e in quattro salti salirono il breve pendìo che conduceva al casale; vi era una chiesetta, e tre o quattro case di villici.

— Sarebbe bella, disse Carlo, guardandosi [487] d’attorno, che oltre al latte sul viso, or ne vedesse madamigella lattaja, la diana del lago, e ne facesse ben bene bastonare, o addentare da’ suoi cani; basta, aguzzo gli occhi, perchè al caso ho buone gambe.

— Eh non temere, vieni meco: — rispose il conte, e girò sul fianco della chiesa, picchiò una porta d’una casa che vi era aderente e dimandò:

— Don Tommaso. —

Apparve un prete giovane e d’aspetto sereno, ma grave; chiese loro che desiderassero, e udendo che bisognavano d’un favore, li fece entrare in una stanza terrena, che gli valeva di sala.

Si assisero, e come il parroco li guardò per invitarli a parlare, il conte gli disse che erano venuti da lui per uno scrupolo, in causa d’una imprudenza occorsa al proprio amico quella mattina con una villanella sua parrocchiana.

Il buon prete s’accese in viso:

— Ah! uno di loro è quel signorino che insultò la lattaja; credono forse che questi poveri contadini sieno venduti ai capricci ed all’ozio dei signori? sotto que’ rozzi abiti, in que’ petti abbronzati dal sole, è un cuore che ha virtù: essi mangiano il pane di rinnegazione, e sanno che non si acquista merito in cielo se non essendo puri sulla terra; e se entrassero nelle loro casipole sparse su questi monti, ove sono molte famiglie innocenti, certo arrossirebbero confrontandole con quelle ricche, viziose di città... Anch’io conosco il fasto e i suoi vizj…

[488] Lo interruppe il conte assicurandolo, essere stata una pura irriflessione, e gli narrò della scommessa, e aggiunse:

— Umano è l’errare, ma è bello anche il pentirsi; l’amico viene a farne scusa, ed io offro la posta della scommessa imprudente per risarcire il danno di quella fanciulla.

— Signore, non si paga il rossore: vedo le sue rette intenzioni, ma la buona lattaja non vorrà certo accettare quelle monete. La misera ha animo puro, e dopo quella sciagura è desolata: una celia costa a una povera fanciulla molte lagrime; non dico favole, osservino.

Aprì una porticella che metteva in chiesa; e videro sur un banco inginocchiata col capo fra le mani la povera lattaja che piangeva, e ne furono turbati; lo stesso Carlino impallidì, e voltosi al parroco:

— Ah! signor curato, la prego faccia in modo ch’io possa assicurare quella buona fanciulla, essere stata imprudenza; ch’io mi tolga uno scrupolo.

Il prete lo guardò con un sorriso che era in lui tanto naturale, e dava approvazione: entrò in chiesa e que’ due lo seguirono: s’accostò alla giovane, la chiamò a nome. — Angiolina levò il capo, vide que’ due, conobbe quello che l’avea insidiata, diede un grido:

— Ah Signore Iddio! ajuto. — Il parroco la confortò a fidare in lui; indi le disse come fosse occorsa quella insolenza e come [489] que’ signori fossero venuti per dirle il loro rincrescimento, e chiedergliene scusa, accertarla che la stimavano. Ella si racconsolò alle ultime parole:

— Almeno son più quieta: dimenticherò questa disgrazia. —

Il curato allora le parlò di que’ danari: arrossì la fanciulla, e alzando modesta il capo: — Non ne ho bisogno; il poco che mi guadagno vendendo il latte, basta alla nostra famiglia: io sono ricca se mi lasciano l’onor mio. Pure se questi signori vogliono fare un’opera di carità, li conduca alla casa del povero cieco, e all’altra dell’infermo, e troveranno due famiglie bisognose, che li benediranno. —

Chinò di nuovo il capo, e lo pose fra le mani incrocicchiate sul banco, e il fazzoletto che aveva in testa per velo, tutta la ricoprì e la nascose. Il parroco faceva un sorriso di compiacenza, e senza pronunziare parola, la accennava con ambe le mani ai due signori che ne furono commossi.

Taciti e rispettosi, si allontanarono come si usa quando si lascia una cosa sacra: uscirono dalla chiesa, e accompagnati dal prete, portarono le monete, una per ciascuna delle famiglie indicate; le diedero a nome della lattaja, e udirono le benedizioni di que’ miseri.

Indi si divisero dal sacerdote taciti e senza parlare, solo scambiando alcuni inchini, perchè quella semplice virtù romita e celata fra’ monti, li avea sì commossi che non sapeano formare una parola.

[490 bianca]

[491]

 

 




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