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Carolina Invernizio
Il bacio d'una morta

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PARTE TERZA

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Rivincita.

 

I.

 

Il vecchio notaro della contessa Clara, se ne stava una mattina nel suo studio, quando gli fu annunziato un giovane signore, che veniva per parlargli di un affare di somma premura.

— Fatelo passare, — disse burbero il notaro.

Il visitatore entrò. Era un bel giovane, pallido in viso, vestito completamente a bruno.

Il notaro, colpito dall'aria melanconica e al tempo stesso distinta che traspariva da tutta la persona dello sconosciuto, fece l'atto di alzarsi dalla sua poltrona.

— Non v'incomodate, vi prego, — disse il giovane con gentilezza — e perdonatemi la noia che forse vi reco.... —

Il vecchio notaro fu interamente soggiogato dalla voce dello sconosciuto.

— Non mi disturbate affatto, signore, — rispose — favorite sedere, e ditemi in che posso servirvi.

— In molto, signore, — disse il giovane con accento profondo, sedendo presso il notaro — e non ne sarete stupito, quando vi dirò che io sono il fratello della contessa Clara Rambaldi. —

Il vecchio gettò un grido e stese le mani al giovane, poi andò nella stanza dello scrivano, e disse che non voleva esser disturbato per nessuna ragione.

— Voi?... voi?... – esclamò tornando. — Ah! non potete immaginare, signore, la gioia che mi procurate colla vostra presenza. — E chinando mestamente il capo, con voce soffocata, il notaro, aggiunse: — Ah! perchè non siete giunto prima?...

— Sono sempre arrivato in tempo per impedire che si compisse un orribile delitto! — esclamò Alfonso con profonda emozione.

Il notaro guardò il giovane con inquietudine e spavento.

— In nome di Dio, che cos'è.... dite presto, che cos’è avvenuto? — balbettò.

Alfonso, invece di rispondere, si guardò attorno.

— Siamo soli?

— Lo vedete.

— Nessuno può ascoltarci? —

Il notaro mostrò al giovane l’uscio chiuso e coperto da un’ampia portiera di panno verde.

Un mesto sorriso sfiorò le labbra di Alfonso, ed afferrando le mani del vecchio, esclamò concitato:

— Frenate il grido di sorpresa che potrebbe tradirci, e partecipate alla mia gioia. Mia sorella Clara è viva ancora! —

Il notaro fece un balzo sulla poltrona: credette di aver a che fare con un pazzo.

Alfonso comprese quello che si passava nella mente di lui.

— Non guardatemi con quegli occhi sbarrati, — disse — sono nella pienezza delle mie facoltà intellettuali, e se avrete la pazienza di ascoltarmi, vi racconterò una storia che vi farà rabbrividire e che tuttavia è verissima. —

Il notaro era pallido come un morto: alcune gocce di sudore gli colavano di sotto la papalina di velluto nero.

Alfonso non parve avvedersi di quella emozione, ed a voce bassa, ansante, disse tutto quanto era avvenuto.

Nell’udire che la contessa Clara era stata sul punto di essere sepolta viva, il notaro fu preso da un tremito convulso per tutta la persona.

— Oh! che scellerati, — mormorò — ma Dio è grande: egli non volle lasciar impunito tanto delitto. —

Alfonso respirò.

— Sapete voi dove si trova il conte? — chiese con voce soffocata.

— Egli è partito per Parigi, con quell’infame donna, che l'ha perduto.

— E ha condotto Lilia con sè? Pure mia sorella mi ha detto che vi ha lasciata una dichiarazione, perchè assalita da un funesto presentimento, non voleva, in caso di morte repentina, che sua figlia rimanesse in mano del marito.

— Ma la contessa non vi ha aggiunto altresì che l'ultima volta che si recò al palazzo del conte, questi le fece firmare un foglio, senza permetterle, nè darle tempo di leggerlo?

— Sì.... ebbene?

— Ebbene, quel foglio lasciava la piccina in possesso del padre, lo dichiarava tutore ed amministratore della sostanza di sua figlia. Per fortuna, il conte non ha ancora potuto mettere le mani sul patrimonio della contessa, dovendosi prima compiere le formalità della legge, non bastando l'atto che egli tiene firmato da vostra sorella. —

Alfonso era irritato, pensieroso; tuttavia stava per interrogare ancora il notaro, quando fu bussato fortemente all’uscio.

Il vecchio fece un gesto di collera.

— Eppure avevo detto che non vi ero per nessuno. Non vi movete, signor Alfonso, quando saranno stanchi di picchiare, se ne anderanno. —

Ma pareva che di fuori non si stancassero, perchè i colpi si replicarono più volte.

Allora il notaro si alzò e andò egli stesso ad aprire.

— Chi è? Che volete? — chiese con voce secca al suo giovane di studio.

— Signor notaro, hanno portato questa lettera che dicono urgentissima: si aspetta una risposta.

— Sta bene: datemi la lettera, e fate attendere in anticamera la persona che l’ha portata. —

Il vecchio, rientrato nello studio, disuggellò la lettera, e ne trasse un foglio grossolano, lo svolse, e percorse appena le prime righe divenne pallido come un morto e porgendo il foglio ad Alfonso:

— Leggete, — disse — leggete,... questa lettera è scritta da una moribonda. —

Alfonso commosso, senza sapere il perchè, prese macchinalmente la lettera, ed a voce alta, interrotta, lesse:

 

                     «Signor notaro,

 

«Una donna che voi conoscete e che, ancora pochi giorni fa, era la nutrice della bambina della sventurata contessa Rambaldi, vi prega di recarvi subito da lei, avendo cose importanti da comunicarvi: non indugiate, perchè questa donna avrà forse poche ore di vita.»

 

— Andiamoci subito, io verrò con voi, — disse Alfonso concitato, alzandosi.

Il notaro suonò il campanello.

Comparve il giovane di studio.

— La persona che ha portata questa lettera, è sempre in anticamera?

— Sissignore.

— Fatela passare. —

Un minuto dopo, sulla soglia della studio, compariva una donna vestita di scuro, pallida, con una pezzuola in capo.

— A voi è stato affidato questo foglio? — chiese il notaro.

— Sissignore, e l'ho scritto io stessa, sotto la dettatura della Giustina, perchè essa è gravemente ammalata.

— La Giustina è in casa vostra?

— Sissignore.... è mia sorella.

— Venite dunque, Alfonso, andiamo con questa donna; forse il Cielo l'ha mandata! —

Uscirono tutt’e tre insieme; ma per la strada, la donna li precedeva; con rapido passo li condusse in via Faenza, e si fermò dinanzi ad una modesta casetta, dentro la cui porta, lavorava un ciabattino.

— La Menica, è sempre viva? — chiese la donna al vecchio che tirava lo spago.

— Sì.

— Mi farete piacere di mandarmela su, perchè ne ho bisogno.

— La Menica, è appunto da Giustina.

— Meglio così: grazie, Tonino!... Avanti, signori. —

La donna s'internò in un andito oscuro, seguìta sempre da Alfonso e dal notaro.

Arrivati al primo piano, ella aperse un uscio a destra, e con voce commossa:

— Passino, signori, — disse ritraendosi alquanto.

— Passate prima voi, buona donna, — disse il notaro — per avvisare la poveretta che ci siamo. —

La donna, senza rispondere, attraversò una specie di anticamera, entrò in una stanza a destra, e il notaro sentì la sua voce che diceva:

— Giustina, c’è di là quel signore che tu volevi, ma è accompagnato da un altro. —

Non si poté udire la risposta dell'ammalata, ma la donna uscì in compagnia d'un altra ragazzetta, la figlia del ciabattino, e, volgendosi ad Alfonso ed al notaro, disse:

— Possono entrare, signori, mia sorella li aspetta. —

La camera dell'ammalata era piccola, ma assai pulita. Sul letto, colle lenzuola candide di bucato, stava sollevata Giustina, la governante di Lilia.

La povera donna aveva il volto pallido, gli occhi cerchiati di nero, ma nulla faceva presagire in lei una prossima fine.

All'entrare del notaro ella congiunse le mani e con voce rotta dai singhiozzi:

— Grazie, — disse — grazie di esser venuto. Temevo che ricusaste, e mi finsi più ammalata di quello che sono. Perdonatemi….

— Non ho nulla da perdonarvi, povera donna; parlate liberamente, — rispose il notaro.

E sedette presso al letto, facendo cenno ad Alfonso di fare altrettanto.

Giustina guardò il giovane con inquietudine.

— Ma quel signore? — balbettò.

— Giustina, potete parlare dinanzi a lui, che ha più diritto di me di ascoltarvi. —

L'ammalata spalancò gli occhi con curiosità.

— Egli è il fratello della contessa Rambaldi. —

Giustina gettò un grido, commossa, e a mani giunte:

— Oh! signore, — balbettò colle lacrime agli occhi — perchè siete venuto così tardi? —

Alfonso tremò e divenne pallido, ma con voce triste e grave, rispose:

— Non è mai tardi per ottenere giustizia, e per punire.... —

Gli occhi di Giustina brillarono di un vivo lampo.

— Ah! sì, punite, punite quella miserabile creatura, quella Nara che ha ucciso la mia buona padrona, e farà altrettanto della povera Lilia. —

Il notaro ed Alfonso erano commossi, agitati.

— Voi sapete dov’è la piccina?

— Se lo sapessi, sarei io qui? Io avevo giurato per l'anima della mia santa padrona di vegliare sulla piccina, di dare la mia vita per lei.

«Prima ancora che la mia povera signora fosse seppellita, il conte mi condusse seco al palazzo colla bambina.

«Lilia piangeva, che era una pietà a sentirla, chiamava la mamma, voleva la mamma.

«E quando quella donna, quella ballerina, fece per prenderla fra le braccia e con un'impudenza, che non avrei mai creduta, le disse:

« — Non piangere, io sono la tua mamma. —

«Lilia cominciò a strillare anco di più e le sue piccole unghie si conficcarono nelle guance della miserabile.

«Io avrei voluto che la piccina le cavasse gli occhi.

«Ma credetti di venir meno, quando sentii quella donna dire, con voce fremente di rabbia:

« — Ah! piccolo serpente, mordi come tua madre, ma ti schiaccerò come ho schiacciato lei. — »

Alfonso ed il notaro fecero un gesto d'orrore.

— Ed il conte era furente?

— Il signor conte non c'era in quel momento.

— Ah! sì, era venuto da me, per mostrarmi la carta, che l'infelice contessa aveva firmata senza saperlo, con la quale gli dava pieni poteri sulla figlia e sul patrimonio. —

Alfonso divenne livido.

— Ma era una firma strappata a forza.

— La carta era in piena regola, — rispose il notaro — ma siccome io conosceva la storia dell'infelice contessa, dissi che non avrei consegnato un solo centesimo, sino a che non fossi certo che la morte della contessa era avvenuta naturalmente, ed anche in questo caso, io ero depositario di un testamento olografo di lei, in cui essa lasciava metà della sua fortuna a favore di un altro. —

Il volto di Giustina raggiava di contento.

— Ah! mi figuro la rabbia del conte! — esclamò. — Egli doveva avere la coscienza che gli rimordeva, perchè appena tornato a casa, bestemmiando e rompendo ogni cosa che gli capitava fra le mani, ordinò i bauli, e la sera stessa partimmo.

— Vi condussero con loro?

— Allora sì, perchè vedevano che non c'era verso di far cessare le strida di Lilia, che si avviticchiava al mio collo e non voleva staccarsi da me.... Quella donna aveva già ideato il mezzo di sbarazzarsi di un'importuna; ma, vivaddio, ora che ho il vostro appoggio, la ritroveremo, e se Lilia avesse sofferto qualche cosa, guai, guai a loro!

— Avete ragione, ma diteci tutto.

— Un momento! Prima volevo chiedere a lei, signor notaro, se alla mia padrona fu fatta l'autopsia. —

Alfonso ed il vecchio si scambiarono una rapida occhiata.

Con quello sguardo volevano dire: «— Possiamo parlare? »

Giustina era sorpresa dal silenzio dei due uomini, che si prolungò alcuni secondi.

Finalmente Alfonso, dopo un segno d'intelligenza col notaro, si volse all'ammalata, e chiese con voce commossa:

— Voi avete amata molto la vostra padrona, non è vero? —

Giustina, seduta sul letto, guardò il giovine con occhi pieni di lacrime.

— Se l'ho amata? Oh! avrei data, vi ripeto, la mia vita per lei, come l'avrei data per sua figlia, senza quell'infame donna....

— Ebbene, Giustina, preparatevi a ricevere una grande consolazione.

— Una consolazione? Non v'intendo, signore.

— Possiamo noi qui parlare liberamente?

— Sì, mia sorella dev’essere uscita. —

Il notaro per ogni buona precauzione si alzò, e aprendo l'uscio guardò nell'altra stanza.

La stanza era deserta.

Allora tornò sorridendo presso al letto.

— Potete parlare, Alfonso, — disse.

Gli occhi dell'ammalata brillavano di curiosità. Ella guardava ora l'uno ora l'altro dei due uomini, senza capire la ragione di quei misteri, di quei riguardi.

— Giustina, — disse Alfonso, con voce grave — saprete voi mantenere un segreto che confidiamo al vostro cuore?

— Signore, e potete voi dubitarne? Vi giuro per quanto ho di più sacro, che io non parlerò.

— Ebbene, frenate la vostra emozione, come io ho frenata la mia, e sappiate....

— Ebbene?

— Che mia sorella, la vostra amata padrona, vive ancora.

— Ah! —

Gli occhi dell'ammalata andarono stranamente in giro, come se stesse per essere colta dal delirio, il suo viso si fece bianco, la sua testa si rovesciò all'indietro. Era svenuta!

Alfonso ne fu spaventato.

Il notaro mantenne il suo sangue freddo.

— Non è nulla, — disse togliendo da un tavolino una boccia di cristallo, che si vedeva piena d'acqua.

E ne spruzzò alcune gocce sul viso dell'ammalata, che non tardò a riaversi. Allora ricordando tutto, si sollevò di nuovo sul letto, e con voce interrotta:

— Dunque.... è vero?... Non mi avete ingannata? La contessa, la mia buona padrona vive ancora?

— Sì,... ma calmatevi.

— Mi calmerò, signore; ma se sapeste che cosa ho provato in cuore all'annunzio improvviso: mi è parso di morire dal contento. Dunque rivedrò ancora il dolce volto della padrona, che pareva quello di una Madonna! Oh! Dio è giusto.... e non paga il sabato, — aggiunse, pensando in quell'istante a Guido ed a Nara.

Il notaro ed Alfonso, erano profondamente commossi.

— Potrò vederla, non è vero? — chiese l'ammalata trepidante.

— Ora no, perchè mia sorella dev’essere morta per tutti. —

Giustina si fece pensierosa: non comprendeva.

— Se quella donna, — disse Alfonso con la sua aria grave — sapesse che mia sorella vive ancora, la piccina sarebbe forse perduta.

— Ah! è vero, è vero!... — esclamò Giustina trasalendo — noi dobbiamo salvarla.

— E la salveremo; — disse il notaro con voce calma — ma diteci tutto quanto sapete. —

 

 

 




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