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Carolina Invernizio Il bacio d'una morta IntraText CT - Lettura del testo |
XX.
Guido Rambaldi, soffocando ormai ogni rimorso, aveva perduto il ritegno, viveva pubblicamente con Nara e non si ricordava più della moglie se non quando gli urgeva il denaro. Al primo ignobile passo, fatto sulla strada del vizio, ne fecero seguito cento altri.
Alla riservatezza, che un giorno lo distingueva, ne era susseguita la tremenda, vertiginosa follìa dei sensi. Nara lo dominava completamente. Il palazzo del conte era divenuto il ritrovo di tutti gli sfaccendati. Le orgie notturne si seguivano. Nara si credeva tutto lecito, e finiva per attutire ogni buon sentimento, ogni rimorso dall'anima del conte.
Alcuni degli amici e scioperati compagni di Guido, si consideravano onorati di colmare d'omaggi quella vile creatura, che usurpava il posto di una santa. Ma molti resistettero a cotali bassezze; il marchese di Chârtre aveva scritta all'amico una lettera piena di disprezzo e della quale Nara aveva fatto una pallottola, dicendo che era stata dettata soltanto dal dispetto che lo rodeva, perchè ella non aveva voluto saperne di lui.
Ma a Nara non bastava essere l'amante, la favorita del conte, voleva divenire sua moglie: tanto più che il patrimonio di Guido era intieramente sfumato e le ricchezze di Clara divenivano a loro necessarie. Ogni qual volta si trovavano in bisogno, Nara minacciava Guido di abbandonarlo, gli additava gli amanti che la desideravano, e gli diceva, con spudoratezza, che se non pensava a soddisfarla, sarebbe andata a star con un altro.
Guido finì per persuadersi che bisognava sbarazzarsi di Clara.
Frattanto l'angelica creatura era divenuta poco men che uno scheletro, pur tuttavia si ostinava a vivere, si aggrappava alla vita coll'energia della disperazione. Forse se Alfonso fosse venuto, ella dopo avergli consegnata la figlia, sarebbe morta col sorriso della martire bisognosa di riposo; fors'anche avrebbe benedetto Iddio, che la prendeva con sè.
Soffriva tanto!
Ma fino a che Alfonso non rispondeva, bisognava vivere; vivere per Lilia. Che ne sarebbe stato dell'innocente creaturina, priva della madre?
Sul pomeriggio di un giorno d'estate, Guido e Nara erano insieme in un salotto, nel palazzo del conte, a Firenze. Stavano tutt’e due taciturni. Guido, presso ad un tavolino, pareva intento a sfogliare un album. Nara, sdraiata sopra un divano, l'osservava con avido sguardo.
Ad un tratto Guido chiuse l'album e dètte un sonoro pugno sul tavolino.
— Maledizione! Quest'insulto a me? lo vendicherò! —
Nara, ebbe un feroce sorriso.
— La migliore vendetta presso un creditore, sarebbe di pagarlo subito, — disse con accento sardonico.
— Pagarlo? Gli ultimi denari li ho persi al giuoco, ieri sera.
— Non dovevi giuocare!
— Nara, vuoi farmi impazzire dalla rabbia?
— Sì, io lo vorrei, ché almeno allora comprenderesti la tua ridicola condizione. Con una moglie straricca, sei come un ragazzo sotto tutela, e prendi que’ pochi denari che ella ti dà come elemosina. Vi è una condizione più vergognosa?
— A sentirti, sembrerebbe che io m'inginocchiassi dinanzi a mia moglie! Non so comandare, quando voglio?
— Ah! ah! Tua moglie si ride dei tuoi comandi, e seguita a vivere.
— Ne avrà per poco!
— Ne avrà abbastanza per disporre delle sue cose e di sua figlia, se noi non ci mettiamo rimedio. —
Nara calcolava su queste parole, che avevano un terribile significato.
Guido non rispose.
— Ah! questa vita non può durare; — seguitò spietatamente Nara — il duca Franchi mette ai miei piedi il suo cuore e la sua fortuna: finirò coll'accettarla. —
Guido divenne mortalmente pallido, e fu di un balzo vicino alla ballerina, di cui prese le mani, stringendole fra le sue, in modo da stritolarle.
— Non lo farai, — disse a denti stretti — non lo farai! —
Nara diede in uno scoppio di risa.
— E perchè no? — rispose. — Forse sono io tua moglie?
— Lo sarai, Nara, lo sarai.
— Ah! ah! in qual modo? Se tu mi amassi, vedi, a quest'ora sarei già al posto di lei.
— Taci! — gridò Guido atterrito, e con un viso da far paura — non so a quali orribili pensieri mi spingeresti, parlandomi in tal modo.
— Parole, parole! — replicò Nara, con accento sardonico — tu ti burli di me, tu non mi hai mai amata, tu non mi ami.
— Nara!…
— Sì, tu sei un ragazzo. Io avrei voluto un uomo superiore a qualunque pregiudizio, superiore a tutto.... un uomo di coraggio, d'animo risoluto, che mi dominasse colla sua audacia, che non indietreggiasse dinanzi ad alcuno, e, invece, mi trovo fra’ piedi tu, che sei debole, irresoluto, che hai paura perfino di te stesso.
— Ho paura! — disse Guido, con voce convulsa — mettimi alla prova.
— Bah! ne sono stanca; — disse Nara — e, dopo tutto, preferisco il duca.
— Nara, Nara, — esclamò il conte, soffocato dalla rabbia, dalla gelosia — non mi parlar più di quell'uomo....
— Sì, ne parlerò a tuo dispetto, perchè trovo in lui ciò che non ho trovato in te: dello spirito, dell'energia, dell'ardire; ecco l'ideale che io amo! —
Guido divenne livido in volto, e fissò sulla giovane le sue pupille infocate, mentre stringeva forsennato i pugni.
Ad un'altra donna, in quel momento, il conte avrebbe messo paura; ma a Nara no: ella era una donna diversa dalle altre.
La ballerina cinse col braccio nudo il collo del giovane, ed appoggiò la bella testa sulla spalla di lui.
A quel contatto dolcissimo, un fremito di desiderio, di voluttà, scorse nelle membra del conte, a malgrado dell'ira in lui eccitata dalle parole sardoniche di lei.
— Nara, tu mi ami, non è vero? Tu non seguirai il duca....
— No, se farai a modo mio.
— Parla!
— Ah! tu non sai, Guido, quanto ti ami, quanto io sia gelosa di te; l'idea che un'altra donna ti appartiene, mi sconvolge la testa. Tu soffri pensando che io possa appartenere al duca, e non rifletti quello che prova la tua Nara sapendoti legato ad una catena, che non potrai facilmente spezzare.
— Ma non è lo stesso, Nara; io non amo mia moglie, e dal giorno in cui l'abbandonai per te, sai che non ho da rimproverarmi un solo torto; sai che io non l'ho più avvicinata, non sono vissuto che per te, per te sola. —
Nara sembrava colta da un brivido, e stringendosi viepiù al conte:
— Non basta, non basta! — mormorò a voce bassa, quasi sulle labbra di lui — finché non sarai libero, intieramente libero, io temerò sempre. La contessa è malata, è vero, ma l'amor materno le dà il coraggio e la forza di vivere, ed il nostro amore deve darci la forza di sbarazzarci di lei, di vendicarci degli insulti, che ci ha un giorno rivolti. —
Guido comprese, e suo malgrado, un gelo gli corse nelle vene. Egli era preso come da vertigine.
— Sbarazzarsi di lei? — ripeté. — In qual modo?
— Te lo dissi un'altra volta. Io tengo un veleno che non lascia traccia, e che addormenta per sempre.
— Nara! — esclamò il conte perplesso fra il desiderio e l'orrore — scaccia questo diabolico pensiero!
— E allora dimmi come vuoi sbarazzarti di lei?... Ed è così che mi ami? Ah! mio Guido, quanta felicità per noi, quando saremo liberi, ricchi, favolosamente ricchi! Perchè tua figlia, o piuttosto, la figlia di quell'altro, rimarrà sola in nostro potere, e tu sai che i padri ereditano dai figliuoli.... Oh! esser tua per sempre, senza ostacoli, senza che alcuno si frapponga fra noi, fra il nostro amore, è l'ebbrezza.... è la felicità.... è il paradiso! non è vero, Guido mio? — soggiunse Nara, sedendo quasi sulle ginocchia del conte, abbracciandolo strettamente, sfiorandogli le labbra avide di baci. — Pensa, infine, che quella donna ti ha tradito, e tu hai il diritto di vendicarti. Scegli fra me e lei: fra la tua Nara che ti adora, che non ha avuto altro amore che per te, e quella pallida contessa che t'inganna, ti disprezza. —
. . . . . . . . . . . . .
Mezz'ora dopo questo colloquio, Guido, con la testa ancora in fiamme, sedeva dinanzi al tavolino, e scriveva un biglietto che Nara, appoggiata fremente alle spalle del conte, gli dettava:
«Clara,
«Avrei bisogno di parlarvi non solo per voi, ma per vostra figlia.
«Questa vita non può durare, ed è meglio porvi un termine. Io ho deciso di lasciare l'Italia e di rendervi la piena vostra libertà. Voi sarete del mio stesso parere, cioè di non fare un chiasso inutile, uno scandalo, di cui un giorno vostra figlia ne risentirebbe gli effetti.
«Bisogna quindi ch'io vi parli, per combinare fra noi ogni cosa, senza strepito.
«Vi attendo domani al mio palazzo: sarò solo; del resto i miei servi non potranno stupirsi della vostra presenza, perchè in faccia alla società siete sempre mia moglie.
« Spero che per vostro e mio interesse, non mancherete.
« Vi saluto
«Guido.»
Quando la contessa Clara ricevette questo biglietto, trasalì. Uno strano presentimento le strinse il cuore. Avrebbe voluto rifiutare l'invito, ma capiva, che se il conte desiderava di parlarle, non avrebbe mancato di cercare un altro mezzo, e di fare uno scandalo, che ella sentiva di dover evitare se non per sè, almeno per sua figlia.
Eppoi i suoi cupi timori potevano esser vani; forse Guido non voleva altro che tentar un accordo, per ottenere una forte somma di denaro. Che fosse un'insidia, non ci pensava, nè voleva pensarci.
Pure l'idea di trovarsi ancora sola con quell'uomo, che oramai riteneva capace di tutto, la faceva rabbrividire, la spaventava.
— Condurrò meco mia figlia, — pensò l'infelice creatura.
All'indomani era pronta. Vestì la sua Lilia che agitava le manine dal contento, ed ordinò la carrozza. La governante doveva accompagnarla.
Quando, prima di uscire, Clara si guardò nello specchio, fu spaventata vedendosi pallida come una morta, colle labbra livide, gli occhi luccicanti come per febbre.
— Mi sembra un'imprudenza uscire, — le disse la governante, che l'osservava con inquietudine — voi dovete sentirvi male, signora! —
Clara lasciò ricomparire fra le labbra un dolce sorriso.
— Non sono più che un fantasma, è vero, ma mi sento molto forte; vivrò per mia figlia; sta’ sicura. —
Mentre l'elegante carrozza della contessa la conduceva verso la città, Clara si tenne sempre sulle ginocchia la sua bambina.
— Dove va la signora contessa? — avea chiesto il cocchiere.
— Al mio palazzo. —
E in pari tempo guardò l'orologio e aggiunse:
— Presto, Giannino, altrimenti arriverò in ritardo. —
La governante non fece altra interrogazione, ma nonostante si sentì un po' inquieta.
Quando la carrozza fu dinanzi al palazzo, la contessa scese sola, dopo aver deposta Lilia fra le braccia della governante.
— Aspettami qui, — disse — non mi fermerò più di un quarto d'ora. Ho pensato meglio di non condurre su la piccina. —
Guido l'attendeva in sala, e quando la vide entrare, pallida come una morta, non poté reprimere un senso di stupore, forse di rimorso.
— Se Nara non aveva fretta, — pensò — ci saremmo meglio sbarazzati di lei. —
Ma, ricacciando tosto questo pensiero, fece un inchino a sua moglie e con voce che si sforzò di render calma:
— Grazie di essere venuta; — disse — ma sedete, signora, vi reggete appena in piedi. —
Clara ubbidì, perchè infatti si sentiva mancare.
— Signor conte, — rispose — sono venuta perchè desideravo, come voi, porre un termine a questo stato di cose. Forse, avrete compreso, che fra noi è d'uopo di una separazione. —
La fronte di Guido si corrugò alquanto, ma le sue labbra ebbero un sorriso sdegnoso.
— Siamo separati da un anno, mi pare....
— Signore, è verissimo, ma ciò non basta; per me e soprattutto per mia figlia, desidero una separazione legale in tutte le regole. —
Il viso di Guido s'imporporò.
— Siete venuta qui per insultarmi? – disse.
La povera Clara tremò.
— Non ne avevo alcuna intenzione, signore; ma, secondo il vostro biglietto, credevo che mi aveste desiderato appunto per intenderci circa la divisione, ma vedo che mi sono ingannata.
Guido riprese il suo sangue freddo.
— Non vi siete ingannata affatto, signora: solo io non amo far del chiasso, dello scandalo, intorno al mio nome: non amo che la società parli di noi. —
Un sorriso, questa volta di un'amarezza straziante, sfiorò le labbra della contessa.
— La società, — disse — a quest'ora vi ha giudicato.
— Clara! —
Ella mostrò di non avere inteso e proseguì:
— Del resto, ditemi subito, signor conte, quello che desiderate da me: mia figlia mi aspetta giù in carrozza. —
Guido fece un gesto di contrarietà.
— Perchè non l'avete condotta con voi? —
Clara non rispose, ma lo sguardo che rivolse al marito, fu sì fieramente altero, sì sdegnoso, che egli si fermò a mezzo, colle labbra contratte.
— Parlate, dunque, ditemi lo scopo della vostra chiamata.
— Ve l’ho detto: ho deciso di lasciare per sempre l'Italia, e perciò ho bisogno di una fortissima somma di denaro.
— Quello che mi avete rubato, è stato l'ultimo, signore. —
Guido fece un balzo come se avesse pestata una serpe, e sentì un freddo sudore corrergli sulla fronte. Aveva dimenticata la scena della villa, la rottura dello scrigno, il furto commesso. Quale disprezzo e quale orrore doveva sentire per lui sua moglie? Egli era incapace di formulare parola.
— Voi avete approfittato della debolezza di una povera donna, di una povera madre, che non aveva la forza per difendersi.... — continuò Clara con amarezza. — No, non avrei mai creduto, che una donna, una creatura umana potesse far scendere l'uomo a un tal grado di bassezza. Ma non impallidite, signore, nessuno all'infuori di me sa....
— Basta, signora, basta; — l'interruppe furibondo Guido, passeggiando per la stanza, fra vergognoso ed irritato.
— Se questo discorso v'incresce, lasciamolo da parte; — disse Clara con voce triste e solenne — voi mi avete chiamata qui, perchè avete bisogno di denaro; ed io vengo a dirvi che voi non ardirete di toccare la sostanza che appartiene a nostra figlia.
— Vostra figlia!
— Mia e vostra, signore; — ripeté lentamente Clara — se volete lasciar l'Italia, i mezzi non vi mancano.
— Che dite?!
— Vendete la vostra villa, signore; io faccio conto di ritirarmi altrove, dove non sentirete più parlare di me.
— Ma voi siete venuta qui decisa di farmi impazzire. —
La povera donna sussultò.
— Io, signore? Io! Ah! non lo credete, non è vero? —
Clara si sentiva venir meno in quella lotta alla quale non era preparata, e s'indeboliva a grado a grado.
Guido, che passeggiava violentemente nella stanza, ad un tratto si fermò dinanzi a lei.
— Clara, — mormorò — non potreste dimenticare per un istante il passato?
— Certi insulti, signore, penetrano nell'anima, in modo da non poterli più sradicare; le mie ferite furono crudeli, e la cicatrice sanguina ogni giorno. Signor conte, ve ne prego, per rispetto a voi stesso, non ricordate più il passato. —
Guido si morse le labbra e stava per rispondere sdegnosamente, quando la porta si aprì, e sotto quel vano di ombra scura, si disegnò la figura di Nara.
— Ebbene, non avete finito ancora, e ci vuol tanto a farla firmare? —
Clara, a quella comparsa, a quelle parole, si drizzò in piedi come galvanizzata: i suoi occhi dilatati mettevano spavento; il suo braccio sollevato pareva scagliare una maledizione sul conte.
— Lei qui ancora? Infami.... vili.... miserabili,... volete dunque assassinarmi? Lasciatemi uscire; mia figlia mi chiama.
— Via, non rappresentiamo una commedia; — disse Nara — firmate quella carta e poi ci allontaneremo. —
Sembrava che Clara non capisse.
— Dio si stancherà, alla fine! — disse con voce alterata, ma che fece un effetto terribile. — Badate bene, non tarderà molto che sarete colpiti da una mano più possente della mia: Dio benedetto farà giustizia! —
Nara alzò le spalle, e scotendo Guido che si mostrava in preda ad una sensazione di terrore:
— Ti lasci dunque imporre da quella sibilla? — esclamò. — Ella morrà prima di noi, sta’ sicuro. —
A queste parole sardonicamente accentuate, la contessa si sentì mancare e ricadde affranta sulla poltrona, chiudendo gli occhi.
— Ora è tempo, — disse Nara; e preso su di un caminetto un bicchiere che sembrava pieno di acqua limpida, cristallina, lo pôrse a Guido.
Egli fece un balzo indietro.
— No, non posso, è impossibile....
— Sarai dunque sempre vile, — disse Nara con disprezzo, e fissò sul conte uno sguardo penetrante, che pareva una sfida.
A Guido corse un gelo, un brivido nelle vene: ma, dominato da quello sguardo feroce di disprezzo, afferrò il bicchiere e l'accostò alla bocca della moglie.
Alle prime gocce che le inumidirono le labbra, Clara si riscosse; aprì gli occhi, ma non comprese dapprima in qual luogo si trovasse e che avvenisse di lei, non scòrse che due ombre confuse che si chinavano, fino a sfiorarle il volto coi loro aliti.
— Bevi! — disse Guido, con voce chiara e tagliente.
Clara, che si sentiva la lingua arida, secca, prese macchinalmente il bicchiere che il conte le porgeva e bevette avidamente alcuni sorsi.
Questi bastarono a farla rinvenire affatto; ma allora, Clara, con un grido di orrore e di spavento allontanò il bicchiere e balzando in piedi:
— Che mi avete dato? — esclamò. — Infami, avete approfittato della mia debolezza, per avvelenarmi. —
Guido era pallido come un morto.
— Siete pazza, — disse — vaneggiate. —
Nara rise.
— Te l'avevo detto, Guido! — esclamò — perchè farla rinvenire? Invece di ringraziarti, si scaglia contro di te. —
Clara, sempre più spaventata e intravedendo forse una parte dell'orribile verità, che pure si sforzava di allontanare dal pensiero, esclamò:
— Indietro! Indietro! Lasciatemi passare, voglio andar via.
— Firmate questa carta, — disse freddamente Guido, ponendogliela sotto gli occhi.
La povera Clara era in uno stato da far pietà.
Comprese che una più lunga resistenza sarebbe stata inutile.
Senza leggere, senza guardare il foglio, che le stendevano dinanzi, firmò con mano convulsa, e folle di terrore si slanciò verso la porta rimasta aperta, attraversò la sala, e l'anticamera in un lampo, scese le scale senza vederle, e giunse nel vestibolo sempre correndo.
La carrozza l'aspettava alla porta.
Cercando frenarsi, la contessa si avvicinò allo sportello, che lo staffiere si era affrettato ad aprire.
Lilia agitò le braccia, emettendo delle grida di gioia e cercando sfuggire dalle braccia della governante per andare in quelle della madre.
La disgraziata ebbe la forza di sorridere alla figlia adorata e di dire al domestico:
— Presto, dal mio notaro. —
Poi si abbandonò sui cuscini della carrozza, e parve svenire.
La governante ne fu spaventata.
— Che avete, signora contessa, vi sentite male?
— Nulla, un lieve capogiro, sono rimasta troppo in piedi. Lilia, dài un bacio alla tua mamma; tu mi vuoi bene, non è vero, povera bimba? —
La governante capì che qualche cosa di grave era successo alla contessa; ma non osò di far parola. Solo guardando quel volto così alterato, bianco come un fantasma, con le labbra livide, mormorava:
— Egli l'uccide.... l'infame.... uccide questa povera martire.... Ah! ve ne sono di quelle in cielo che hanno sofferto meno, come vi sono all’ergastolo dei galeotti meno birbanti del conte. —
Mentre la cameriera fantasticava, la carrozza si fermò dinanzi alla casa del notaro.
Anche lì la contessa Clara scese sola.
I giovani del notaro, appena la videro, si alzarono con rispetto, ed uno di essi le si avvicinò, dicendo:
— La signora contessa desidera il notaro?
— Sì: forse non c’è?
— Oh, non si è mosso da stamattina, perchè ha un affare d’importanza fra mano, e ci ha detto di non voler essere disturbato: ma credo che per la signora farà un'eccezione. —
Così dicendo, tutto ossequioso, il giovane di studio si affrettò ad annunziarla.
La porta del gabinetto si spalancò subito e sulla soglia apparve il notaro in persona, che alla vista della contessa, non poté reprimere un moto di penoso stupore.
Clara se ne accòrse e gli stese con un sorriso straziante la mano.
— Voi mi trovate molto cambiata, non è vero?
— Sì.... cioè no, siete molto pallida.... Ma entrate, ve ne prego, accomodatevi. —
Clara si lasciò quasi cadere sulla poltrona che il notaro si era affrettato a porgerle.
— Vi sentite male? — chiese con premura il vecchio che l'aveva conosciuta bambina, e sapeva tutti i segreti dolori di quell'anima nobile ed elevata — vi è successo qualche cosa?
— Ho veduto mio marito! — disse semplicemente Clara.
Il notaro osservò la contessa con un lungo sguardo di compassione.
Poi ad un tratto:
— Avete seguìto nessuno dei miei consigli? —
Clara scosse con mestizia il capo.
— Non ho avuto coraggio.
— Ma non avete pensato a vostra figlia?
— Per lei appunto, per il suo avvenire, ho voluto evitare uno scandalo. —
Il notaro tacque commosso.
— Datemi un bicchier d'acqua, ve ne prego, — disse la contessa sollevando la pallida testa — ho un'arsione alla gola, che m'impedisce quasi di parlare. —
Il notaro si affrettò a suonare il campanello. Due minuti dopo egli stesso offriva a Clara l'acqua richiesta. La contessa bevve avidamente.
— Ah, come mi fa bene! — disse. — Ora mi sento meglio.... sì, possiamo discorrere: sedete qui vicino a me. —
Il vecchio obbedì.
Ella pose la sua piccola mano in quella di lui e lo guardò bene in faccia.
— Ditemi la verità, come mi trovate? —
Il notaro trasalì.
— Un po' pallida.... un po' stanca.... e nulla più.
— Ah, nulla di diverso dal consueto?
— No: forse soffrite?
— Ho una spina nell’anima che non mi lascia pace, — disse Clara col suo melanconico sorriso.
— Ed è questo che distrugge il vostro corpo.
— Lo credete?
— Ne sono sicuro.
— Ebbene, proverò a dimenticare: ma non son qui venuta per dirvi questo, bensì per parlare dei nostri interessi. Avete trovata quella carta che dicevate importante per far valere i diritti di mio fratello?
— L'ho trovata. —
Clara mandò un grido di gioia, e congiunse le mani con riconoscenza.
— Grazie, mio Dio, grazie; ora non temo più per lui nè per mia figlia.
— Ma vi ha di più. —
Clara guardò il notaro con stupore.
— E che?
— Ho saputo dove si trova precisamente vostro fratello, e spero che a quest'ora la vostra lettera sarà giunta a destino.
— Ed io che dubitavo di Dio! — esclamò la giovane donna, col volto bagnato di lacrime.
La sua emozione fu così forte, che parve per un momento svenire.
Il notaro si affrettò a porgerle un altro bicchiere d'acqua.
Clara, quando vide appressarsi quel bicchiere alle labbra, fece un moto di terrore.
— Che avete?
— Nulla, nulla.... — mormorò la povera contessa.
Ma ella si ricordò allora del bicchiere che Guido le aveva offerto quando stava per rinvenire, e chiese a sè stessa se quella bevanda che aveva macchinalmente ingoiata non avesse contenuto qualche cosa di micidiale.
— Oh! sarebbe orribile, sarebbe orribile! — mormorò — e la mia creatura.... —
Il notaro era imbarazzato e guardava la contessa con stupore e compassione.
— Vi sentite meglio? — chiese.
Clara si sforzò a sorridere.
— Sì; — rispose — ma voglio regolar tutto, perchè non si sa mai dalla vita alla morte.... —
Il notaro sospirò.
— Lasciate questi tristi pensieri, signora contessa.
— E se dovessi morire prima che giungesse mio fratello, io non vorrei che mia figlia andasse nelle mani di suo padre.
— Dopo il vostro testamento, e la dichiarazione da me firmata, non è possibile.
— Firmata?... Ma adesso mi ricordo.... Anche Guido mi ha fatto firmare una carta.... Che vi era scritto? Dio mio!...
— Forse una cessione di denaro?
— Non so,... ma quella donna avea un sorriso orribile sulle labbra. Signore, consigliatemi voi,... mi sembra di diventar pazza.
— Calmatevi, figlia mia, io stesso mi recherò subito da vostro marito.
— Voi?
— Sì, e spero di condurlo ancora a buoni sentimenti. —
Clara trasalì.
— Finché avrà quella donna vicina, egli è perduto.
— Quella donna la faremo allontanare.
— Che dite! Ma allora si farebbe uno scandalo.
— E credete, povera creatura, che a quest'ora non si sappia da tutta la città la condotta di vostro marito? credete che non vi si compianga? —
Clara si nascose il volto fra le mani.
— Voi foste finora molto buona, ma se date a me piena libertà di agire, avrete ancora il vostro Guido di una volta.
— Oh! non è possibile, non è possibile! —
Clara impallidiva sempre più.
Il notaro se ne accòrse.
— Non parliamo più di ciò, — disse — e permettetemi di accompagnarvi fino alla carrozza; è stata una imprudenza uscire nello stato in cui siete. Dovevate mandarmi a chiamare. Oggi che giorno è?
— Giovedì.
— Ebbene, domenica verrò a desinare da voi in campagna, e spero portarvi delle buone notizie. —
Clara ebbe un melanconico sorriso.
— Oh! Grazie, grazie. —
Ella si alzò a stento dalla poltrona, ed appoggiata al braccio del notaro, si ricondusse alla sua vettura.
Il notaro, rientrando nello studio, scuoteva tristamente la testa.
— La poverina ha poco tempo da vivere, — pensava. — Ma quell'uomo non ha dunque un cuore? Egli che dovrebbe cadere ai piedi di quella degna creatura ed implorare il suo perdono, invece si fa schiavo di una donna perduta, che forse l'inganna. Povera Clara! —
La contessa, tornata alla villa, dovette subito mettersi a letto.
Una immensa prostrazione l'aveva invasa, non si sentiva più la forza di alzare una mano, un sudor freddo le scorreva per tutto il corpo.
— Se dovessi morire! — pensò.
Ed a questa idea le si aggiunse quella di essere stata avvelenata.
— Ma devo io accusarlo? — mormorò l'infelice. — E se io m'ingannassi, qual rimorso sarebbe per me! E mia figlia dovrà portare la pena delle colpe di suo padre? Che nessuno lo sappia, che nessuno venga a scoprire questo segreto terribile, che mi dilania! —
Quell'organismo così debole, che pareva doversi spezzare in un soffio, era d'acciaio.
La governante della contessa, spaventata al cambiamento che si manifestava nei lineamenti della padrona, aveva mandato il corriere in città a prendere un medico. Questi venne, ed appena ebbe esaminata la contessa, trasalì e si fece pensieroso.
— Dottore.... sto assai male; non è vero?
— Siete un po' debole, forse avete voluto affaticarvi, o avete provata qualche forte emozione. —
Un lieve rossore tinse le guance di Clara.
— No, oh! no....
— Forse un po' di riposo basterà a rimettervi; ma non fate imprudenze. Ora vado a scrivere una ricetta. —
Il medico uscì, seguìto dalla giardiniera e dalla governante.
— Ebbene, come sta la signora contessa? —
Il medico levò gli occhi al cielo.
— La sua fine è prossima.
— Sarebbe possibile?!
— Fra pochi giorni sarà finita: sarà bene, di questo, avvertirne il conte. —
La governante scattò.
— L'uccide lui! — disse.
Il medico aggrottò le ciglia.
— La signora contessa non ha mai avuto molta salute; — rispose — la colpa non è del conte, ma della natura. —
La governante si strinse nelle spalle borbottando:
— Son tutti d'accordo! —
Il medico scrisse una ricetta, poi passò nella camera dell'ammalata. Egli era persuaso che la contessa morisse di languore, e che tutti i rimedî fossero inutili.
La lasciò verso sera, raccomandando attorno a lei la calma ed il silenzio.
La contessa rimase lunghe ore come assopita. Quando si svegliò era notte. Cercò di riordinare le proprie idee e si guardò attorno. Era sola.
Di fuori soffiava il vento ed entrava leggermente fischiando per le fenditure della porta e delle finestre.
— Mia figlia mi chiama.... — disse Clara, presa da una specie di delirio. —
E si lasciò sdrucciolar giù dal letto, bianca come un fantasma, vestita della sola camicia, e si trascinò fino alla camera vicina, dove dormiva sua figlia.
Clara si sentiva una gran voglia di piangere e non poteva.
Avrebbe voluto strappare la bambina da quella culla e portarla con sè. Ma non ne aveva la forza.
La povera donna vaneggiava.
— Egli non la rapirà, bisogna che io la salvi, bisogna che io fugga.... Vergine santa, voi che pure foste madre, abbiate pietà di me, della mia creatura. Dio che brividi! Sento il ghiaccio percorrermi le vene. Lilia, svegliati, bacia la tua mamma.... Che cosa viene a far qui l'infame? Egli vuole ucciderti, come uccide me. Lilia, angelo del cielo, prega per la tua povera mamma! —
E si accasciò tremante presso la culla, senza sapere quello che si facesse.
Ma dopo un istante, Clara si rialzò e con le braccia conserte, gli occhi fissi come quelli d’una sonnambula, tornò a lenti passi in camera sua, si buttò sul letto, e così rimase.
La cameriera, entrando un'ora dopo, la trovò in stato tale d'abbattimento, che la credette morta.
Chiamò soccorso.
Venne più tardi un sacerdote; ma l'infelice contessa pareva non comprendesse più nulla di quanto le succedeva d’intorno.
— Bisogna avvisar subito il conte, — fu ripetuto.
Due ore dopo, la carrozza di Guido si fermava al cancello della villa.
Ne scese il conte, livido più di un cadavere.
— Dite, è vero, — chiese al giardiniere, che era corso ad aprire — quanto mi fu annunziato?
— Purtroppo, signor conte. —
Guido si portò un fazzoletto agli occhi ed a passi vacillanti seguì il giardiniere.
Quando entrò nella stanza di sua moglie, un brivido lo assalse. Era un brivido di rimorso, o di paura?
Forse credette di vedere la contessa alzarsi indignata, indicarlo a tutti, dire ad alta voce: «Lui è il mio assassino,... lui mi ha uccisa, mi ha avvelenata!»
Ma Clara pareva aver perduta ogni conoscenza.
Il suo corpo si era già fatto rigido, il suo viso aveva preso la bianchezza del marmo, la bocca semiaperta mostrava lo smalto dei denti, gli occhi socchiusi, facevano intravedere il bianco delle pupille.
Il conte, cercando dominarsi, si avvicinò al letto, ed inginocchiatosi prese una mano di Clara e la portò alle labbra. Come se fosse stata tocca da un ferro rovente, la contessa, si scosse convulsamente, rabbrividì, ed i suoi occhi si aprirono.
Non appena si fissarono sul conte, un indicibile spavento alterò la fisonomia di Clara; le labbra si agitarono debolmente, come se volessero parlare; le sue braccia si sollevarono, poi ricaddero; i suoi occhi si dilatarono in modo che pareva volessero schizzare fuori dall'orbita. Ma nessuna voce, nessuna parola, nessun gemito si fece sentire.
— Clara, mia Clara, perdono, vivi per me! — esclamò il conte.
La contessa, non rispondeva.
Egli le pose una mano sulla fronte.
Quella fronte era di ghiaccio.
— Morta.... morta! — gridò.
E il suo occhio asciutto ed infuocato, si fissò stranamente sul cadavere.
Venne il medico, e ne accertò egli pure la morte.
Il sacerdote benedisse il corpo della contessa Clara, poi rivolgendosi a Guido:
— Signor conte, — disse — la povera signora mi aveva espresso più volte in vita il desiderio di essere seppellita nel cimitero dell'Antella.
— Che il suo desiderio sia esaudito! — esclamò Guido portandosi un'altra volta il fazzoletto agli occhi — voi penserete a tutto, vi prego, perchè la mia testa non regge più.
— Farò quanto posso, signor conte.
— E non badate a spese: eccovi dei denari. Io torno in città, perchè non ho coraggio di assistere ai funerali.
— E la bambina?
— La porterò con me. —
La governante, all'ordine di tener pronta Lilia, fece un gesto di spavento.
— Questa povera bimba nelle mani del conte? — pensò. — Dio mio, è orribile! Eppure non posso sottrarmi al suo volere. Egli è il padre. Oh! ma io non abbandonerò la piccina: da questo momento tutta la mia vita è dedicata a lei. —
E seguì il padrone, che forse in cuor suo già pensava di sbarazzarsi di quella donna importuna, muta testimone delle sue colpe e che forse avea indovinato la parte che egli aveva avuta nella morte della contessa! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il resto noi lo sappiamo.
La contessa Clara era stata portata al cimitero dell'Antella, ma siccome la tomba non era ancora preparata, la cassa che racchiudeva il corpo, era stata deposta provvisoriamente in una cappella.
E senza l'arrivo di Alfonso, che volle rivedere ancora una volta le sembianze adorate della sorella, la povera Clara sarebbe stata sepolta viva!
Il veleno somministratole da Nara, era un narcotico potente, il cui effetto si era prodotto un po' tardi, stante il temperamento eccessivamente nervoso della contessa.
Clara doveva la sua risurrezione a suo fratello! Le labbra di Alfonso, posandosi su quelle di Clara, avevano spezzato quel suggello fatale, che la morte sembrava avervi impresso.
Dio non aveva permesso che l'orribile delitto di Guido e di Nara venisse intieramente consumato.
La morta risorgeva per la punizione dei colpevoli!