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Defendente Sacchi Novelle e racconti IntraText CT - Lettura del testo |
BERNABÒ8
MEMORIA
D’UN CONTEMPORANEO.
Ah respiro: mi pare d’esser uscito da una bolgia di Dante, o dalle unghie di Malebranche, lasciando Milano e i Visconti. Il nipote ha poste le unghie sullo zio, e Bernabò omai si dice mandato ad abitare il castello di Trezzo, donde non credo [616] che esca per certo. Povero diavolo! quasi mi mette compassione: è amor del prossimo proprio ad abbondanza, perchè se ripenso a quanto vidi e udii di costui, credo che non v’abbia fior di manigoldo che il vinca. Vo’ dirti alcune delle sue sporche virtudi, perchè se mai capiti a Milano, e passi da san Giovanni in Conca, ove la buona lana s’è fatto scolpire a cavallo, gli possa guardar bene in viso, e segnarti per non capitare, non ti dirò se fra le grinfe de’ scherri o quelle dei cani di suo nipote.
Giunsi in Milano, e appena scavalcai, vidi una gran faccenda per tutte le contrade di uomini e di cani. Fui quasi in sospetto che la popolazione si dividesse in queste due razze. Qua uno che si menava con bella catenella al collo un cane lucido e vispo: qui un altro che usciva da una porta, e ne conduceva due o tre, e li cercava intorno, li puliva, come le madri quando menano i bamboli alla festa. Alcuno diceva: — Basta, spero bene, a rivederci, — e mandava un sospiro. Un padre dividendosi dal figlio, e consegnandogli dei cani, aggiungeva: — L’andrà bene, i nostri sono in buon essere, — e l’altro: — O magri o grassi è lo stesso per quel maledetto. —
Il padre correva con mano tremante a chiudergli la bocca. — Taci, per carità; vuoi tu che ti veda abbruciato come un Paterino? — si guardavano e si dividevano senza far motto.
Vi erano con cani, donne e fanciulli; tutti [617] andavano verso una parte, io non ne intendeva nulla: seguo la curiosità e dietro, e nel camminare per diverse contrade udiva pur sempre alternare discorsi di questi benedetti cani; talchè io credei che fosse un delirio universale.
Finalmente dopo lungo svoltare di strade, si incominciò ad incontrare alcuni che ritornavano; e anche questi traevano cani: al primo che giunse si gittavano queste domande:
— Come l’è andata?
— Eh! per questa volta l’ho scappata. —
Giungeva un secondo: — Non così a me, che torno colla borsa più leggiera di fiorini.
Un altro aveva gli occhi rossi, non fiatava, non rispondeva alla pressa che gli facevano intorno i conoscenti, e tirava innanzi: io rizzava gli orecchi, strabiliava; più innoltrava, e comprendeva meno.
Però coll’avanzare s’addensavano sempre più per la strada uomini e cani, ed ecco si giungeva a san Giovanni in Conca, ove era la casa di Bernabò signore di Milano. È un vasto palazzo colla porta di marmo, e sopravi lo stemma de’ Visconti: è una biscia che mangia un fanciullo; si sono dipinti al vivo. In mezzo è la piazza della chiesa, e all’altro lato una grande casa, verso cui vedeva affaccendarsi quel popolo d’uomini e di bestie. Chiesi ad uno che luogo fosse quella, e mi rispose: — La Casa dei cani.
Non ne seppi meglio di prima, ma non ardii [618] avventurare nuove dimande, perchè vedeva dipinto in volto a tutti un’incertezza ed un timore, e in un paese nuovo per me e con tante stranezze, paventai di non commettere qualche sproposito; mi posi invece di fila cogli altri, per entrare ove andavano tutti.
Misi piede in un vasto cortile: in mezzo, sopra un gradino, erano raggruppati tre uomini: tre figure che m’avean viso di gente uscita dall’inferno: vestivano abito corto di pelle, aveano al fianco un lungo coltello; mento ispido, folto sopracciglio, vista torva, faccie pericolose. Que’ che conducevano i cani traevano innanzi ad uno ad uno colle loro bestie, si appresentavano a quel tribunale, e tosto uno di que’ tre pigliava il cane per la catena, gli faceva fare uno scambietto, colla mano lo palpava, gli tirava le orecchie, spesso gli premeva la coda per farlo guaire, guardava ai compagni, si scambiavano un’occhiata d’intelligenza: mentre colui che aveva condotto il cane stava quatto e pauroso, quello che aveva la faccia più birba, e dal portamento e dalle insegne accennava essere il capo, pronunciava la sentenza. Erano parole tronche, molte di biasimo, poche di soddisfazione: talora aggiungeva: — È magro, paghi tre fiorini d’oro: è troppo grasso, quattro fiorini. — Se il cane latrava, perchè pizzicato all’orecchie od alla coda, diceva: — È malato, abbiatene maggior cura intanto sei fiorini. — Sentenza fatta, nessuno osava fiatare; tutti partivano o mesti o allegri, sempre a capo chino.
[619] Per me l’era ancora un mistero tutta quella faccenda, nè potei venirne a capo se non dopo qualche dì, e credo che tu pure sarai incapace di svolgerla, se non ti do un po’ di tara a questa derrata.
Il signor Bernabò ha grande desiderio di caccie, tiene molti parchi al bisogno, ove sono selvaggine d’ogni fatta: nessuno però può pigliarne, tolto i suoi cacciatori o que’ che v’invita, quando va ei stesso a questo ricreamento. A tale bisogno pigliò molti cani, e sì li accrebbe, che salirono fino a cinque mila. Però, perchè il mantenere questa popolazione cagnesca era di soverchio dispendio, pensò di mandarla a pigione in casa de’ privati o in città o in campagna: talora lasciava libero al giudizio de’ cani scegliersi la casa ove prendere ospitalità; li mandava fuori di palazzo, e nella porta ove entravano erano i benvenuti. Vietò a tutti i sudditi di tenere proprj cani, e diede loro invece i suoi: essi aveano obbligo di cibarli e custodirli, finchè erano richiesti per le caccie. Perchè poi Bernabò era tenero della salute dei suoi cani, e temeva che i cittadini non li tenessero bene pasciuti, o li lasciassero andare a male, ordinò che tutti, due volte al mese, conducessero i cani ospiti alla visita del gran canattiere in città, o de’ suoi messi nelle campagne. Costoro giudicavano se que’ convittori erano alimentati con buona misura, e se li trovavano o troppo magri, o troppo grassi, multavano a denari quei che li [620] custodivano. Se poi i cani morivano, misericordia! il meno che ci andasse erano tutti gli averi. Questa era la giustizia di Bernabò, e spillava coi cani i poveri cittadini. Tutto era nelle mani de’ canattieri, giudizio inappellabile; e costoro in città o in campagna valeano più d’un pretore; erano temuti ed ossequiati.
Nè son favole; la caccia e i cani decidevano di tutto, e ogni dì ch’io a Milano m’andava a coricare, respirava di non essere stato preso per un nemico di questa razza privilegiata. — Bernabò incontrò un contadino che aveva un cane; sentenza data; fece ammazzare dal suo canattiere... chi credi? se ne dubiti non sei ancora stato a Milano. Di questi dì quando camminava per le strade, se mi vedeva un cane vicino, palpitava; non gli voleva perdere il rispetto, nè cacciarlo lontano con un calcio, poichè poteva avere la franchigia del Biscione: temeva che mi stesse a lato e si credesse appartenermi; o il meno, che quel mariuolo si dichiarasse mio commensale, o mi toccasse la multa che spillò gran parte delle sostanze ai signori Pusterla.
Questi aveano un’antica ruggine col Visconte, perchè Luchino volle amoreggiare Margherita, moglie di Francesco Pusterla, e questi sdegnato avea congiurato di ucciderlo; ma il misero perì colla moglie sulla piazza del Broletto Nuovo9 per [621] le mani del carnefice: vedi che costoro, zii e nipoti, sono tutti pietosi ad un modo. Perciò i Pusterla non voleano in casa i cani di Bernabò, non ne domandarono, e perchè non venissero spinti entro la loro porta, pensarono di ripararla. Fecero allestire a metà dell’atrio un assito alto poco più di un uomo, con una porticella per uscire ed entrare, che stava sempre ferma con una nottola: quindi i cani non potevano penetrarvi. Bernabò non ne mosse aperta querela, perchè si crede che avesse parte con loro nella congiura contro lo zio; lasciò operare al gran canattiere: costui non ardì violare la casa Pusterla, ma cacciò un cane tra le gambe d’uno della famiglia mentre usciva; questi gli calcò un piede: fu accusato di aver offeso il cane del signore, e gli convenne sborsare una multa d’oro sonante. Però quell’assito parve comodo a molti, e parecchi signori lo fecero porre alla loro casa; e da que’ che primi lo usarono, chiamarono in Milano questa seconda porta — la Pusterla.
Dove è tanta protezione pei cani, puoi ben pensare quale sarà per le selvaggine, delle quali sono densi i boschi e le campagne: guai a chi osa pigliarne! vi corre rischio un occhio, una mano, o qualche cosa di meglio. Eppure vi sono i golosi che a rischio del collo vogliono ugnersi la bocca colla selvaggina di Bernabò: l’abate di san Barnaba cacciò delle lepri, e il Visconte, senza guardare al suo grado, lo fece impiccare.
[622] Certo avviserai che Bernabò debba porre in faccende gran gente per guardare le sue caccie, e quindi averne molto dispendio: oh! egli è buon economo, ed ha trovato un bell’espediente per spacciarsi senza toccar denari. Nessuno può prendere pagamento, siccome giudice dei suoi Stati, se prima non abbia fatto tagliare la testa ad uno che abbia pigliate pernici. Se conosci la tristizia degli uomini, giudica che ne debba uscire da sì nefando mezzo.
Ti valga il dirti che ogni volta che mi posi a desco in Milano, tremai di vedermi imbandito qualche uccello, perchè non me ne dovessero restare gli ossicini nella strozza. Anzi avea fin paura a pensare alla caccia: un povero giovine sognò di aver ucciso un cignale; narrò il sogno, e Bernabò, a buon conto, per punire l’intenzione dormiente, gli fece cavare un occhio e tagliare una mano.
Via, non meravigliarti se ti narro queste cose senza rabbrividire. Sai che a questo mondo l’uomo si addimestica a tutto, e fino si danza sull’orlo del precipizio. Quelle poi che ti narrai adesso, le sono facezie: vidi in pochi giorni mandare all’altro mondo, senza che ne avessero voglia, più di dodici persone tutte ragguardevoli e senza peccati.
Bernabò proibì di chiamarsi guelfo o ghibellino, bando il taglio della lingua; e ne caddero molte. Egli suscita anche i roghi; e vi fe’ abbruciare tre uomini come nemici, quattro povere [623] monache che faceva prima smonacare, per non perdere il rispetto al salterio de’ veli; e mise alla tortura Brivio, vicario dell’arcivescovo, perchè non avea voluto togliere a quelle infelici l’insegna dei loro voti.
Sì, per costui tutti debbono essere carnefici: il Podestà fu costretto a furia di bastonate, a strappare di propria mano la lingua ad un uomo; ed altri orrevoli cittadini vennero forzati di dar mano a cuocere arrosto, in una graticola tonda, un sacerdote che predicava la croce contro Bernabò. Per lui non vi sono nè Santi, nè Papa, ed essendo scomunicato, perchè facesse pagare carichi ai preti e li mandasse in prigione e al patibolo, ei si fece chiamare l’arcivescovo, gli ordinò d’inginocchiarsi, e gli disse in buon latino: nescis, poltrone, quod ego sum Papa et Imperator ac Dominus in omnibus terris meis?
Era nata controversia intorno a Bologna; Bernabò pretendeva d’averne il dominio, perchè suo zio l’aveva comperata; non vi fu modo d’accordarsi. Il Papa mandò varie volte legati: i primi vennero ad un sordo, perchè non valsero ragioni; Bernabò rispondea solo: — Voglio Bologna. — Un’altra volta ne furono spediti dai collegati, chè intendevano restituisse quanto aveva rapito in Romagna: accolse i messi, fe’ loro esporre l’ambasciata innanzi un notaro, poi li costrinse a vestire una tonaca bianca, a salire un cavallaccio, ed a stare molte ore innanzi alla porta del suo palazzo a veduta e derisione del popolo.
[624] E questo è ancor poco, ne toccò di peggio ai due che capitarono nel 1361 mentre Bernabò per la pestilenza che affliggeva Milano, aveva ricoverato nel castello di Marignano: i due nunzii erano uomini ragguardevoli per consiglio e per grado, e fra questi Guglielmo Grimoaldo di san Vittore di Marsiglia: Bernabò ordinò in modo di incontrarli sul ponte che attraversa il Lambro ed è sotto il Castello: come giunsero furono cinti da armati; comparve Bernabò, ed essi gli presentarono le bolle; ei le lesse, le rese, guatò biecamente i messi, le bolle e il fiume, e disse loro risoluto: — Scegliete, o mangiare o bere. — Que’ due poveri preti sbigottirono; si guardarono intorno e videro che non vi era scampo se non col saltare nell’acqua: risposero che non volevano bere. Ebbene mangiate, riprese l’irremovibile Visconte: poveri nunzii! dovettero proprio contorcendosi ad ogni modo, ingojarsi le pergamene fino ai suggelli di piombo e al cordoncino di seta che ve li teneva uniti. Vedi che razza di cibi apparecchiava questo cuoco agli ambasciatori, senza aver riguardo alla ragione delle genti! egli stette a guardarli in quella colazione con compiacenza, e forse si ricreava nell’idea della pessima digestione. Però uno di quegli abati non l’ha dimenticata così leggermente; sai che fu poscia Urbano Quinto e che appena ebbe in mano i fulmini di Roma, ne scagliò uno contro il Visconte; ma credi pure, egli ha stomaco buono di digerire la scomunica, quanto [625] l’abate di Marsiglia l’ebbe per ismaltire la pergamena.
Sai che quella pestilenza fu fatale a Milano: la tigre di Bernabò pensò, accovacciandosi nel castello di Marignano, salvare la propria pelle, nè volle spendere un obolo per liberare dal flagello la povera città come fece suo zio Luchino; quindi vi perirono 70,000 abitanti: ma Bernabò non ne curava; per lui restavano le ricchezze, giacchè cavava ogni anno sui carichi cento sessanta mila fiorini d’oro. Il guaio fu che a pessima giunta di tanti mali, capitarono a desolare le terre lombarde le locuste, animaletti verdi, capo e collo grossi: ove passavano inaridiva il suolo; erbe, foglie, frutta, tutto era a distruzione.
Fra tanti malanni si risentirono talora i poveri Milanesi a ribollire il sangue nelle vene, e quando il signore era a Modena si formarono compagnie, che devastavano la città sotto colore o di vendetta, o di sdegno. Bernabò pose un rimedio peggiore del male; ordinò che chi fosse trovato girare di notte per la città, ne avesse tagliato un piede. Guai a chi ammalava a chiaro di luna! conveniva morirsi in buona pace, perchè il medico che usciva con due gambe per sussidiare un infermo, non ritornava che con una sola. Non so se ridi o piangi, forse farai l’uno e l’altro; è quanto consiglia di continuo questa bella razza umana.
Te ne ho dette di brutte assai di questa strana creatura; di belle credo che non ne abbia [626] nessuna; associa dei capricci che prendono colore di popolarità e tengono presso alla fierezza, come spesso si trasmuta il sublime nel ridicolo. Quando Bernabò teneva corte bandita per le nozze di suo figlio Marco, capitò alla festa un Genovese gran bevitore: in vece di ordinare la corsa al palio, ei volle che costui bevesse a paraggio con un suo ubbriacone. Fece recare vino, del migliore della sua cantina, ordinò loro di tracannarne alcuni bicchieri e poi di fare un balletto; si rinnovò la prova, finchè alla terza, il servo di Bernabò cadde ebbro, mentre il Genovese era pur sempre lesto sulle gambe. Bernabò applause al vincitore e sì gli aprì confidenza, che costui si pose a cavallo del vinto e gli fece sul viso mille sozzure in presenza di dame e cavalieri: il Visconte rise e lo donò largamente: vedi dove era generoso!
Si spacciò destramente da un suo laccio Ambrogino Da Casale gentiluomo milanese: vedendo che Bernabò a poco a poco si pigliava gli averi de’ privati, pensò godersi il proprio spendendo largamente in desinari, ove imbandiva le migliori vivande che capitassero al mercato. Ora un dì il Visconte banchettava alcuni ambasciatori francesi, e ordinò al cuoco splendido pranzo, ma questi venne a dirgli di non aver trovato pesce, perchè la sola bella trota che fosse in pescheria, se l’era pigliata Ambrogino. Bernabò fece tosto chiamare costui, e gli chiese onde spendesse sì largamente. Ambrogino vide la mala ventura, pensò [627] tentare la fortuna col coraggio, rispose che essendosi accorto che tutto il proprio doveva capitare nelle mani di lui, aveva divisato logorarlo prima da sè che esso non glielo mangiasse. Bernabò non si offese a quella franchezza nuova, e gli diede comiato; ma Ambrogino tosto gli mandò la trota in dono, talchè il Visconte ne fu contento, e lo creò suo spenditore.
Fu in maggiori angustie un lavoratore di Marignano. Bernabò si perdette nei boschi alla caccia; era tutto solo, venne il bujo e faceva freddo; s’abbattè in un contadino e senza farsi conoscere, il pregò che il conducesse sulla buona strada e gli promise ricompensa: accondiscese questi, ma non fidando della promessa gli chiese qualche cosa a sicurtà; Bernabò gli diede una fibbia d’argento, lo prese in groppa e via pel bosco. Intanto s’appiccò fra il signore ed il villano un discorso, e questi lamentava la violenza del governatore di Lodi, l’avergli rubato un piccolo podere; parlò poi di Bernabò, ne disse un po’ bene e un po’ male, e aggiunse che almeno faceva giustizia; e il Visconte rideva.
Intanto capitava gente con fiaccole; incontrano Bernabò; e tutti gli sono intorno atteggiati d’ossequio. Il povero contadino a quegli atti s’accorse chi fosse e si tenne morto. Bernabò rise, volle che il seguisse al castello: lo fece, infangato com’era, condurre a un bel fuoco, indi volle che sedesse allo stesso desco a cena con lui. Puoi pensare che [628] animo avesse quel povero diavolo: desiderava ardentemente lasciare quegli onori per andarsene, ma il Visconte gli diceva:
— Son galantuomo e tengo la parola; ti promisi la cena ed è questa: domani avrai i denari. —
E il villano tutto spaventato: — Signore, misericordia! Io ho chiacchierato alla buona e da ignorante. Sono un poveretto che vive in campagna, e non so come si parli con loro signori: per carità la mi lasci andare. —
Non ci fu verso: il contadino s’accomodò: avea appetito, che s’accrebbe vedendo que’ buoni cibi apparecchiati, e a buon conto lasciando il resto alla Provvidenza, se ne prese una buona satolla: indi fu condotto a un bagno e ad un soffice letto. Alla mattina Bernabò volle udire dal nuovo amico come avesse passata la notte, lo pagò bene, e lo congedò. Questa novella si narrò da tutti, parea miracolo: colui trovò il Visconte a un buon punto di luna.
Ora vuoi sapere la giustizia che facea Bernabò e di cui lo lodava il contadino? Un altro signore milanese per nome Ambrogio, rubò ad una madonna Scotta una parte di terra per allargare il proprio giardino: costei per mezzo di un frate querelò il rapitore a Bernabò: ei tosto chiamò la donna e Ambrogio, li condusse al luogo stato rubato, costrinse Ambrogio a segnare l’antico confine al podere, gli ordinò di scavarvi egli stesso una fossa, e come fu bella e profonda, lo fece [629] pigliare a’ suoi e propaginare in quella col capo a basso; indi partì ordinando che nessuno ardisse rimuovere quel termine.
Potrei dirtene altre di simili, e forse ne avrebbe fatte di peggiori invecchiando, se intanto non si maturava la sua rovina. Giovan Galeazzo conte di Virtù, suo nipote, stava accovacciato nel castello di Pavia, con un fare tutto timoroso e rimesso; era una volpe e fingeva il coniglio: salmeggiava co’ frati in coro, non si impacciava nelle faccende dello zio, e solo pareva curarsi dell’altro mondo, talchè Bernabò lo avea per un disutile.
Or bene, l’anno passato (1385) ei mandò dire a Bernabò, che intendeva per devozione rendersi a visitare la Signora del Monte sopra Varese; che sarebbe passato sotto le mura di Milano, e sarebbesi tenuto beato se gli avesse concesso di vederlo e dargli onoranza. Questo timido viaggiava con quattrocento lancie e varj signori, fra’ quali Jacopo del Verme, Ottone da Mandello e Giovanni Malaspina: Bernabò gli credè, tenne l’invito, e non curò le armi del pusillo.
Era il 6 maggio; Giovan Galeazzo giunse verso Milano, e furono ad incontrarlo nella via i figli di Bernabò, ch’egli accolse con affetto e ricondusse in mezzo a’ suoi; quando s’avvicinò alle mura, e giunse verso il ponte di sant’Ambrogio, Bernabò venne a cavallo per salutarlo a buona fidanza e senza scorta: il nipote stese le mani per abbracciarlo, e fu un segno. I suoi seguaci [630] sono sopra a Bernabò; Del Verme lo prende ad un braccio, Mandello gli strappa dalle mani le briglie; chi gli taglia le cinghie, chi lo urta, lo scavalca; lo fecero prigione a man salva; ei conobbe tardi che non era solo malvagio al mondo.
Intanto il nipote depone la veste di pecora, entra in Milano, promette giustizia, leggi migliori, e ciò che è più eloquente pel popolo, gli concede a saccheggiare i palazzi di Bernabò, la gabella del sale e la dogana. Furono trovati nel solo palazzo di Porta Romana sei carri d’argento; fu scialacquo di denari, e tutti se ne unsero le mani.
Intanto Bernabò viaggiava sotto buona scorta verso il castello di Trezzo; vi fu chiuso, e son certo che non ne uscirà: Giovan Galeazzo prese il dominio de’ suoi Stati, e vedrai che si farà duca. Il popolo gode, gavazza, trova il signore novello migliore dell’antico, e grida: Viva la mia morte e muoja la mia vita: lo disse jeri quel nostro compare ghibellino, che non avendo armi per punire i delitti de’ grandi, li cacciò all’inferno, e fece con quel motto la storia di tutti i popoli del mondo. E dalli e gira in questa cara penisola, e tutta la fatica de’ nostri padri per formare dei municipi, riesce ad ingrandire alcune famiglie: Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri, gare, rivalità, ribalderie e sangue, che il versano e il beono a vicenda; e intanto fra quel diguazzamento miserabile i più furbi imbandiscono la mensa.
Eccoti la storia di questa famiglia che si fece [631] grande sulla ruina della propria patria. Però non banchettarono sempre a festa; vi furono apprestate vivande di morte, e se le prepararono fra loro, e sovente la vendetta degli oppressi fu consumata da mani parricide… Almeno ove è nequizia non sia pace, ove è paziente la giustizia del Cielo, soccorra l’egoismo degli uomini… io ne tripudio; beviamo alla sua salute.
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