I.
Da Ferdinando il cattolico a
Filippo IV, cioè dal 1500 al 1648, Napoli, sotto il dominio di Madrid, ebbe
ventotto vicerè, i quali, rubando ad un tempo e per la Spagna e per sè stessi,
avevano con ogni sorta di balzelli e di avanie ridotta nella più squallida
miseria quella regione privilegiata da Dio delle più rare delizie della natura.
Salito al trono, Filippo V vide come difficile gli tornasse conservarsi i
possedimenti italiani; onde distaccava per sempre dalla sua corona il regno di
Napoli, e lo dava a Carlo suo figliuolo, nato dalle nozze con Elisabetta
Farnese. Il nuovo re si fece chiamare Carlo III, «per la grazia di Dio re
del regno delle due Sicilie e di Gerusalemme, infante di Spagna, duca di Parma,
gran principe ereditario della Toscana.» Disegnò le armi innestando alle
nazionali delle due Sicilie tre gigli d'oro per la casa di Spagna, sei di
azzurro per la Farnese e sei palle rosse per quella dei Medici. La bandiera
volle bianca con in mezzo le torri di Castiglia ed il rinomato vello d'oro
della monarchia spagnuola. Nel 1735, cioè un anno dopo che era stato insediato
nel nuovo regno, Carlo, recatosi a Palermo, e convocati nel Duomo i tre ordini
dello Stato, che costituivano l'assemblea nazionale della monarchia
rappresentativa, fondata dai Normanni in Sicilia1, saliva sul trono, e,
ponendo la mano sul Vangelo, ad alta voce giurava di mantenere i diritti del
popolo, le ragioni del parlamento e i privilegi della città. — «Diciotto re,
scrive La-Cecilia, avevano giurato anch'essi di mantenere e garantire le
libertà rappresentative della Sicilia: tutti osservarono que' giuramenti; i successori
di Carlo III, Ferdinando I, Francesco I e Ferdinando II giurarono anch'essi più
volte di mantenere e garantire non solo le antiche istituzioni della monarchia
di Sicilia, ma anche i nuovi patti costituzionali della moderna civiltà; i tre
principi furono fedifraghi e spergiuri in faccia a Dio ed al popolo.» Dopo
secoli di straniera servitù, nella più bella parte d'Italia, veniva costituito
un regno indipendente, che i trattati delle primarie potenze d'Europa
garantivano al ramo dei Borboni di Spagna, i quali presero da quel tempo il
nome di Borboni di Napoli, a patto però che rinunciassero per sempre a riunire
in una sola la corona delle due Sicilie e quella di Spagna e delle Indie.
Napoli sotto Carlo III godette
d'un savio governo, Bernardo Tanucci di Stia nel Casentino (Toscana) ministro
del re, dava tosto mano a riformare con ottime leggi lo Stato, a riordinare la
finanza e ad emancipare la corona da tutte le usurpazioni e da tutti gli abusi
della podestà ecclesiastica. Queste ultime radicali riforme sono le opere più
sorprendenti di quel regno; imperocchè per incuria dei vicerè eransi talmente
estesi i poteri della Chiesa, che il clero opprimeva i popoli ed imperava
perfino sul governo. Infrenati i chierici, si pose mano sulle giurisdizioni ed
immunità baronali. Si regolarono ed alleggerirono le imposte; si diede opera al
catasto; per cui fu contento il popolo, e respirò; s'impinguò l'erario, e
«soperchiando gl'introiti ai bisogni si pensò ai monumenti di grandezza.»
Allora, come per incanto, sorsero palazzi, edifici, ospizi, teatri e monumenti
d'ogni genere2.
Moriva il re Ferdinando II di
Spagna senza prole, e lasciava vacante il trono a Carlo III. Ma non potendosi,
come accennammo, pe' trattati riunire in una sola le corone di Spagna e di Napoli,
Carlo decise porre quest'ultima corona sul capo del suo terzogenito, il fatale
Ferdinando, fatale a sè, fatale al reame delle due Sicilie.
Come in quella di Spagna,
costumavasi nella Corte di Napoli ad ogni giovine principe o principessa a dare
un compagno coetaneo che con vocabolo spagnuolo chiamavasi il Menino.
Divideva esso la tavola i giuochi, gli studi coi reali infanti; ma se questi
commettevano fallo, egli doveva sopportarne le reprensioni, i castighi a pane
ed acqua e perfino le frustate. Compagno di Ferdinando fu un tal Gennaro
Rivelli, figlio della nutrice di lui, ragazzo robustissimo, brutto però e di
istinti feroci, e dedito ai vizi. Ferdinando venne da costui iniziato a vita
incresciosa, e con esso lui ebbe comuni gli istinti rozzi, plebei ed impuri.
Finite le pompe dell'insediamento al potere reale, il giovine Ferdinando corse
difilato dal Rivelli, e, tutto giubilante, sclamò, «Sai che sono re e posso
fare ciò che voglio, e tu, fratello di latte, sarai luogotenente mio.» «E
fu vaticinio reale! scrive La-Cecilia. E vennero i giorni in cui Rivelli fu
luogotenente del re, ma di ferocissimi atti, di delitti spaventevoli e di lesa
umanità.» Trascorsa una giovinezza nel più turpe modo che mai3, addì 12
gennaio 1767, compiendo gli anni sedici, età maggiorenne stabilita da Carlo,
Ferdinando si faceva proclamare sovrano assoluto e libero delle due Sicilie; e
un anno dopo si univa in matrimonio coll'orgogliosa e superba Maria Carolina
d'Austria.
Al Rivelli si aggiunse allora
l'inglese Giovanni Edoardo Acton, nome esecrabile per tutta l'italianità e per
l'umanità intiera, immeritevole di nascere uomo. Chiamato dal Borbone a Napoli
per istabilirvi la marineria, vi andò da Toscana l'anno 1779; divenne in breve
volgere di tempo l'arbitro della mente del re, del cuore della regina, e per
tali pratiche, giunto a spodestare dagli stalli ministeriali chiunque
dimostrasse giustizia e pudore, sopra quella medesima scranna di dove Piero
delle Vigne e Bernardo Tanucci erano discesi, si assise solo, dispotizzando del
re, del regno, del popolo e di Dio.
Non importando punto allo scopo
di questo scritto il narrare per filo e per segno delle sozzure a cui si
abbandonò la regale coppia e il suo degno ministro4, salteremo a piè
pari allo scoppio della grande rivoluzione francese, rivoluzione che proclamava
i diritti dell'uomo, e che, gridando guerra mortale alla barbarie dei vecchi
troni, chiamava i popoli tutti a nuova vita. Narratori delle iniquità dei
principi, dei delitti contro la libertà, del martirio dei popoli, ci atteniamo
soltanto a quella parte delle generali vicende che aiutono ad intendere l'opera
gloriosa di coloro che per la patria tutto consacrarono.
Nel 1791, Ferdinando e Carolina,
impauriti delle idee di Francia, eccitavano contro di esse l'odio delle turbe
ignoranti, usando a ciò l'opera dei preti e dei frati, i quali, mutando in
tribuna i pergami e i confessionali, a tutt'uomo predicavano contro gli ordini
liberi. Anche le spie si affaccendavano a più potere; Carolina conferiva con
esse nella reggia; magistrati, nobili, ecclesiastici si prestavano al cómpito
infame. I libri di Gaetano Filangieri erano sbanditi e bruciati; vietati i
giornali forestieri, vietate le adunanze dei dotti; e adoperata la frusta, come
abbietti furfanti, contro i sospetti di essere amatori delle riforme francesi.
Il 4 ottobre 1794, Vincenzo
Vitaliano, di ventidue anni, Emanuele De Deo, di venti, Vincenzo Galiano, di
diciannove, gentiluomini per nascita, notissimi per ingegno, salivano il
patibolo per avere, al giungere del navilio francese, comandato dall'ammiraglio
Latouche, salutato con fervore la bandiera della libertà. Mentre i tre giovani
versavano il loro nobilissimo sangue, le galere e le carceri si empirono
d'ingegni preclari.
Le opinioni perseguitate
diventano sentimenti; il sentimento produce l'entusiasmo, l'entusiasmo si
comunica in ogni classe; onde le opinioni perseguitate si fanno generali e
trionfano. Il sangue di quei primi Martiri della libertà eccitò sdegno ed amore
di vendetta; il numero di quelli che odiarono gli ordini antichi andò semprepiù
crescendo; e quello che prima era amore di riforma diventò desiderio ardente di
libertà. Quindi nuove persecuzioni e nuovi martiri.
Nel 1798, essendosi i Francesi,
guidati da Championnet, impadroniti di Roma, la fama della Repubblica,
inaugurata in Campidoglio, venne più tremenda che mai a disturbare i sonni di
Ferdinando e di Carolina. Per cui, a malgrado della neutralità promessa
all'ammiraglio Latouche, addì 22 novembre di quell'anno, con un manifesto, il
re dichiarava essere deciso a muovere col suo esercito per conquistare al papa
le terre che i Francesi gli avevano tolte. E, senza porre tempo in mezzo, irruì
negli Stati romani con cinquantamila uomini, capitanati dal tedesco Mack; e,
camminando a grandi giornate, giunse a Roma il 29 novembre medesimo.
All'avvicinarsi dei Napoletani, i Francesi, vedendosi in piccolo numero, si
ritirarono da quella città, e con esso loro la più parte degli amatori della
Repubblica.
«Ma alcuni di questi, scrive il
Colletta, confidenti alle regali promesse di clemenza o arrischiosi o dal fato
prescritti, restarono: e nel giorno istesso furono imprigionati o morti; due
fratelli di nome Corona, napoletani, partigiani di libertà, rimasti con troppa
fede al re, furono, per comando di lui, presi ed uccisi. La plebe, scatenata
sotto velo di fede a Dio e al pontefice, spogliò case, trucidò cittadini,
affogò nel Tevere molti Giudei: operava disordini gravi e delitti.»
Championnet, raccolte tutte le
milizie che qua e là aveva, sconfisse da ogni parte il nemico; gli tolse molte
armi e bandiere; e, da assalito divenendo assalitore, mosse colle sue genti per
alla volta di Napoli. Il re e la regina, non vedendosi nella metropoli più
sicuri, ai 21 dicembre 1798 partirono per la Sicilia, recando seco le
suppellettili più preziose dei reali palazzi, tutte le ricchezze dei musei, non
che quelle dello Stato, cento milioni di lire, e lasciando il regno
senz'ordine, senza leggi, e nella miseria. Non contento di ciò, volle
Ferdinando, per soprassello, impartire barbarissime disposizioni, fra cui
quella di abbruciare le navi dell'arsenale e dei porto, perchè non andassero in
mano ai Repubblicani. E due vascelli, tre fregate e centoventi barche
cannoniere furono arse in cospetto della città, che rimase mesta e costernata
da quel tristo spettacolo.
Il generale francese, dopo fiera
battaglia, e molte stragi, ai 23 gennaio 1799, entrò vittorioso in Napoli, e
proclamò la Repubblica Partenopea. Mentre i buoni sostenevano i nuovi ordini
della libertà e adoperavano ogni più onesto e generoso modo, i tristi facevano
studio di male arti per rinsediare in trono la tirannide e la barbarie. Uomini
di cattivo ingegno, ladri, assassini si posero alla testa della
controrivoluzione nelle provincie. Essi erano chiamati amici ed onorati da
Ferdinando e da Carolina; ad essi si rivolsero i preti, i frati, i vescovi e
gli altri amici del dispotismo; e ad essi fu anima e capo il cardinale Fabrizio
Ruffo, uomo che lasciò di sè fama scelleratissima. Assuntosi quel porporato di
sommuovere le Calabrie contro i Repubblicani, sbarcò sul lido calabrese nel
febbraio di quel medesimo anno 1799; raccolse intorno a sè malfattori e
masnadieri in gran copia, e ne compose un esercito che chiamò della Santa
Fede; donde venne poscia il nome di Sanfedisti a tutti i più
perversi retrivi. Il Ruffo s'impadronì di molte città calabresi; eppoi si
diresse a Cotrone5 ove, in nome della religione e del diritto divino
dei re, fece nefandità non mai più udite. Tutti gli amanti di Repubblica
vennero tratti a morte, anche negli altri luoghi in cui l'esercito della Santa
Fede entrava vittorioso; e fra questi, la sera del 24 febbraio, Giovanni
Andrea Serrao, vescovo di Potenza, uomo veneratissimo per dottrina, per vera
religione e per santità di costumi.
I Repubblicani resistettero
valorosamente, in sulle prime, alle orde del cardinale Ruffo; ma il
combattimento era in armi dispare; e però non poterono a lungo resistere.
Il Ruffo, dopo essere passato su
mucchi di cadaveri de' suoi e dei Repubblicani, attraverso alle fiamme, ai
saccheggi e le rovine, più coll'inganno che colle sue preponderanti forze, a
cui si erano uniti e Russi e Turchi, potè entrare in Napoli il 13 giugno; e
dopo giorni di ecatombi, il 30, alla rada, protetto dall'armata inglese,
condotta dall'ammiraglio Nelson, giunse pure re Ferdinando. Suo primo cómpito
fu quello di promulgare una legge contro i rei di Stato, in forza della quale
più di quarantamila cittadini erano minacciati della pena di morte, e un numero
maggiore del bando. «E per conseguire i suoi feroci voleri, scrive il Vannucci,
avea creata una Giunta di Stato composta di tristissimi uomini, più tristo de'
quali era Vincenzo Speciale, nativo di Sicilia, spregiatore di ogni giustizia,
furioso amatore della tirannide, insultatore crudele dei prigionieri, iniquo
falsificatore dei processi: insomma schiuma di scellerato, e degno ministro
alle ire di Carolina e di Ferdinando Borbone.» La persecuzione di questa
tristissima coppia superò in crudeltà quella de' più feroci tiranni. Mentre contaminava
le città col sangue degli uomini più venerandi, col commettere gli atti più
arbitrari che mai, non risparmiava nè pure le donne. L'avere legami di
parentela o d'amicizia con un fautore di Repubblica, l'avere soltanto mostrato
un senso di umanità pelle vittime, bastava per esporre le più nobili e virtuose
donne agli strazi della plebe furibonda, alle ire della corte, alle vendette di
Carolina. Le madri, le mogli, le sorelle dei Repubblicani vennero barbaramente
trattate; non mancarono le condanne di morte: anche nobilissime donne offersero
il collo al capestro, o tinsero del loro sangue la mannaia del Borbone. Questo
re, stretto dalle vittorie di Napoleone, dovette nel 1805, cercare di nuovo
rifugio in Sicilia, scampando così alla meritata vendetta. Ivi rimase dieci
anni finchè durarono in Napoli i regni di Giuseppe Bonaparte e di Giovacchino
Murat.
Le sciagure dei Napoletani non
ebbero termine nè pure sotto il governo di questi due re, i quali mancarono
alle loro promesse. Colle prepotenze della conquista, colle immoderate
gravezze, colle morti della più gagliarda gioventù in lontane guerre, essi
avevano di molto irritati i popoli. Insopportabile fu più che l'altro il regno
del Murat; e qualche storico dimostra come l'Austria e Ferdinando II fossero assai
più miti nelle loro misure di quel re francese.
Gli amatori di Repubblica,
odiando qualunque dominazione straniera, si ritirarono sui monti degli Abruzzi
e delle Calabrie; ed ivi, intenti a cospirare contro i re, diedero principio
alla sêtta dei Carbonari, la quale presto divenne potentissima6.
Gl'Inglesi, che stavano in Sicilia a difesa di Ferdinando, si rallegrarono
della mala contentezza che nasceva contro i Francesi; si rallegrarono dei
sentimenti che animavano i Carbonari, e con essi fecero pratiche, e promisero
loro una costituzione se si adoperassero a richiamare l'antico re. La polizia
di Giovacchino, venuta in sospizione di queste pratiche, cominciò ad usare
fierissimi modi; furono stabilite commissioni militari, vi furono condanne di morte.
Ma la Carboneria, perseguitata, s'ingrandiva e si estendeva in ogni luogo, in
ogni ceto; e quanto più poteva lavorava a' danni del Murat. E quando questi,
muovendo contro gli Austriaci, chiamò col proclama di Rimini (30 marzo 1815)
gl'Italiani all'indipendenza, niuno rispose all'appello, tanto i popoli erano
stanchi delle fallite speranze.
Cadde Giovacchino; e tornò
Ferdinando a gotizzare Napoli. Il Borbone, anzichè dar sostegno e favore a
coloro che avevano cooperato al suo ritorno, anziché dare la promessa
costituzione, si mostrò pronto a punire chi di libertà parlasse o pensasse. I
Carbonari allora cominciarono a cospirare contro di esso. La rivoluzione di
Spagna del 1820 vieppiù accese i desideri e le speranze di libertà. La materia
era pronta; a destare vastissimo incendio bastava una favilla.
Ai 2 di luglio dello stesso
1820, i sottotenenti nel Reggimento Borbone cavalleria, Michele Morelli
e Giuseppe Silvati, innalzando la tricolore bandiera, disertavano da Nola con
alquanti sergenti e soldati. Ad essi si univano varî settari e il prete Luigi
Menichini da Nola. Il grido di patria trovò dappertutto favore; e la
rivoluzione in quattro giorni si operò da un capo all'altro del regno, con
esemplare concordia, senza spargimento di sangue. In tant'armonia di tutti
nello stesso pensiero, il re cedette ai desideri del popolo, e promise e giurò
solennemente la Costituzione di Spagna. Il giorno primo di ottobre si aprì il
Parlamento nella chiesa dello Spirito Santo, ed ivi il re col maggiore apparato
giurò sul libro dei Santi Vangeli di difendere e conservare la Costituzione, ed
aggiunse che se mai mancasse al giuramento, invocava da Dio sul proprio capo la
pena degli spergiuri. I principi della santa alleanza, non assentendo al
mutamento di Napoli, invitarono Ferdinando a congresso in Lubiana per trattare
cose del regno. Il re accettò tosto l'invito, e comunicò al Parlamento la sua
volontà; dopo vario disputare, i rappresentanti del popolo commisero il
gravissimo errore di lasciarlo partire.
Nella vita delle nazioni, come
in quella degli individui, v'hanno istanti solenni, i quali decidono di tutto
un avvenire; un'ispirazione luminosa, uno slancio generoso possono essere
l'origine di felicità e di gloria; un istante di debolezza costa spesso anni di
umiliazione e di servaggio. L'errore del Parlamento napoletano fruttò larga
mêsse di lacrime e di sangue a quella già troppo sfortunata terra. Il re partì
in fatti, il 14 dicembre, giurando che andava qual mediatore di pace, qual
propugnatore dei diritti del suo popolo, e aggiunse che quando non ne
conseguisse l'intento, a tutt'uomo difenderebbe colle armi la Costituzione. Tre
mesi non erano per anco trascorsi, allorchè giunse novella che Ferdinando
tornava a Napoli con cinquantamila Austriaci, comandati dal Frimont, per
distruggere quella Costituzione che aveva giurato difendere. In riscatto dello
spergiuro il Borbone appendeva a Firenze in voto ricchissima lampada alla
Madonna dell'Annunciata7.
Alla nuova fremettero i popoli e
corsero alle armi. Condotti dai generali Carrascosa e Guglielmo Pepe,
quarantamila uomini di soldatesche regolari; a cui si erano unite molte milizie
civili, mossero contro il nemico. Ma i capitani erano discordi, grandissima la
diffidenza fra i generali e soldati. Il Pepe assalì il 7 marzo 1821 gli
Austriaci a Rieti, e fu vinto. L'esercito napoletano si scoraggiò, e si
disperse; e gli Austriaci con gran facilità entrarono in Napoli ai 23 marzo, in
mezzo allo sbalordimento dei cittadini che «mesti pensavano alla perduta
libertà e alla soprastante tirannide.» E questa all'usanza dei Borboni fu
crudelissima, avendo trovato Ferdinando nello scellerato Canosa un suo degno
ministro. L'effusione di sangue fu tale che perfino l'Austria se ne commosse.
L'imperatore scriveva al generale Frimont comunicasse al re Borbone, come ei
reputasse migliore politica quella di martirizzare senza spargimento di sangue
i rei di maestà. Il Borbone rispose che di per sè stesso non farebbe grazia a
niun condannato, ma che siffatte essendo le imperiali intenzioni, ad esse
pienamente si conformerebbe. E però invece d'impiccare quelli già sentenziati
alla morte, nel suo cuore magnanimo stabilì che patissero trent'anni di
ferri nell'orrida isola di Santo Stefano.
Quel re, che aveva sull'anima più
delitti d'ogni altro tiranno, moriva, esecrato da tutti, il 4 gennaio
18258. Il duca di Calabria, figlio di Ferdinando, veniva, per
testamento olografo del defunto, confermato re; egli assumeva il nome di
Francesco I. Questo degno erede dei Borboni pure spremè le lagrime ed il sangue
dei popoli per mezzo dei preti, dei frati, dei crudeli ministri, e vieppiù di
un suo rapacissimo servitore favorito, Michelangiolo Viglia; il quale insieme
con una Caterina De-Simone, aiutatrice delle bestiali lussurie della regina
Isabella, pose a prezzo ogni cosa. Dando denari al Viglia si campava dalle
condanne, si avevano impieghi civili, militari, ecclesiastici. Francesco sapeva
di quelle turpitudini, ne godeva, e diceva al Viglia: «Fa buoni affari e
approfitta del tempo, che io non vivrò molto». Nel 1828 gli abitatori del
Cilento, stanchi del mal governo, si levarono a tumulto e si posero d'accordo
coi liberali di Napoli e di altre provincie per proclamare una costituzione che
liberasse i popoli dagli orrori del dispotismo. Francesco mandò contro
gl'insorti il marchese Del-Carretto, generale comandante della gendarmeria, con
una truppa di sgherri, investendolo di pieni poteri. Il Del-Carretto fece
orribili cose: mise a ferro e a fuoco intieri villaggi: fece macellare,
condannare numero grande di generosi. Per ispaventare quel generale fece studio
di barbarie. Le teste tagliate sul patibolo erano per ordine di lui esposte in
una gabbia di ferro e messe davanti agli occhi della moglie e dei parenti di
quei disgraziati9.
Lo stupido e crudele Francesco
Borbone moriva il giorno 8 novembre 1830. Nell'agonia della morte vedeva
intorno al suo letto le ombre dei sacrificati; onde negli estremi deliri,
asseverano dicesse: «Che cosa sono queste grida? Il popolo vuole la
costituzione? Dategliela, e lasciatemi tranquillo!»
Ferdinando II, il figlio di
quell'Isabella che fu moglie di Francesco e donna di molti, saliva al trono due
giorni dopo la morte del padre. Le popolazioni credettero sorgere a nuova vita,
notando nei primi atti del giovane principe sentimenti di giustizia, di
assennatezza e di clemenza regale. Ferdinando biasimò il governo del padre,
disse farebbe ogni sforzo per rimarginare le piaghe che da anni affliggevano il
reame, promise giustizia, vigilanza e saggezza; e cominciò col dare alcune
concessioni e col diminuire il tempo di pena dei condannati politici. Ma non
tardò guari a mostrarsi non degenere della sua trista razza; si diede ai
gesuiti, si fece bigotto e feroce. Gli esili, le condanne e i macelli si
succedettero senza posa dal 1832, anno in cui ricominciarono le
cospirazioni10, al 1859, tempo in cui l'angelo della giustizia,
librandosi sul capo del tiranno lo chiamò a rendere stretto conto a Dio delle
sue scelleratezze.
La congiura dei fratelli
Rossaroll, quella del frate Angelo Peluso, la insurrezione di Catania e di
Siracusa per opera di Salvatore Barbagallo-Pittà e di altri generosi, quella di
Aquila e di Cosenza, la spedizione dei fratelli Bandiera e compagni diedero
luogo a nuove strazianti uccisioni, a condanne numerosissime. E in modo
particolare il macellamento dei generosi Bandiera coi sette loro amici mosse a
sdegno un cuore nobilissimo, quello di Carlo Pisacane, il martire, del quale
particolarmente imprendiamo oggi a parlare. Il nome di Carlo Pisacane primeggia
fra gli uomini che coll'ingegno e col valore cooperarono grandemente a pro
della patria nostra e che per essa fecero sacrifizio della vita. Generoso fra
quanti mai ne ebbe l'Italia, volle con un pugno di prodi ritentare quella
spedizione già fallita ai fratelli Bandiera.
Quando si accinse all'azione era
quasi sicuro della morte che l'attendeva; tuttavia, porgendo un magnifico
esempio agli Italiani, con animo fermo e deliberato, seguito da pochi, eroi
come lui, le andò incontro, come ad una festa da lungo tempo desiderata.
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