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Carolina Invernizio
Il bacio d'una morta

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XIX.

 

La scena a cui abbiamo assistito in casa del conte Guido Rambaldi, si ripeté altre volte. La povera contessa era sfinita; venti volte fu sul punto di rivolgersi ai tribunali, chiedere una separazione, ma fu sempre trattenuta da un timore misto a discrezione: di timore per la vita di sua figlia, di discrezione per non fare uno scandalo intorno al nome, che la sua creatura doveva portare. Scrisse a suo fratello domandandogli aiuto e consiglio; ne attese invano la risposta. Fra i suoi dolori, ora le si aggiungeva anche questo; il silenzio di suo fratello la faceva temere per la salute, per la vita di lui.

— Più nessuno.... più nessuno al mondo in mia difesa, in difesa della mia bambina, — ripeteva la martire. — Dio mio, assistetemi voi, perchè io non debba soccombere a questa lotta, che mi uccide l'anima e logora a poco a poco il mio povero corpo! —

Una sera che Guido voleva farle firmare un'altra carta di cessione, la contessa, resistendo alle minacce abiette di lui, disse con voce ferma che non avrebbe firmato se non a patto di lasciar subito il palazzo e ritirarsi lontano da lui, nella sua villa, dove non sarebbe stata testimone di tante impudenze, dove avrebbe vissuta più sicura insieme alla sua creatura.

Il conte si ritirò senza dare risposta; voleva consultarsi con Nara. Questa si strinse nelle spalle, e le rispose con un misterioso sorriso:

— Lasciala andare, tanto ne ha per poco, vedi, e nel caso che resistesse, allora ci penseremo.

Per quanto Guido fosse depravato, pure risentì a quelle parole una specie di angoscia e divenne livido in volto.

— Spero, — balbettò — che non avremo bisogno di giungere a questo estremo. —

Nara sorrise in aria ironica.

— Lo sapevo! — esclamò. — Ecco l'uomo forte, che sviene ad una semplice supposizione! Ah! ah! scommetto che se tu dovessi punire un rivale, la mano ti tremerebbe ed avresti paura.

— Nara! — gridò il giovane con voce convulsa — non parlare così: vuoi che io schiacci quella donna sotto i miei piedi?

— No, non ti mettere con quell'aria truce, non far l'Otello; non si tratta di un delitto, ma di una cosa assai più semplice; una burla graziosa, ma che una burla?... Una lezione, a lei che mi ha oltraggiata, ed ha chiamato te vile, capisci!

— Nara, finiscila, mi uccidi co’ tuoi sarcasmi. —

L'infame ballerina gli gettò le braccia al collo e lo baciò sulle labbra.

— Orsù, amor mio, non ti adirare, manda pure all’erba quella donna; al resto penseremo più tardi.

— Dunque vado a darle il mio consenso?

— Ma sì, purché firmi, ci siamo intesi; del resto sai, io ne ho abbastanza di questa soggezione; quando lei sarà in campagna, diverrò la padrona di questa casa, come lo sono del tuo cuore.

— Cara Nara!...

— Io sono gelosa, tu lo sai; gelosa di colei, alla quale, malgrado tutto, sei legato; e l'odio tanto, quanto amo te. Guido, io morrei, se tu tornassi a tua moglie! —

E fissò sul conte i suoi occhi umidi, languidi, morenti, piegando la sua persona sulle braccia di lui come se dovesse svenire, mentre le sue labbra semiaperte, lasciavano sfuggire un infocato sospiro.

Il conte si sentì infiammare le guance; gli occhi brillarono di passione, e chinandosi verso Nara, con voce palpitante:

— Io amo te sola, te sola, Nara: tu sei la padrona di tutto il mio cuore, e tu sei mia.... mia.... —

Pochi minuti dopo, Guido rientrava in camera di sua moglie col desiderato permesso, in cambio della firma voluta da Nara.

La contessa in quel momento le parve pagare a buon prezzo la sua libertà.

Ella si ritirò alla villa Rambaldi, e per qualche mese fu lasciata tranquilla. I contadini, la servitù, il giardiniere, si sarebbero fatti tagliare a pezzi per la buona contessa, l'angelo benefico di quei luoghi. Quando pallida e mesta, colla sua bella bambina in braccio, passeggiava nei viali della villa, quanti l'incontravano, si sentivano tentati d'inginocchiarsi dinanzi a lei, come ad una madonna.

Povera Clara! Aveva bisogno di pace, di quiete, di solitudine, per calmare i tormenti del cuore. Ma per quanto ella facesse, non poteva dimenticare intieramente l'uomo che l'aveva amata, che le aveva dato il suo nome, che per il primo aveva fatto battere il suo vergine cuore.

Ah! fosse tornato a lei pentito! Dio era buono. Chissà che un giorno, Guido, vergognoso di sè, non avesse sentito tutta la bassezza della sua condotta, si fosse persuaso dell'innocenza di sua moglie, e fosse tornato a lei buono, amoroso, gentile come una volta!

Qual raggio di pura felicità le appariva sulla fronte così pensando!

Come la sua bellezza candida, raffaellesca, mostrava l'anima sua pura, splendida, la più bell’anima uscita dal soffio divino del Creatore!

Sul tramonto di un bella giornata, mentre Clara, seduta presso la finestra di un elegante salottino a pian terreno, faceva saltellare sulle ginocchia la sua bambina, che già la chiamava a nome, le parlava con quel caro linguaggio infantile, che solo le madri comprendono, una carrozza si fermò al portone della villa e ne scese il conte Guido.

Quand'egli aperse, senza farsi annunziare, l'uscio del salotto, Clara lasciò sfuggire un lieve grido, e divenne bianca come un cadavere, si strinse al seno la figlia, e guardò, coi suoi begli occhi timidi e spauriti, il marito, il quale si era avanzato, e senza togliersi il cappello, era venuto a sedere vicino a lei.

Clara chiuse per un momento gli occhi per tema d'ingannarsi, poi li riaprì con una vaga speranza: quella di vedere un volto sorridente, pentito; ma non scòrse che un uomo freddo, serio, accigliato, che la fissava con un sorriso sarcastico e in aria di motteggio.

— Vedo che l'aria di campagna vi si confà a meraviglia, — disse — godo di trovarvi in perfetta salute ed abbastanza lieta. —

La contessa tremava per tutte le membra, senza aver forza di rispondere.

Lilia si avviticchiava al collo di Clara volgendo gli occhi spauriti sul padre, che ella non riconosceva, perchè non avea mai avuto per lei nè un bacio, nè una carezza.

Guido le afferrò un lembo del vestitino bianco: la bambina gettò uno strillo, mentre nascondeva la testina in seno alla madre.

— Rimandate la piccina: debbo parlarvi, — disse il conte con impazienza.

— Lilia non è ancora in grado di comprendervi; — osservò timidamente la contessa — potete quindi parlare liberamente.

— Vi dico che la piccina mi annoia, — esclamò Guido con gesto imperioso.

Lilia a quella voce irata si diede a strillare con forza. Allora la contessa si alzò, e tenendo stretta al seno la piccina, cercando di calmarla coi baci e colle carezze, uscì dal salotto.

Pochi minuti dopo ritornava sola.

Ella non si pose a sedere, ma rimase in piedi, presso ad un tavolino ingombro di libri e di giornali.

— Che avete da dirmi? — chiese con molta naturalezza — ora siamo soli, signore. —

Guido l'osservava attentamente.

— Vi prego di sedere: c'intenderemo presto.

— A vostro agio, signore, — rispose Clara con dignità — io posso ascoltarvi anche in piedi. —

Il conte si strinse nelle spalle.

— Fate come vi accomoda; non insisto. Voi capirete che sono venuto qui, spinto dalla necessità. —

Clara provò un'angoscia straordinaria; ma i suoi lineamenti rimasero tranquilli.

— Alcune cattive speculazioni, — continuò Guido — mi hanno rovinato e mi trovo costretto a vendere questa villa, che, se non m'inganno, m'appartiene.

— Vi apparteneva, signor conte, e continuava a chiamarsi col vostro nome, ma morto il mio povero padre, voi avete venduto la villa, dove trascorsi i miei anni più felici, per ricomprare questa che era carica d'ipoteche. Onde credo che adesso appartenga, non tanto a me quanto a voi, o piuttosto appartenga a nostra figlia.

A vostra figlia, giacché io l'ho rinnegata! — esclamò Guido con voce soffocata dall'ira. — Io vi ripeto, intanto, che la villa è mia, e sono padrone di venderla a mio piacere, a meno....

La contessa lo guardava senza comprenderlo.

— A meno, che non vogliate acquistarla voi, signora; disse con amara ironia — ma vi avverto che ho bisogno di denaro subito, e molto denaro. —

Il viso di Clara s'imporporò.

— Il denaro l'avrete; — assicurò cercando di padroneggiare la sua potente emozione — ma anch'io vi avverto che questo sarà l'ultimo; voi avete sciupata tutta la vostra sostanza, signor conte, ma non farete altrettanto di quella che appartiene a mia figlia ed a mio fratello. —

Guido si morse le labbra e fece un gesto come per interrompere la contessa.

Ma questa proseguì:

— Ho veduto pochi giorni fa il mio notaro, e mi ha dato dei ragguagli che io ignoravo intorno alla mia sostanza. Io posso disporre come voglio della mia ricchezza ed ho fatto testamento. —

Guido non poté frenarsi. Le parole della moglie sembravano annientarlo.

— Signora, — balbettò a denti stretti — voi parlate come se foste la sola padrona.

— Di mia figlia sì, e se io morissi non è già all'uomo che ha osato di respingerla dal suo seno, le ha negato l'affetto che di diritto le spettava, all'uomo che osò insultare una povera donna innocente, vittima della più atroce perfidia, all'uomo che avrebbe dovuto per il primo rispettarla, che io l'affiderei; oh! no,... preferirei piuttosto vederla morire con me.

— Clara! —

Questa volta fu Guido che pronunziò quel nome. Sì, egli si sentiva colpevole, ma si sentiva altresì come stretto in un cerchio di ferro, che non poteva spezzare.

La contessa trasalì, ma mostrò di non averlo inteso.

— Ed ora ditemi, signore, giacché avete fretta, ditemi: quanto vi abbisogna?

— La mia presenza vi è dunque molto odiosa, Clara. —

Il suo nome, pronunciato così due volte, la commosse un poco, per quanto cercasse di nasconderlo.

Le trine del suo corsetto ondeggiavano per i palpiti precipitosi del cuore. Ebbe un brivido da capo a piedi, ma fu un lampo.

— Ditemi, — ripeté — quanto vi abbisogna, perchè mia figlia mi attende, signore. —

Guido fece un gesto minaccioso.

— Sempre vostra figlia,... ed osate ripetere che è mia, mentre mostrate disprezzo, ed avete per lei, tutto l'affetto che portaste a suo padre. —

Clara rialzò la bella e pallida testa.

— Sì, è vero! — esclamò — tutto l'affetto che un giorno un uomo supplichevole ai miei piedi, in presenza di mio padre, giurava di consacrarsi a me, e per un anno intiero mi rese infatti la più felice e superba delle creature; tutto l'affetto che sentii per l'uomo nobile, buono, generoso, l’ho riserbato per mia figlia, perchè quell'uomo è morto per me, non è più che un ricordo lontano, svanito, di cui serbo in fondo all'anima una casta memoria.

— Non vi capisco, signora.

— Lo credo, ma interrogate i vostri ricordi passati e il cuore vi risponderà. —

Guido trasalì alquanto, e per un moto involontario afferrò una mano della moglie e la fissò negli occhi.

— Innocente? Sei innocente?... parla? Perchè io possa crederti....

— Non mi avete creduta dinanzi alla culla di vostra figlia, signore, non vi costringerò a mentire un'altra volta a voi stesso.

— Dunque, Clara, non mi ami proprio più?

— Perchè dovrei amarvi? —

Guido suo malgrado cedeva a quella fiera legge d'amore, che comanda la debolezza, dopo aver ispirata l'audacia.

Lontano da Nara, dinanzi a quella celestiale creatura, che in fondo al cuore non poteva ritenere colpevole, egli si sentiva commosso; la benda orribile che gli velava la fronte, sembrava squarciarsi.

— Perchè dovresti amarmi? — ripeté — ti ho offesa, è vero, Clara, ti ho offesa, ma quella lettera mi aveva messo l'inferno nell'animo.

— Forse avete ragione; la colpa fu mia, che non ebbi confidenza in voi, che vi nascosi il segreto della mia famiglia. —

Così parlando, Clara aveva congiunte le mani, ed il suo bel volto pallido, estenuato, mostrava tutta l'espressione del profondo dolore che provava.

Guido ebbe un momento di vero rimorso. Egli aveva dimenticato il motivo per cui era venuto, aveva dimenticata la ballerina, e rimaneva muto, con gli occhi spalancati in faccia a quella creatura, così bella, in quell'atteggiamento pieno di sofferenza e di abbandono. E stava per cadere ai piedi di lei, domandarle perdono, quando fu distolto bruscamente dalla sua estasi da una donna, che in sembianze irate entrava nel salotto.

Era la cameriera della contessa.

— Signore, — diss'ella con voce soffocata — domando perdono di essere entrata senza chiedere permesso, ma vi è di là una persona che voleva venir qui in tutti i modi, perchè ha bisogno di parlare al signor conte. —

Un leggiero rossore coprì il viso del conte, che parve in preda alla più viva inquietudine, mentre Clara, pallida come una morta ma con sembiante tranquillo, disse:

— Potete lasciar entrar la persona che domanda del signor conte.

— No, — interruppe precipitosamente Guido — vado io di là, torno subito. —

E uscì dal salotto.

Clara si rivolse alla cameriera.

— Quella persona, è una donna, non è vero?

— Sì, signora contessa.

— Una donna giovane e bella?

— Non so se sia bella, signora, per me ha certi occhi sfacciati e un'aria audace che impone. Si è presentata come se fosse la padrona, e voleva passar qui senza riguardo. —

Clara si nascose il volto fra le mani.

— Quale imprudenza! — mormorò — è finita! quella donna non lo lascierà più; Dio mio, è troppo soffrire così! —

Si scosse, perchè sentì riaprire l'uscio. Non ebbe il coraggio di guardare, ma sentì la voce di Guido che diceva alla cameriera:

— Un'altra volta portate meglio le ambasciate; non disturbate i padroni, per cose da nulla! Andate. —

Clara lasciò ricadere le braccia, ed aperti gli occhi vide il conte, che chiudeva bruscamente l'uscio dietro la cameriera.

Ella non fece una sola interrogazione; non disse una parola; ma vide Guido pallido e fremente, e capì che faceva uno sforzo violento su sè stesso per contenersi.

Egli non sedette più, si avvicinò al tavolino, ove si tenne in piedi, e rivolgendosi a Clara, con voce che cercò di rendere calma ed uguale, disse:

— La persona che voleva vedermi....

— Non vi chieggo il suo nome, signor conte, — l'interruppe Clara — voi siete padrone di ricevere chi più vi piace. —

Guido parve di sentire una certa ironia nella voce di Clara, e questo bastò per inasprirlo.

— Avete ragione, non ho conti da rendervi, veniamo all'importante; vi ho già spiegata la ragione della mia presenza qui, lo scopo della mia visita.

— Me l'avete detto: volete denaro, ed io vi ripeto che sono pronta a sborsarlo; ma per l'ultima volta. —

Guido lasciò sfuggire un lieve gesto di malumore.

— Venderò questo possesso, — disse con un sorriso di sdegno e di trionfo — e voi non potreste certo impedirlo, perchè il contratto di acquisto è in mio nome.

— E quanto è valutato questo possesso?

— Quarantamila lire.

— Sono pronta a sborsarvele, per dirmi almeno padrona in questa casa, per poter far scacciare dai miei servi quella sfacciata donna che osa porre il piede sulla soglia della casa onesta, dove vive mia figlia! —

Guido sentì l'insulto e divenne livido, ma riprendendo tosto il tono sardonico e il suo sangue freddo:

— Non so a chi vogliate alludere, signora contessa.

— Alla vostra amante, che è di là ad aspettarvi..

— Ma signora!

— Ella è là, sì; — disse la contessa in preda ad una viva eccitazione, facendo un passo verso la porta — è là, la sento. —

Gli occhi di Clara brillavano di uno strano fuoco; il pallore del suo volto si era aumentato, tanto che Guido ebbe paura, e provò nel suo animo come l'impressione del taglio dell'acciaio sulla carne viva.

— Ebbene, sì, è là; — disse balbettando — ma non temete, non entrerà qui.

— Ma io andrò da lei, superando l'orribile repugnanza che m'ispira, perchè quella donna ha bisogno di una dura lezione. —

E fece un passo, scoppiando in un riso sonoro, in un riso da pazza.

La faccia di Guido arrossò di sangue, egli si pose fra l'uscio e lei, e quando Clara gli fu vicino, il conte la prese brutalmente per i polsi, la costrinse a retrocedere, scotendo infuriato quel corpo grazioso e sottile, che cominciava a perdere tutte le forze, e finì col cadere rovesciata su di una poltrona, nel mentre le correva nella gola un rantolo angoscioso, ed i denti le stridevano, come se la poveretta fosse stata assalita della febbre. Si capiva che la contessa non comprendeva neppure più quanto aveva fatto, quanto le era successo; la sua eccitazione si era calmata, i suoi occhi stralunati vagavano all'intorno come se cercassero dove si trovava.

Guido non si commosse a quella vista. Aveva fretta di andarsene. Nara l'aspettava e non era donna da pazientare.

— Dammi la chiave del tuo scrigno, — disse a voce bassa alla contessa.

Questa fece sentire un riso soffocato e sinistro. Guido impallidì e sentì gelarsi il sangue.

— Che ella impazzisca? — pensò — tanto vale, io non posso aspettare. —

E si avviò nella stanza della contessa, senza che ella facesse nessun movimento per rattenerlo. Un momento dopo Guido rientrava con un fascio di fogli di banca ed un portafoglio. Volle mostrarli alla contessa, ma quando si avvicinò alla poltrona, vide Clara cogli occhi chiusi, livida, irrigidita, come morta.

Guido si strinse nelle spalle.

— Un altro svenimento.... — mormorò — si sviene spesso! —

Dall'altro lato della porta si udì un fruscìo d'abiti di seta. Guido trasalì, e tirò il cordone del campanello. Comparve la governante.

— La vostra padrona si sente poco bene, — disse — mettetela a letto, manderò il medico. —

E raggiunse in fretta la ballerina.

Mentre i due infami si allontanavano, la contessa riapriva gli occhi e chiedeva, sorpresa, che cos'era accaduto. La governante l’assisteva, e la piccola Lilia stava giuocando presso le ginocchia di lei.

— Devo aver fatto un brutto sogno.... — disse.

La governante trasalì.

— Signora contessa, è vero che avete sognato. —

Clara si portò la mano alla fronte.

— Non può essere che così, — esclamò — sarebbe troppa infamia se fosse la realtà! Dio non lo permetterebbe. Però, è strano, mi sento debole, abbattuta.

— Sarebbe bene che la signora andasse a letto; — disse la governante — ha fatto male la signora, a dormire in questa poltrona.

— Hai ragione, ho la testa vuota, ti sento parlare, ma non afferro bene il senso delle tue parole. Non c’è stato nessuno qui, non è vero? —

La governante si trovò alquanto imbarazzata.

Fortunatamente Lilia, arrampicandosi sulle ginocchia della contessa, diede una diversione alle sue idee.

— Caro angelo amato, vieni dalla mamma tua, — disse sollevandola a stento fra le braccia — tu sei la mia vita; ah! se non fosse per te, come vorrei morire! —

Ed asciugatesi le lacrime, che le scorrevano sulle pallide guance, si alzò, e sempre colla bambina stretta fra le braccia, si avviò in camera sua.

La cameriera non la seguì; ma non era scorso un minuto, che un grido lungo, straziante le ferì l'orecchie. Di un balzo fu nella camera della contessa, e vide la signora sdraiata sopra una poltrona, con gli occhi spalancati, le labbra livide, convulse, le braccia strette al corpicino di Lilia che piangeva.

La cameriera si affrettò a toglierle dalle braccia la bambina, e con voce commossa domandò:

— Che avete, signora contessa? —

Clara divenne ancora più livida.

— Nulla, nulla.... — balbettò — un po’ di capogiro.... ma è passato.... porta di là la bambina, lasciami sola, ho bisogno di solitudine, di riposo. —

La cameriera non insisté.

Appena la porta fu chiusa dietro di lei, Clara balzò in piedi e corse ad uno scrigno, del quale si vedevano i cassetti aperti, vuotati, e si passò le mani convulse, increspate sulla fronte.

— Anche ladro! — mormorò — ladro, e per lei, per quella donna! Dunque non avevo sognato: egli era qui, sì, era venuto per chiedermi del denaro, poi si era mostrato pentito, commosso, stava per chiedermi perdono, era per cadere ai miei piedi, quando giunse quell’infame donna. Che cos'è successo? Non so nulla.... — continuò con voce straziante — ma ora questa cassetta aperta, spogliata, mi svela la verità; egli si è approfittato del mio svenimento per togliermi il denaro, per derubarmi; ed è fuggito come un vile, come un ladro, con la sua complice. Dio mio, Dio mio! Che orrore! —

La contessa proruppe in un pianto disperato, cadendo in ginocchio.

Oh! non era la perdita del denaro che l'angosciava così, ma la perdita delle sue ultime illusioni, delle sue ultime speranze.

Ella intravedeva un avvenire orribile per sè e per sua figlia. Sì; Guido, a poco a poco, vicino a quell'infame creatura, avrebbe scesi tutti i gradini del vizio, della degradazione. Egli avrebbe certamente spogliato lei e la figlia.

Sarebbe stato capace di un delitto, per soddisfare l'ingordigia, la passione di Nara! Per coprir d'oro quella donna, Guido sarebbe passato sul cadavere della moglie e della figliuola!

Clara si sentiva perduta, e nessuno accorreva in suo soccorso. Ella cercò di calmare i singhiozzi che le squarciavano il petto oppresso, prese un foglio di carta, una penna, ed interrompendosi ad ogni istante, per asciugare le lacrime che cadevano copiose sulla carta, scrisse alcune righe sconnesse, che mostravano l'agitazione della sua anima, lo sconvolgimento del suo cervello.

 

                     «Caro Alfonso,

 

«Se tu tardi ancora a venire in mio soccorso, io e mia figlia siamo perdute; quell'uomo è capace di tutto, l'ho compreso.

« In qualunque luogo ti giunga questa lettera, parti, parti subito. Tua sorella ti chiama, invoca il tuo aiuto, tua sorella è alla disperazione.

«Vieni, non prolungare la mia agonia: sono in campagna, alla villa Rambaldi; se vieni a Firenze, non metter piede nel mio palazzo; guai, guai per entrambi!

«Vieni subito, in nome dell'amore che mi portasti, in nome di nostra madre; se tu ritardassi un poco, troveresti forse morta la povera Clara, ed allora che diverrebbe di mia figlia?... Non voglio pensarci; io non ho speranza che in te solo. La tua infelice e sventurata sorella

                                                          «Clara.»

 

Piegato il foglio, messolo in una busta e fattovi l'indirizzo, la contessa si rovesciò sulla seggiola e con voce soffocata:

— Ah! sì, prevedo che la mia morte non tarderà, — disse — e gl'infami esulteranno; un presentimento mi dice, che essi mi uccideranno! —

I presentimenti di Clara questa volta non l'ingannavano.

 

 

 




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