II.
All'alba del 22 agosto 1818,
Carlo Pisacane sortiva alla vita nella ridente Napoli, in quell'albergo di
gentili spiriti e di profondi intelletti, in quella città sì ben composta di greca
vivacità e di romana sapienza. Il padre fu il duca Gennaro di San Giovanni, e
la madre Nicolina Basile De Luna. Fin dalla più tenera età Carlo ebbe a
pregustare le amarezze della vita; chè toccava appena i sei anni, quando
perdeva il padre, il quale molto il predilegeva. Non furono per altro da donna
Nicolina risparmiate cure e premure alcune, perchè il suo Carlo ricevesse
quell'educazione che si convenivano e ai natali che aveva avuti in sorte, e
alla dimostrata precoce svegliatezza di mente. E Carlo corrispose con affetto
alle materne sollecitudini, mostrandosi amatissimo degli studi. L'animo suo
fervido inclinava specialmente alle cose di guerra; e quest'inclinazione parve
tanto forte alla genitrice, che, nel 1831, lo pose nel reale collegio militare
della Nunziatella, dove i figli di patrizia famiglia o di militari si educavano
al mestiere delle armi. Carlo in quelle discipline che ivi si insegnavano fu
sempre de' primi; e nelle matematiche specialmente avanzò ogni altro; onde gli
istruttori se lo tenevano carissimo.
Mentre trovavasi nel collegio fu
pur paggio, per quattro anni, alla corte del re Borbone; «ed è questo, scrive
un suo biografo, non lieve indizio di sua nobile indole, che in quell'età
giovanissima, così facile agli allettamenti ed agli inganni, si serbasse
incorrotto e non bevesse il veleno dei consorzi cortigianeschi.»
Passati, nel 1839, gli esami in
modo luminosissimo, amante com'era pegli esercizi equestri, desiderò militare
nella cavalleria. Ma non avendo potuto ottenere ciò, recavasi, come soldato
gregario, nella città di Nocera, e, dopo sei mesi di tirocinio, veniva ammesso
nel corpo reale del Genio napolitano col grado di sottotenente. Innanzi entrare
in collegio, nel 1830, egli aveva conosciuta una fanciulla dell'età sua, della
quale sin d'allora si prese. Nè il giovanile affetto fu dimenticato pelle
lunghe assenze e per gli studi severi; chè anzi, sempre più crescendo, si fece
amore, e più violento riarse quando, uscito della Nunziatella, egli trovava la
diletta fanciulla sposa ad altro uomo. Il contrasto fra la passione e il dovere
fu lungo; pure come vedremo, vinse l'amore.
La rinomanza che non tardò guari
ad acquistarsi quale ingegnere abilissimo, fece sì che il capitano Fonseca lo
domandasse in aiuto a condurre la ferrovia da Napoli a Caserta. Carlo adempiè
quell'ufficio con molta lode; ma i modi burberi del Fonseca mal si affacevano
colla gentilezza di lui. Onde, stanco chiese di essere tolto a quei lavori. Ciò
che ottenne; se non che, quasi in pena del passo fatto, veniva mandato negli
Abruzzi, ove se ne stette meglio che quindici mesi. Restituito alfine alla sua
Napoli, fu promosso al grado di primo tenente.
Nel tempo in cui fu in quella
città gli accadeva un caso, degno di essere ricordato. Mentre una sera, ad ora
assai inoltrata, moveva alla propria abitazione, un ladro improvvisamente
sboccava fuori, gli si avventava alla persona, minacciandolo di morte se non
gli avesse dato quanto denaro per avventura si trovasse avere in dosso. Carlo
non era tal uomo da inghiottirsi con santa rassegnazione le minaccie del ladro.
Comechè inerme, a fronte d'uomo armato, non stava punto in forse, si gettava
risoluto sul malandrino, e tentava vincerlo. Robusto ed agile come era, esso vi
sarebbe riuscito; ma lo scellerato, vedutosi al mal partito, cavava di sotto un
trincetto, e gli traeva due colpi nel petto e nel ventre. Il povero Carlo,
chiesto invano soccorso a poche pietose persone, a stento, solo per forza
d'animo, condottosi alla porta di casa, ivi, immerso nel proprio sangue, come
corpo morto cadeva. I chirurghi, pe' quali mandò la famiglia di lui dissero
che, essendo d'una ferita tocca l'ala destra del fegato, non v'era luogo a
speranze di vita. Se non che il vigore singolare che aveva d'animo e di corpo,
e le pietose cure della donna del cuore vinsero la forza del male; si riebbe, e
sanò. Della qual cosa l'egregio chirurgo Coluzzo non rifinì di stupirsi,
dicendo «esser certo il Pisacane serbato a cose grandi dal cielo, poichè tale
pericolo, a nessun uomo superabile, avesse così felicemente, contro ogni giusta
aspettazione, superato.»
Guarito che fu, veniva chiesto
dal capitano Gonzales per dirigere una strada all'Antignano. Egli accettava, e
muoveva tostamente per quella volta. L'odio, che presto sentì nascersi in petto
contro i tiranni d'Italia, massime contro il Borbone; la lotta sempre più viva
tra l'amore per la donna che avrebbe voluto far sua, e il rispetto alla sposa
altrui, lo decisero a rinunciare all'impiego e a lasciare il paese nativo. L'8
di febbraio 1847, il Pisacane partiva da Napoli per Londra. Quivi rimasto
qualche tempo, si recava a Parigi, e, invano cercato di procacciarsi di che
campare la vita col lavoro, decideva di inscriversi tra le schiere dei soldati
francesi che muovevano a guerreggiare gli Arabi dell'Algeria. E tanto più
volentieri abbracciava tale determinazione, in quanto che poteva tenersi
addestrato nel mestiere delle armi, speranzoso, come era, di essere poscia in
grado di esercitarlo a beneficio della patria e della libertà. Egli
presentavasi al Duca di Montebello, in quel tempo ministro per gli affari della
marina, il quale aveva conosciuta la famiglia Pisacane quand'era ambasciatore
di Francia presso la Corte di Napoli, per le costui raccomandazioni veniva
accettato come sottotenente nel primo reggimento della legione straniera,
comandato dal colonnello Mellinet. Il Pisacane partiva per Marsiglia; e il 5
dicembre dello stesso anno 1847 faceva vela per l'Africa. Colà, nella rude
guerra contro gli Arabi, non gli mancarono occasioni di guadagnarsi la stima e
l'affetto dei commilitoni.
———
Nell'anno 1847, i popoli,
soggetti a Ferdinando, chiedevano a lui, come a padre, quelle concessioni che
altri principi italiani avevano ai loro sudditi accordate in quel torno di
tempo. Ma l'infame Borbone, alle nobili e giuste domande, rispondeva colle
schioppettate, colle prigioni, colle stragi. I Palermitani, stanchi delle
frustrate speranze di libertà, delle governative enormezze colle quali si
pretendeva acquistare il reame, insorgevano il 12 gennaio 1848. — Il grido della
rivolta si diffondeva per tutta l'isola sicule; e Messina, Trapani, Catania,
Termini, Siracusa, erano le prime a seguirne l'esempio. I preti, i frati, col
Cristo alla mano, eccitavano sulle serraglie il popolo ai sentimenti generosi e
gagliardi, alla conquista dei propri diritti. A malgrado delle preponderanti
soldatesche che, ad istigazione del Ministro Del Carretto, del monaco Cocle,
confessore della corte, e dei gesuiti, Ferdinando aveva spedite nell'Isola, i
Siciliani furono vincitori; ma, generosi dopo la vittoria, non si portarono a
vendette, e si accontentarono della Costituzione di Napoli.
Il Borbone, all'aspetto ognora
più minaccevole dei Napoletani, alle vittorie dell'insorta Sicilia, il 29 di
gennaio si decise a promettere una Costituzione. Ma non fu che all'11 febbraio,
e, dopo mille nuove incertezze, che quella promessa, suo malgrado, faceva un
fatto compiuto.
Cittadini di tutte le classi,
dimentichi dei sofferti malanni, si affollarono, in sulla Piazza di san
Francesco da Paola, per applaudire al re. Ferdinando, seguito dalla moglie,
dall'erede al trono, dai suoi fratelli, fecesi al verone del palazzo reale a
ricevere l'omaggio della moltitudine. Alle voci di Viva Ferdinando II! —
Viva la Costituzione! — Viva l'Italia! — egli rispondeva portando la destra
sul petto. E siccome ad ogni tratto si faceva maggiore il numero delle genti
affollate e il grido devoto ognora più crescente, così quegli, che pareva certo
dell'amore de' suoi sudditi, escì della reggia per raccogliere davvicino il
premio d'un'opera tanto desiderata, sì a lungo protratta. Allora l'entusiasmo
divenne febbrile, e i saluti di onore confusi in uno solo, si mutarono in suono
alto di festa, commoventissimo. E chi baciava le mani del re; chi il lembo
della sua veste; chi dicevagli parole di grazie, di affetto; chi designavalo il
balio dell'italiana nazionalità; chi l'incoronatore delle speranze di molti
secoli. I fatti dei Napoletani e dei Siciliani vennero da tutt'Italia
applauditi.
I grandi avvenimenti che
occorrevano in Italia, i quali come terremuoto scuotevano la terra, la guerra
bandita contro l'Austriaco, non potevano non commuovere l'animo di Carlo
Pisacane, ansiosissimo di pugnare pel risorgimento della terra natale.
Ond'egli, alla voce della patria che alla battaglia chiamava tutti i suoi
figli, come colui che riceveva un invito da molto tempo atteso e desiderato,
non poneva tempo in mezzo, e, il 24 marzo 1848, presentava al colonnello
Mellinet la rinuncia al grado, dicendo reputare sacro dovere l'accorrere in
patria mentre essa aveva bisogno del soccorso d'ogni buon italiano. Il
colonnello Mellinet sottoponeva, a malincuore, ai superiori la dimanda del
Pisacane; egli avvertiva essere la partenza di questi una grave perdita pel
reggimento. Il generale Cavaignac, allora governatore generale dell'Algeria,
spediva l'accettazione della rinuncia, accompagnandola con lettera in data 6
aprile in cui esternava al Pisacane il rincrescimento pell'allontanarsi di lui
dal suo esercito. Non sì tosto in possesso di questa lettera, Carlo partiva per
l'Italia, apportando alla sua difesa il tributo del suo braccio e de' suoi
studi.
Nel viaggio da Marsiglia a
Genova appiccava amicizia col medico Giovanni Cattaneo, già da molti anni
emigrato in Francia e uno dei partecipi all'antica spedizione di Savoia; e fu
con esso lui che, giunto verso la metà di aprile a Milano, recavasi da Carlo
Cattaneo. Il Pisacane credeva fosse tuttora quest'illustre statista membro di
quei consigli e comitati che il caso aveva accozzati nei giorni della
rivoluzione; e a lui domandava di essere ammesso nel nuovo esercito lombardo.
Il Cattaneo poteva soltanto offrirgli di presentarlo al generale Teodoro Lechi.
«Mi sta a memoria, scrive il Cattaneo, come lungo la via il popolo si fermava a
mirare quel bel giovine in quell'insolito uniforme. Era con noi un altro
officiale della Legione straniera, d'età più provetta, Angelo Todesco,
israelita di Trieste. Il generale li accettò volontieri ambidue.»
Narrasi che Lechi volesse
affidare al Pisacane la cura di levare ed ordinare un reggimento, dandone a
lui, come colonnello, il comando. Se non che egli rifiutava rispondendo: «Non
essere venuto a bella posta dall'Africa, non corso sui campi ove si disputavano
le sorti della patria diletta, per trascinare neghittoso la spada per le vie di
Milano, ma per tingerla nel sangue dei nemici d'Italia; non ambire lui comandi,
non grossi stipendi, non onori; ma vita operosa e pericoli e battaglie; lo
mandassero per ov'e' isto affrontarsi coll'odioso straniero. Lechi lo inviò
come capitano nella legione Borra, che trovavasi ai confini del Tirolo, sul
monte Nota.
Prima che partisse per colà,
essendosi il Cattaneo avveduto dei talenti e dell'alto cuore di Carlo, lo
pregava notasse in breve i suoi pensieri sul modo di ordinare quanto più
sollecitamente si potesse il nostro armamento; «imperocchè, come accenna il
citato Cattaneo, sebbene avessimo Venezia e tutta Italia e la Sicilia,
già si vedeva offuscar l'orizzonte, e dividersi i principi per forza alleati.
Il gran punto era di ordinare l'esercito col numero di officiali che si aveva.»
Il giorno 19 aprile, Carlo
presentava la memoria: Sul momentaneo ordinamento dell'esercito lombardo in
aprile 1848, la quale non venne pubblicata, «perchè già era troppo tardi; e
i savi non accettavano più consigli11.» Fu soltanto nel 1860 che era
resa di pubblica ragione nel Politecnico n. 45. Accenna il Cattaneo che
nella firma della memoria tra il nome e il titolo di capitano d'infanteria,
v'era una riga mal cancellata che diceva: capitano nel reggimento della morte!
Ai confini del Tirolo, il
Pisacane ebbe a sostenere diversi scontri coll'Austriaco, riportandone sempre
somma lode di virtù e di coraggio. Lieto sen viveva sulle sorti della patria,
quando la notizia degli eccidi e dei tradimenti accaduti il 15 maggio in
Napoli, venne ad amareggiargli alquanto l'animo.
Il Borbone, comechè l'11
febbraio altamente dichiarasse di voler accordare a' suoi popoli liberi
ordinamenti e mantenere loro una sana costituzione, non aveva, il truculento,
che cercato cogli intrighi e colle iniquità proprie della sua schiatta di
guadagnare tempo, covando nel nero petto il modo di distruggere quella
Costituzione che molto abborriva. E più il popolo rispondeva con dimostrazioni
e proteste, e vieppiù desso e i suoi sgherri con ogni sorta di trame, con tutte
le arti più perfide preparavano la controrivoluzione. Con un decreto del 5 di
aprile, Ferdinando aveva accordato ai deputati il diritto di svolgere e
modificare lo Statuto. L'assemblea doveva radunarsi solennemente il 15
maggio. Il giorno 14 mentre i deputati di tutte le provincie si erano raccolti
in adunanza preparatoria nel palazzo comunitativo di Mont'Oliveto, fu
presentata loro una formola di giuramento che toglieva le facoltà concesse dal
decreto del 5 aprile, e sanzionava implicitamente l'infame guerra contro la
Sicilia. I deputati rigettarono questa formola unanimemente, e ne proposero
un'altra che fu rigettata dal re. Quindi si cominciava una lotta vivissima fra
i difensori della libertà e il dispotismo desideroso di avere occasione di
scatenare i suoi cagnotti. Tutti gli antichi sbirri quel giorno uscirono fuori,
si mescolarono col popolo, e accrebbero la diffidenza con grida faziose. Si
cominciarono le serraglie in Toledo e nelle vie vicine: la città era tutta
commossa. I deputati fecero quanto più potevano per calmare gli animi, per
trovare un modo di conciliazione; ma il tiranno, che innanzi tratto parve
aderire alle domande, voleva la guerra e il macello. Verso la mezzanotte da più
punti della città si seppe che le soldatesche uscivano dei quartieri, che molta
cavalleria e artiglieria si schierava avanti al palazzo reale. Allora la
guardia nazionale fu chiamata alle armi; allora le serraglie si fecero più
spesse; allora incominciarono e il tumulto e la confusione. Una voce copriva
l'altra; niuno regolava quei moti, niuno li dominava, perchè niuno li aveva
preveduti; niuno sapeva il disegno di colui che gli era accanto ad innalzare le
barricate: atti erano di furore per accingersi a disperata difesa contro i
pretoriani del re, non disegni prefissi, concertati e diretti a mutamenti
politici. Si trascinavano panche, tavole, vetture; si picchiava ad ogni uscio;
molti senza ordine d'alcuno andavano a postarsi sulle terrazze, sui balconi:
tutti operavano senza consiglio, ma senza proferirsi un sol grido contro la
forma del governo costituzionale o contro il re stesso. Sol quando le scaglie
decimavano le vite di tanti prodissimi giovani, e la più bella via di Napoli
mutavano in campo di strage, allora si ripeteva a ragione: morte ai Borboni!
Ferdinando stavasene nella
reggia coi suoi sgherrani preparando la guerra. Aveva dato ordine ai comandanti
dei forti di innalzare a un cenno bandiera rossa, e di tirare sulla città. Non
pochi istigatori di rapine e di morte erano stati inviati fra i Lazzaroni a
spargere oro, e a promettere il saccheggio delle case dei ricchi. Anche ai
soldati fu promesso il saccheggio. E di questo re, che cercava esterminare i
popoli, i quali, fidenti in lui, attendevano le promesse franchigie, di questo
re, che dall'uno all'altro punto del suo regno aveva steso un lenzuolo funereo,
il d'Arlincourt, vero scherano del dispotismo, non vergognava nella sua Italia Rossa di dire «nessuno più di
lui ebbe animo alieno dalla tirannia, e il cuore propenso all'umanità; ei fu
sempre clemente e magnanimo.»
Dopo quella terribile notte
venne un più terribile giorno. A un grido di all'arme, a una
schioppettata tirata non si sa da chi, gli Svizzeri e tutti gli sgherri del re si
slanciarono contro le barricate, nel tempo stesso in cui i cannoni fulminarono
da tutti i castelli. Il forte della battaglia fu a Toledo, a S. Ferdinando e a
S. Brigida. Dalle barricate e dalle case veniva una tempesta di schioppettate
continue. Per tre volte i soldati regi furono respinti. I combattenti, sebbene
in piccolo numero, sebbene senza munizione, senza capo e disgiunti gli uni
dagli altri, fecero prodigi di valore. La pugna cessò dopo sei ore di disperata
ma generosa difesa da parte dei valorosi cittadini, dopo prove di inaudita
ferocità da parte dei soldati e dei Lazzaroni.
Non è possibile di adequatamente
narrare tutti gli orrori di quella giornata d'inferno. Dappertutto strage,
stupro e rapine. Spogliati i magazzini, spogliate le case, le chiese, fu
superato il furore delle bande del cardinale Ruffo. Vi furono famiglie intere
distrutte, donne prima violate e poi spente, innocenti bambini gettati colle
loro culle nelle vie e nei pozzi. Molte guardie nazionali perirono sulle
barricate: 27 prigionieri furono condotti nei fossi del castello e uccisi
subito alla presenza del conte d'Aquila, fratello del re. Furono assassinati
circa duecento tra vecchi, donne e fanciulli. Parecchi morirono nel palazzo
Gravina, che fu dato alle fiamme. Ivi quattordici persone che si erano nascoste
nelle cantine, nei giorni appresso furono trovate cadaveri. Da molte donne si
esigeva denaro o poi si straziavano e si uccidevano. La moglie di un Ferrari
ucciso nel palazzo Gravina, per salvarsi dal fuoco diede ventimila ducati di
gioie; e appena avuto il prezzo, gli sgherri la gettarono giù dal balcone. La
vedova Benucci diede seimila ducati per salvare l'onore delle figlie; si prese
il denaro e si tolse l'onore. Alla figlia del marchese Vasatura, giovinetta di
tredici anni, fu trapassato il ventre da cinque baionette, mentre sull'uscio
chiedeva pietà. Angelo Santilli fu ucciso nel letto. Era un giovine di 17 anni,
nato in Terra di Lavoro, ricco di dottrine politiche. Aveva facile e calda
eloquenza e di leggieri trasfondeva negli altri i sentimenti che gli
commuovevano il cuore. Egli per le vie di Napoli faceva alla plebe la
spiegazione del Vangelo e delle libere dottrine insegnate da Gesù; predicava la
religione, la libertà, la fratellanza, l'amore. Il despota napoletano lo odiava
perchè insegnava agli uomini a conoscere i loro diritti, e con ogni suo
discorso diminuiva il numero delle anime schiave. Il 14 maggio predicò per
l'ultima volta al popolo, che plaudiva e piangeva. Le sue parole in quel giorno
furono più del solito malinconiche e commoventi. Tornato a casa, nella notte
del 14 al 15, fu preso da febbre ardentissima, e stava in grande travaglio
quando la città rintronava dei reboati del cannone e si contaminava tutta di
sangue. Due giovani fratelli, la sorella e una fantesca a quell'orribile suono
stavano raccolti e spaventati intorno al letto dell'ammalato. Le finestre della
stanza erano chiuse; da esse non era uscito alcun tiro di schioppo; ma
l'infelice era designato ai carnefici. Si cercò la sua casa, si ruppe la porta,
si invasero le stanze, si fece fuoco su tutti. L'ammalato, giacente al letto,
ebbe una palla al cuore e morì nell'istante. Nello stesso modo furono spenti i
fratelli e la sorella dell'infelice.
Non fu possibile di raccogliere
tutti i nomi dei molti valorosi che morirono colle armi alla mano. Possiamo
però ricordare quello di Luigi La Vista, giovine di 25 anni, nato in Venosa,
patria di Orazio. Aveva l'animo pieno di generosi e liberi propositi,
l'intelletto ricco di civile sapienza; prometteva di essere un bell'ornamento
della patria.
Terminate le umani ecatombi,
Napoli tutta rimase immersa in profondo lutto. Soltanto la reggia era in festa:
gli sbirri e le meretrici esultanti. Il re e la regina sclamarono essere stato
quello il più bel giorno della loro vita, e andarono nella chiesa del Carmine a
rendere grazie a Dio della vittoria di sangue. Ad istigazione della polizia,
frotte di meretrici sozzissime non cessarono di andare per le vie gridando viva
u re! Unite a sbirri e a soldati rubavano e facevano oscena guerra ai baffi
e alle barbe dei cittadini. Chiunque fosse riconosciuto per guardia nazionale,
per deputato o per liberale, era vituperato con parole e percosse. Lo stesso
generale Gabriello Pepe fu svaligiato dagli Svizzeri e condotto al castello, ove
lo tennero due giorni in prigione in mezzo agli scherni di vilissima
soldatesca.
Napoli fu messa in istato
d'assedio; la guardia nazionale e l'assemblea furono sciolte; della libertà non
rimase nè pure l'apparenza. Molti dei deputati, che avevano durato intrepidi in
faccia al pericolo e non si erano disciolti che per la violenza della forza
brutale, dopo aver scritta e firmata una degna protesta, portarono la notizia
di quegli orrori nelle Calabrie. Tutti i liberali calabresi si commossero al
tristissimo annunzio, e gridarono vendetta. Si crearono comitati di sicurezza
pubblica in Catanzaro e in Cosenza; molta gioventù corse alle armi, e si formò
in Filadelfia un campo di ottomila volontari, desiderosi di vendicare i
fratelli trucidati a Napoli. Il governo mandò contro di essi il generale
Nunziante con forte nerbo di soldatesca feroce e di quantità grande
d'artiglieria. Al ponte della Grazia, al fiume Angitola si venne alle mani, e
alcuni Calabresi si batterono da eroi; ma, sopraffatti dalle artiglierie, dovettero
ritirarsi e sbandarsi. Fra quelli che ivi caddero martiri della libertà sono
ricordati Angelo Morelli e Giuseppe Mazzei, due uomini tenuti in pregio ed
onore per la generosa indole loro. I soldati del Borbone lasciavano la
desolazione in ogni luogo; rubavano e uccidevano anche chi li accoglieva con
segni di gioia. I pochi abitanti rimasti a Filadelfia, dopochè si erano
ritirati gli insorti, per campare dal flagello, mandarono una deputazione di
preti, alle soldatesche, invitandolo nella città e assicurandole che sarebbero
accolte amichevolmente. I pretoriani entrarono il dì 28 giugno; e l'accoglienza
fu quale era stata promessa. Ma ciò non rese migliore la sorte degli abitanti.
Furono invase le case: grandi le rapine e i guasti; poi ingiurie, percosse e
uccisioni; contaminato l'onore delle donne, straziati i venerandi vegliardi,
diciotto cittadini condotti in ostaggio. Otto furono uccisi, fra i quali due
fratelli Federico ed Edoardo Serrao. Orribili casi avvennero anche al Pizzo,
comechè ivi pure si accogliessero i soldati con ogni guisa di dimostrazioni
amorevoli. Alle gentilezze, que' berrovieri risposero colla strage e col
saccheggio. Fecero fuoco contro le case e contro le persone; atterrarono colle
scuri le porte, rapirono, distrussero, spogliarono uomini e donne; poi, ebbri
di furore e di vino, dettero di piglio nel sangue innocente: molti pacifici
cittadini furono spenti o feriti. Queste ed altre scelleratezze commisero in
Calabria nel giugno nel 1848 i soldati del Borbone, guidati dal Nunziante, il
quale nei suoi proclami diceva «esser venuto a rimetter l'ordine, a frenar
l'anarchia, a proteggere le sostanze e le vite dei cittadini.» Nè qui
finirono i lutti e le stragi del 1848. Nel settembre la città di Messina pativa
rovine, incendi e macelli. I Borboniani vi fecero opere esecrate così che nella
storia non trovano confronto.
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