III
Carlo Pisacane, credente che i
popoli avrebbero saputo vendicarsi delle infamie di Ferdinando, non si perdè
punto di coraggio; cercò di attutire il dolore da lui provato giurando che con
tutte le potenze della mente e del braccio avrebbe rimeritati i tiranni delle
lagrime e del sangue versato dagl'Italiani. E mantenne la promessa. Combattè
sempre con estremo ardimento, con somma sapienza; e nei giorni della sconfitta
colle armi della parola. Il 29 giugno, ebbe in un combattimento da una palla
ferito il braccio destro, e così miseramente che, dove non fossero state le
cure della sua diletta amica, da lui ritrovata a Marsiglia mentre tornava in Italia,
e quelle del dottore Leone, a comune giudizio dei medici, sarebbe stato
mestieri amputarglielo. Dopo trenta dì che giaceva infermo a Salò, per
l'avvicinarsi dei nemici fu tratto a sicurezza in Milano. Ed era convalescente
che già si affrettava ad offrire l'opera sua al Governo Provvisorio per la
difesa della città minacciata dagli Austriaci. Ma coloro che reggevano allora
la somma delle cose, calpestando l'onore della patria, a tutta possa si
adoperavano a stancare e a fiaccare l'impeto generoso delle genti, che
dappertutto volevano con guerra popolare prendere la rivincita di Custoza; onde
all'offerta del Pisacane rispondevano: «non essere lui atto a battaglia,
malconcio com'era: pensasse alla propria salute e raggiungesse i feriti che il
precedevano.» Della qual cosa egli molto si rattristò e si dolse cogli amici,
dicendo: «costoro non hanno fermo proposito di resistere al nemico, nè di far
opera degna di quel popolo che loro obbedisce.» E fu vero.
Caduta Milano di nuovo in potere
del Radetzky, il Pisacane recossi sdegnoso in Isvizzera, ove si ridussero molti
dei più ragguardevoli uomini d'Italia; e fu in quel tempo che per la prima
volta conobbe Giuseppe Mazzini.
D'animo ardentissimo, non poteva
lungamente rimanersi neghittoso. E però, come in sul finire del 1848 venne a
cognizione che il Piemonte levava soldatesche per la riscossa e ordinava
reggimenti nuovi, correva a Vercelli ad offrire la sua persona; e quivi veniva
ammesso col grado di capitano nel 22° reggimento di fanteria, che faceva parte
della divisione lombarda. Se non che gravissimi tornandogli gli indugi, le
esitanze, le ministeriali incertezze, non sì tosto seppe che a Roma era stata,
il 9 del febbraio 1849, proclamata la Repubblica, egli chiedeva ed otteneva in
breve regolare congedo dal ministro della guerra, e si affrettava a muovere per
alla volta della città eterna, dove un irresistibile instinto gli presagiva che
più gloriosamente avrebbe potuto consacrare l'opera sua a difesa della
periclitante libertà.
Quando Carlo Pisacane giunse a Roma,
il piccolo esercito della nuova Repubblica era disordinato e disperso;
ond'egli, che peritissimo era delle cose militari, espose al triunviro Mazzini
i suoi pensieri sul modo di raccoglierlo e disciplinarlo. Piacquero tanto al
Mazzini que' disegni che nella tornata del 15 marzo propose all'assemblea si
creasse una commissione sulle cose di guerra, la quale riformasse e le
soldatesche che vi erano e ne levasse di nuove per provvedere alla salute della
patria. Fu creata la commissione, e fra quelli che ne fecero parte, per unanime
voto, fu il Pisacane. Coloro che in quel tempo lo conobbero asseverano che
principale parte di lode a lui spetta delle buone cose operate da quella
commissione, la quale tanto conferì a difendere la città contro le soldatesche
di Francia e a mantenere la gloria delle armi italiane; e ad esso pur
attribuiscono il vanto di aver ordinato il fatto d'arme del 30 aprile, di tanto
onore ai difensori di Roma. Comechè il Pisacane dissentisse dal Mazzini su
varie questioni, socialista e pur federalista essendo, tuttavia quegli sel
tenne assai caro; lo elevò al grado di colonnello, e all'ufficio di capo di
stato maggiore. Ma il Pisacane non si accontentò di far parte degli ordinatori
dell'esercito; volle essere pur soldato di azione; trovossi in ogni
combattimento, pugnando sempre con estremo coraggio. E ben ebbe ragione il
Bertani, ne' suoi Cacciatori delle Alpi, di chiamarlo il prode dei
prodi; imperocchè, degnissimo compagno dei Mameli, dei Manara, dei Daverio, dei
Morosini, dei Dandolo e di altrettali, operò fatti degni de' padri nostri.
Il Pisacane non ammetteva
l'entusiasmo che i volontari sentivano pel Garibaldi. «Guai, scriveva egli,
allorchè le masse giungono a credere all'inviolabilità ed all'infallibilità di
un uomo. Guai allorchè le masse si avvezzano alla fede e non alla ragione: è
questo il segreto sul quale sino ad ora si è basata la tirannide, che ha
trovato facile la strada al conseguimento dei suoi disegni; dappoichè il
pensare è fatica dalla quale rifuggono le moltitudini, corrive sempre al
credere. Indisciplina in pace e disciplina in guerra è la divisa
in ogni rivoluzione, quella genera la discussione e crea il concetto, ovvero la
bandiera; questa unifica gli sforzi, ed invita il soldato a tener gli sguardi
fissi sul vessillo e non già sul capitano. Poco monta che la mitraglia
distrugga un generale: un altro lo rimpiazza, ma la bandiera non cambia, ogni
milite deve averla scolpita nel cuore.» Eminentemente dotto nell'arte militare
non poteva poi riconoscere il sistema di guerra adottato dal Garibaldi,
quell'indipendenza sua ad ogni disciplina e quella cieca fidanza che ei
riponeva nella fortuna. Noi però abbiamo fermo convincimento che se il Pisacane
fosse vissuto tanto da essere testimonio delle vittorie comensi e della spedizione
dei Mille, avrebbe certamente
rivocato il suo concetto sul Garibaldi, e salvatore dei popoli non solo, ma
grande capitano lo avrebbe salutato.
Incerto del partito da prendere,
il Pisacane era rimasto in Roma anco dopo che i Francesi vi erano baldanzosi
entrati. Esso, e mai seppene la causa, era un giorno imprigionato, e rinchiuso
in Castel sant'Angelo per otto giorni; da dove non uscì che per le molte
istanze che fece al generale Oudinot la donna del suo cuore, la quale sempre lo
aveva seguito. Come fu fuori dovette subito partirsene; imperocchè i vincitori
tanto temevano di que' vinti che dileggiavano quali codardi ed imbelli, che gli
contesero di rimanere più a lungo in città. Il Pisacane partiva per Losanna, ed
imprendeva di nuovo la vita dolorosa dell'esule.
Caduta Roma, e con essa pure
Venezia, la quale aveva durata una lunga e gloriosa difesa, gli uomini
reggitori del movimento nazionale italiano trassero in Isvizzera; e quivi si
diedero a raccogliere i fatti, a studiare le ragioni del loro esito, e,
avvalorando il dire con esempi magnanimi, cercarono di facilitare
quell'avvenire le cui fondamenta ormai erano state poste in Italia. Gli
avvenimenti avevano dimostrato il paese educato; era adunque mestieri, non
eccitarlo dopo il giorno d'una caduta, sibbene perfezionarlo, confortarlo alla
risurrezione della patria. Fu a Losanna che gli Evangelisti della libertà
presero stanza; e quivi, per azioni, fondarono la Società editrice, L'Unione,
che ebbe un Comitato Direttore nelle persone di Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi
e Mattia Montecchi. Precipuo scopo di quella società era la stampa e la vendita
di scritti scientifici, politici, religiosi e letterari, tanto italiani che
esteri, i quali tendessero a mantenere e a sempre più inculcare negli animi lo
spirito di libertà, di nazionalità, d'indipendenza12. Essa veniva anche
in soccorso degli uomini che vivevano nell'esilio a qualunque opinione liberale
appartenessero, col pubblicare i loro scritti, assegnando loro un equo
compenso; così era ricostituita l'unità delle varie intelligenze.
L'opera collettiva iniziata in
Losanna fu il giornale L'Italia del Popolo, continuazione di quello
pubblicato nel 1848 a Milano e nel 1849 a Roma. Questa rassegna non ebbe programma,
e dove alle prime pagine si dichiara di non proporvene alcuno, dicesi che il
programma è «nella parola uscita il 9 febbraio 1849 da Roma, madre comune e
centro d'unità a tutte le popolazioni d'Italia — nella missione che la tradizione
e la coscienza popolare assegnano all'Italia.» Alla libera stampa devesi se
l'Europa conobbe i nostri dolori, le nostre aspirazioni, le nostre guerre, i
nomi dei santi che consacrarono a vittoria la nostra causa; ad essa devesi se
il popolo italiano, attraverso la ecatombi politiche, portò nobilmente il lutto
delle sue funeree condizioni; se la sciabola dei tiranni incontrò nell'occhio
di lui quella misteriosa potenza, con cui lo sguardo di Mario inerme fece
cadere il gladio di mano allo schiavo armato; ad essa pur devesi la fraterna
associazione nelle battaglie, nello scopo, nella bandiera; quella persuasione
all'olocausto di ogni altro concetto al sommo, l'unificazione della patria;
per essa disparvero i partiti, sorse la Nazione. E quanta potenza e quanto
felice successo avesse L'Italia del Popolo, ce lo dimostrano poi i
pubblici fogli di quei tempi e le note della diplomazia.
La moltiplicazione di quella
rassegna per mezzo di ristampe e di traduzioni fu portentosa; e il governo
austriaco ne fu siffattamente atterrito che ne proibiva rigorosamente
l'introduzione nelle terre a lui soggette, e condannava a cinque anni di
fortezza il sacerdote Pietra Dalloca di Venezia, perchè possessore di due
fascicoli dell'Italia del Popolo. Non meno dell'Austria, la
Repubblica di Francia ebbe timore della veridica stampa; essa, nel settembre
1849, proscriveva il giornale, e, in sui primi del 1850, si doleva amaramente
«della stampa di giornali e di libri incendiari che, a malgrado del divieto,
clandestinamente entravano in Francia.» La guerra della polizia francese fu
tale, che non solo venivano sequestrati i quaderni che entrassero nel
territorio della Repubblica; ma, postergato ogni diritto internazionale, si
sottraevano i pacchi che transitavano colla direzione per gli Stati Uniti.
Scrittori dell'Italia del
Popolo erano: Giuseppe Mazzini, generale Allemandi, R. Andreini, C.
Arduini, Bertani, De-Boni, Montecchi, Francesco Pigozzi, Carlo Pisacane,
Maurizio Quadrio, Saffi, Pietro Sterbini, G. B. Varrè ed un Russo; non che
altri, che, rimasti in patria, non fecero palesi i loro nomi.
Fondato che fu il giornale l'Italia
del Popolo, il Mazzini cercò di ricostituire con una parte dei profughi
italiani un'assemblea nazionale. Se non che il Governo svizzero, resosi
mancipio del Radetzky, espellendo i rifugiati, dovettero questi trarre a
Londra. Quivi costituiva regolarmente il Comitato nazionale italiano, in
dipendenza ed in piena correlazione coll'altro, che pur colà sorse, appellato Comitato
democratico europeo. Il primo era composto del Mazzini, Saffi e Montecchi;
il secondo del Mazzini, qual rappresentante l'Italia, Ledru-Rollin, la Francia,
Ruge, la Germania, Darasz, la Polonia. Ambi i comitati tennero sedute, e
pubblicarono proclami che il giornalismo d'Europa diffuse e ripetè con molta compiacenza.
Il Comitato nazionale
italiano fu d'un'attività senza pari. A mezzo di emissari fidati, di
scritti criptografici, veniva in poco tempo a stabilire centri repubblicani
nello stato Romano e in quello di Toscana, nei Ducati e persino nel Napoletano.
Scopo dei Comitati era quello della Giovine Italia, cioè di mantenere
viva nelle masse del popolo e colla voce e colla stampa la sacra fiamma di
libertà; di accrescere sempre più il numero degli affiliati; di spiare,
tergiversare possibilmente l'operato dei despoti; di favorire la fuga dei soci
che fossero rinchiusi nelle prigioni; e di raccogliere infine somme per
soccorrere quelli che giacessero nelle prigioni, e per le imprese che si
sarebbero tentate in favore della libertà. Molti adepti trovò il Comitato, fra
cui non pochi sacerdoti, i quali non avevano titubato un istante a scegliere
fra la causa degli oppressi e quella degli oppressori, ed alcuni perfino
pagarono col loro sangue l'amore di libertà, affrontando con esultante
serenità, come i Martiri del cristianesimo, la morte per la fede italiana.
Le cospirazioni, ricominciate
nel 1850, vennero mano mano attingendo il loro massimo grado di esplicazione;
nè bastarono a spegnerle le molte vittime immolate dai governi ai loro furenti
terrori. I despoti giacevano destituiti d'ogni forza morale, in mezzo ai
cannoni ed alle baionette.
Il Comitato centrale aveva
emesse cartelle per contrarre il prestito nazionale; quelle cedole si
diffondevano dappertutto in modo meraviglioso. Tipografi e litografi, sotto gli
ordini dei Comitati, supplivano all'opera clandestina della stampa nazionale,
alle cui esigenze non bastavano le introduzioni che si facevano dal Piemonte e
dalla Svizzera. Nè del tutto venivano neglette le armi; e le fila della
vastissima trama si propagavano persino nelle schiere dell'esercito austriaco.
In tali circostanze non sembrava illusione, nè temerità il seguire una
politica, la quale non desiderava che quanto l'eroismo può chiedere ad un
popolo. L'eccezione era divenuta regola; il cospirare era divenuto, per così
dire, generale, pubblico, normale.
———
Gli articoli di Carlo Pisacane
nell'Italia del Popolo tendevano principalmente a dimostrare come
riescisse fatale alla libertà l'istituzione degli eserciti assoldati, e come
fosse necessaria alla conquista dell'indipendenza l'attuazione del principio
militare svizzero ed americano; per cui, all'uopo, ogni cittadino sa e può
essere soldato. Nello stesso giornale egli parlò dei fatti di Roma sotto il
punto di vista militare, e specialmente della spedizione di Velletri.
Dopo tre mesi di sosta a
Losanna, il Pisacane recavasi a Londra, dove conobbe i capi della democrazia
francese ivi rifugiati. Favellando seco loro, si addentrò in que' sistemi
sociali di cui egli cercava far tesoro, malgrado fossero altamente combattuti
dal Mazzini ed anco oppugnati dai rifugiati italiani. Vuolsi poi che a Londra
per campare la vita desse lezioni di lingua italiana e francese.
Nella prima metà del 1850 traeva
a Lugano, ove ravvivò l'amicizia con Carlo Cattaneo, pel quale nutrì i
sentimenti della più alta ammirazione, come colui che professava le dottrine
federative. Fu a Lugano che, nella calma di cui gli fu prodiga allora quella
Repubblica, egli intese a importante lavoro, quasi a conforto delle sventure in
cui versava l'Italia e a dolce rimembranza dei giorni degnamente spesi a pro
della patria. Egli scrisse la narrazione su La guerra combattuta in Italia
negli anni 1848-49, che è forse l'istoria più dotta per istudi militari, e
più fedele di quante se ne scrissero da amici e da nemici, da nazionali e da
forestieri, intorno a quella fase dell'italiana rivoluzione. Ecco come il
coscienzioso autore parla del suo libro: «Mentre una turba di scrittori, o
servi di un partito ed apologisti di un uomo, o romanzieri più che storici, od
ignoranti dei fatti e delle cause dei fatti, avevano completamente falsato la
pubblica opinione riguardo agli avvenimenti militari di Roma, io fui il primo a
parlare il vero, disprezzando i malcontenti e le suscettibilità che avrebbero
sollevato il mio dire.» In questo suo lavoro egli si appalesa Apostolo di que'
principi politici, filosofici e sociali, i quali formano accumulativamente il
simbolo della religione razionale. In varie pagine poi comprova come vano sia
l'attendersi schietto ed efficace sussidio dai principi e dalla diplomazia a
promuovere la causa della rivoluzione, e come la conventuale disciplina,
inflitta alle soldatesche assoldate valga assai meno del fervore proprio delle
milizie cittadine a conseguire la vittoria nelle battaglie della libertà.
«Tutti, proclama egli, debbono essere militi e soldato nessuno. Nelle guerre
nazionali il popolo tutto deve radunarsi al campo; nè deve esservi distinzione
fra il soldato ed il cittadino; per cui la guardia nazionale riesce una di
quelle assurde instituzioni, figlia del dualismo costituzionale, la quale
rappresenta l'esercito del popolo posto a fronte coll'esercito del desposta.»
Devoto ai principi della scuola
razionalista e sociale, non esita a proclamare come «la miseria e la religione sieno
i primi ausiliari dei despoti;» che stolto è il credere, che si possano salvare
le nazioni «marciando alla guerra con l'insegna del privilegio e del
cattolicismo,» e non deve fare meraviglia se la rivoluzione del 1848 fu
dappertutto sconfitta, dal momento che si ebbe dovunque la dabbenaggine
di far cantare il Te Deum, e benedire la bandiera dai preti cattolici;
che la religione, insomma «è l'ostacolo più potente, che si opponga al
progresso dell'umanità.»
Esempio poi raro a' giorni
nostri, zeppi d'uomini vantatori, il Pisacane nel libro di cui parliamo non una
volta registrò il suo nome, quantunque avesse, come vedemmo, operato di molte
cose tanto in Lombardia, quanto durante il memorando assedio di Roma.
Parecchi mesi passò in fraterna
dimestichezza con Carlo Cattaneo, Filippo De-Boni, Mauro Macchi e Francesco
Dall'Ongaro: «e, scrive il Macchi, presto abituatomi alla cara consuetudine di
sua compagnia, non dimenticherò mai il dolore che sentii dentro di me il giorno
in cui ci diede addio, per raggiungere incognito quell'egregia signora, che
aveva abbandonato la primitiva famiglia, i parenti, gli agi domestici, il paese
nativo, tutto per dividere le tribolate sorti del profugo politico: tanto forte
fu l'affetto che egli aveva saputo inspirarle con le rare virtù e con la
gentile persona.»
Infatti sullo scorcio del 1850,
stanco di vivere sotto cielo straniero, il Pisacane recavasi a Genova, ove
riunito alla donna del suo cuore, che ansiosa ivi stava ad aspettarlo,
approfittò di quella calma di spirito che dona la domestica pace, e che forma
il più desiderabile fra i beni di questo mondo, per dedicarsi a tutt'uomo a
quegli studi, dai quali era convinto potesse esclusivamente derivare il trionfo
della causa nazionale. Innanzi tratto dovette tenersi celato; imperocchè il
governo gli negava di poter rimanere in Genova; ma tanto vi restò che alfine ne
ottenne l'adesione. E allora, per accudire con minori distrazioni possibili
agli studi suoi, ritirossi ad abitare fuor di città sull'ameno colle di Albaro,
dove era soltanto visitato dai più intimi amici.
Nel 1851, il genovese editore
Giuseppe Pavesi accettava di fare di pubblica ragione il libro su «La guerra
combattuta in Italia»; vi si apponeva quest'epigrafe: «Le rivoluzioni
materiali si compiono allorchè l'idea motrice è già divenuta popolare.»
II Pisacane era uomo logico,
franco ed integro; onde alle convinzioni sue coscienziosamente conformava le
opere; e non solo s'asteneva da ogni pratica cattolica; ma quando, nel 1853,
gli nasceva una bambina, l'unica che gli sopravviva, si ricusò di portarla alla
chiesa per le consuete cerimonie lustrali, e di farla inscrivere su i registri
clericali. «In quella vece, scrive il Macchi, ricorse all'opera ben più
competente di un pubblico notaio, dando così l'esempio di una condotta, che,
ove fosse imitata, varrebbe più d'ogni altra cosa ad accelerare lo scioglimento
del problema religioso, il quale pesa, come incubo, su l'età nostra. Sì, ad
accelerare il trionfo del Vero, più d'ogni propaganda filosofica, varrebbe il
proposito in ogni cittadino, che abbia perduta la fede nella mitologia papale,
di non permettersi alcuna pratica, che sia propria dei credenti, come, per
umani riguardi, finora troppo spesso succede13.»
Il Pisacane aveva allora la
ferma idea che non si dovesse dar mano a congiure, e a promuovere insurrezioni,
ove prima non si fosse guadagnato nelle moltitudini coll'apostolato della
parola, non solo il consenso degli animi, ma eziandio l'effervescenza degli
spiriti, in favore di quel principio, che si vorrebbe sostituire all'ordine
attuale. «Senza di che, scriveva egli, il dar di piglio alle armi solo per
obbedire alla parola d'ordine di un caposetta, riesce un vero maleficio.» A
poco a poco però, dovette riconoscere quanto la voce della stampa liberale
avesse operato nelle masse, educandole ai sentimenti di patria e di libertà,
eccitandole ai più nobili sacrifici. E se non ammetteva pienamente che il
principio dell'unità fosse passato nel petto d'un intero popolo, tuttavia
riputava esistere da noi la rivoluzione morale. Quando poi pensava ai dolori
d'Italia, alle sue vergogne, ai suoi doveri, l'anima di lui si intendeva con
quella del Mazzini in un solo palpito d'opere generose. Infatti non tardava
guari a gettarsi nel partito d'azione; e ciò che innanzi tratto dannava,
ammetteva poscia, scrivendo, che «la sola opera che può fare un cittadino per
giovare al paese, è quella di cooperare alla rivoluzione materiale; epperò
cospirazioni, congiure, tentativi, ecc., sono quella serie di fatti attraverso
cui l'Italia procede verso la sua meta. Il lampo della baionetta di Milano (Agesilao)
fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti dai dottrinari.»
I vari tentativi dei patrioti
per iscuotere il giogo di servitù, comechè falliti, non furono in fatto giammai
sterili. Imperocchè, come altrove dicemmo, dando luogo per parte dei tiranni a
persecuzioni ed a morti, queste non facevano che sempre più accrescere la fede
politica, la quale si andava dilatando dall'un capo all'altro d'Italia.
Carlo Pisacane facendo tesoro di
molte buone letture nel romitaggio d'Albaro, meditò anco e scrisse i Saggi-storici-politici-militari
sull'Italia, che divise in quattro saggi: 1° Cenni storici — 2.° Cenni
storici militari — 3.° La rivoluzione — 4.° Ordinamento
dell'esercito italiano. «Il bisogno, egli dice, di formarmi un
convincimento che essendo norma delle mie azioni, fra il continuo mutare degli
uomini e delle cose, mi avessero mantenuto sempre nel medesimo proposito, fu la
cagione principale che mi determinò a questo lavoro.»
Quantunque terminasse il nuovo
libro nel 1855, e se ne fosse potuto conoscere il valore da alcuni frammenti
che vennero inserti, invia di appendice, in un giornale genovese, giacque pur
tuttavia per ben tre anni inedito, non essendo riuscito mai quel valente uomo a
trovare un editore che avesse voluto assumersi l'incarico di pubblicarlo. E chi
sa per quanto tempo sarebbe stato ad esso negato l'onore della stampa, se, in
seguito alla catastrofe che al Pisacane tolse la vita, non si fossero accinti a
procurarne la pubblicazione i tre concittadini commilitoni, Mezzacapo, Cosenz e
Carrano, «i quali, scrive il Macchi, intesero con ciò di adempire due debiti;
l'uno di porre ad atto l'ultima volontà dell'autore: l'altro di offerire agli
amanti d'Italia, qualunque sia la loro opinione, opportuna occasione di dare
una testimonianza di affetto all'ingegno ed al valore di un illustre Martire
della libertà italiana.»
L'opera era principiata in
Genova (Stabilimento tipografico nazionale, 1858); ma sembrava che una fatalità
pesasse su di essa; chè, terminata la prima parte, non potè più essere
proseguita. Fu nel 1860, che l'avvocato Enrico Rosmini, amicissimo del martire
e della famiglia, pensò di proseguire la pubblicazione degli scritti del
Pisacane, e lo fece coi tipi di Pietro Agnelli di Milano. — Il Rosmini si
accinse alla stampa per fare cosa grata alla famiglia dell'illustre patriota e
rendere come meglio poteva omaggio alla gloriosa memoria di lui.
Trovando molta riluttanza negli
editori genovesi, il Pisacane non ebbe amore ad ordinare il suo scritto; e come
egli stesso nel Testamento politico ricorda «non lo condusse a forbitura
di stile.»
Oltre agli scritti di cui
abbiamo parlato, due altri se ne hanno del Pisacane, ove non si voglia pur
computare una viva polemica che da Genova sostenne col generale Roselli, quando
questi pubblicò le sue Memorie intorno ai fatti militari di Roma, la quale
trovasi inserta nel giornale La voce della Libertà (settembre 1853, n.
260, 261, 262). Il Roselli si mostrava offeso nelle Memorie per averlo il
Pisacane ne' suoi scritti detto debole, e per aver dichiarato che la sua
debolezza fu causa di errori. Se il generale si fosse accontentato di mostrare
come quegli si fosse ingannato, e in quelle circostanze non si potesse usare
severità, il Pisacane non gli avrebbe certamente replicato; ma non entrando in
franca discussione, accusandolo di mala fede, e dichiarando che si era espresso
così sul conto suo per trarre qualche opinione più favorevole a sè dal
pubblico, egli non poteva tacere.
Il Pisacane fu tra i primi che
combatterono le pretensioni del Murat al trono di Napoli, mediante due scritti.
Il primo, che ha per titolo Italia e Murat, fu pubblicato nel giornale
il Diritto del 1855; n. 225, ed è firmato di conserva con altri emigrati
politici delle provincie meridionali; l'altro intitolato Murat e i Borboni
è individuale; e venne innanzi tratto inserto nell'Italia e Popolo del
1856, n. 263; indi diffuso dall'Autore nel settembre di quello stesso anno
pelle provincie meridionali. In questo articolo il Pisacane cercava dimostrare
i danni arrecati a quelle regioni dall'occupazione del Murat, e le sevizie
patite da quanti erano ivi amatori di libertà, ammonendo così ognuno a non
prestar fede alle promesse dello straniero.
Nel 1856 Carlo recavasi nuovamente
a Genova, ove si dava ad insegnare le scienze matematiche, presso alcune
famiglie di amici; se non che, nè al merito nè al buon volere rispondeva
fortuna; e mentre a molti abbondava il superfluo e di che profondere in
lascivie ed in crapule, a lui, che per la patria aveva dato il sangue, ed era
pronto a dare la vita, a lui degno, per virtù e per dottrina, di laude e di
premio, appena appena riusciva con molta fatica a procacciarsi il
sostentamento. Alfine otteneva l'incarico di fare gli studi d'una ferrovia da
Mondovì a Ceva; ed ancora i Monregalesi conservano tuttodì dolce memoria di
lui.
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