IV.
Il 15 maggio 1849, anniversario
delle carnificine di Napoli, le soldatesche del Filangeri, in numero di
diciasettemila uomini, entravano in Palermo. Così, dopo aver difeso a palmo a
palmo i terreni su cui sventolava la sacra bandiera e avervi lasciato di molte
vittime, la rivoluzione siciliana veniva assopita. Il principe di Satriano e il
Maniscalco, il primo traditore, il secondo feroce, furono destinati da
Ferdinando a conculcare quel popolo generoso; ed essi risposero in modo di
appagare le ferine brame del padrone. Alcuni arditi giovini sdegnarono soffrire
le verghe di quei due truculenti sgherrani del dispotismo; e il 27 gennaio 1850,
gridando libertà, insorsero alla Fiera Vecchia. Il popolo era stanco della
lotta sostenuta; desso, alla vista della bandiera tricolore, non seppe trovare
l'antico siculo entusiasmo; la forza accorse; sei di quei giovini furono
arrestati; e il domani, nel luogo istesso dell'insurrezione, vennero fucilati.
Così al martirologio italiano furono aggiunti sei nomi, e fra questi quello di
Nicola Garzilli, giovine avvocato, nelle lettere e nelle scienze versatissimo,
di mente sublime, di cuore impareggiabile.
Dopo il martirio di quegli
eletti uomini, si formò una società segreta, che fu appellata Associazione
unitaria italiana, la quale, inspirandosi nel Comitato di Londra, aveva per
iscopo di costituire in tutti i comuni dell'Isola Comitati filiali, e di
mantenere sempre acceso nel popolo l'amore di libertà, di raccattare danaro per
la causa del riscatto, e di tenere la Sicilia avvinta al grande rivolgimento
italiano che preparava la democrazia. Il truce direttore di Polizia Maniscalco
venne verso il 1854 a capo di scoprire alcune fila della trama; egli fece
trarre, carichi di ferri, nelle prigioni di Palermo i più audaci
dell'Associazione, i quali vi languirono fin sullo scorcio dell'agosto 1856. E
pure allora non ebbero piena libertà; imperocchè il Maniscalco, posto in sulle
guardie dai tentativi d'insurrezione che venivano di quando in quando
succedendosi in parecchi punti, della Penisola, si faceva disprezzatore d'ogni
regola di morale e di giustizia, e li condannava arbitrariamente a domicilio
forzoso sotto la vigilanza immediata della Polizia.
All'alba del 23 novembre 1856,
il barone Francesco Bentivegna di Corleone, Salvatore Spinuzza di Cefalù ed
altri elettissimi patrioti inalberavano in Taormina la bandiera della libertà.
Non risposero alla santa chiamata che Mezzoiuso, Ciminna, Villafrate,
Ventimiglia e Cefalù: muti rimasero gli altri paesi di Sicilia. Non si
perdettero tuttavia di coraggio i capi dell'insurrezione, e quantunque le
soldatesche regie, comandate dai tenenti-colonnelli Marra e Ghio, in forte nerbo,
e un distaccamento di guardie rurali, specie di guardaboschi, capitanate dal
sindaco di Belfrate, si scagliassero contro di essi, si difesero strenuamente
per alcuni giorni, facendo pagare cara ai Borbonici la vittoria. Il Bentivegna,
Spinuzza, Luigi Pellegrino di Messina, i fratelli Nicola e Carlo Botta,
Alessandro Guarnera e Andrea Maggio di Cefalù, Francesco Bonafede di Gratteri
ed altri cadevano nelle mani dei vincitori. I palermitani Luigi La Porta e
Francesco Riso, il trapanese Mario Palizzolo e Vittorio Guarnaccio di Mezzoiuso
con pochi riuscirono a sfuggire dalle loro mani; alcuni di questi poterono
imbarcarsi per l'estero.
«Mi disseterò nel sangue dei
rivoluzionari» sclamò il Maniscalco, allorchè erasi in ogni luogo soffocata
l'insurrezione; e re Ferdinando disse contento: «La diplomazia ammirerà anco
una fiata la sagacia e la fortezza del mio governo.» Se non che gli sguardi
d'Europa tutta si rivolsero verso la sicula terra; la stessa diplomazia
pronunciò parole di compassione; e Ferdinando e Maniscalco capirono che ove si
fosse versato molto sangue, sarebbero stati messi al bando dei popoli,
avrebbero suscitato il corruccio di qualche potenza. Tuttavolta vollero sangue.
Francesco Bentivegna e Salvatore Spinuzza, il primo per sentenza d'un consiglio
di guerra, il secondo per quella della Corte marziale, erano fucilati il giorno
7 dicembre 1856. Altri venivano pur condannati a morte; ma rimessi alla
clemenza sovrana, la loro pena era commutata in diciott'anni di ferri
nell'orrido ergastolo di Favignana, o nella così detta fossa di Santa
Caterina14. Tutti gli altri, fatti pur segno dall'ira del despota,
venivano confinati per anni nelle più anguste prigioni a vivere vita miserrima.
Francesco Bentivegna apparteneva
sì ad un'illustre famiglia, ma era popolano di cuore. Natura lo dotava di anima
ardente ed avversa ad ogni tirannide. L'odio alla dominazione borbonica era in
lui un furore. Cospirò, e combattè per la libertà. Nella prigione, parlò poco,
pensò molto; senonchè la sua fronte fu sempre serena, l'anima tranquilla, il
cuore speranzoso della libertà italiana. Colà ebbe la visita della vecchia
madre e d'alcuni amici. Prima di morire chiese un sorso di caffè; non volle
essere bendato, e, scopertosi il largo petto, cadde ucciso dalle palle del
Borbone, gridando Viva l'Italia!
Salvatore Spinuzza aveva mente
avida di sapere, animo pietoso verso i bisognosi che spesso lo circondavano.
Niuno abborrì più di lui il dispotismo, niuno più di lui amò la libertà. Le
carceri, le incessanti sevizie, le scellerate persecuzioni di alcuni suoi
concittadini non gli fiaccarono l'animo, non ne indebolirono i forti propositi.
Giovane eroe, lo Spinuzza cadeva quando la patria abbisognava del sangue dei
suoi figli.
Non erano quasi scorse
ventiquattr'ore dacchè il Borbone si bruttava del sangue di que' due generosi,
quand'egli impallidiva innanzi alla baionetta di un giovine soldato.
Per antica costumanza, il giorno
otto dicembre, Ferdinando doveva passare una grande rassegna al campo di Marte.
Meglio di venti mila uomini, comandati dal tenente-generale Del Carretto, erano
sotto le armi. Il re, circondato da numeroso stato maggiore, si recava al
campo. Sfilavano i battaglioni di fanteria, quand'ecco dalla 7a
compagnia del 3° cacciatori, irrompeva un soldato; che, novello Scevola, con
baionetta spianata, con passo fermo, moveva innanzi al tiranno, lo colpiva alla
coscia, ritornava alla percossa ed avrebbe triplicato il colpo, se il conte don
Francesco della Tour, tenente-colonnello degli Usseri della Guardia Reale, veduto
il fatto, non si fosse spinto col cavallo sul soldato e stramazzato non lo
avesse al suolo15.
Quel cacciatore era Agesilao
Melano o Milano. Aveva sortito la vita nel 1830 da civile famiglia nel comune
di San Benedetto Ullano, nella Calabria Citra, uno dei villaggi appartenenti
alle colonie greche. Lo studio delle lingue e delle storie antiche gli aveva
nutrito di buon'ora un pronto ingegno ed infiammato il nobilissimo cuore. Fin
da giovinetto gli apparvero meravigliosi gli eroi delle Repubbliche di Grecia e
di Roma. Ogni loro detto e fatto gli diventò famigliarissimo; di tutta la
sapienza antica fece tesoro nella mente. Questo amore per le forti virtù e per
la grandezza degli antichi uomini liberi si accrebbe in lui nel collegio
Italo-Greco, ove recavasi a compire gli studi. Essendo scritto sul suo petto:
«Il giusto, il ver,
la libertà sospiro»
non poteva non mostrarsi qual fosse a' professori, mancipi
del despota. Le libere aspirazioni altamente esternava; cercava infonderle ne' compagni.
Ferdinando non sopportò tale propaganda, e in sull'aprire del 1848 lo fece
espellere dal collegio.
Da quel giorno in poi Agesilao
prese parte attivissima alle società segrete, e cospirò quanto più potè alla
cacciata dei Borboni da Napoli; e più d'una volta, facendo pur parte di bande
insurrezionali, si trovò in conflitto colle soldatesche del re. Un dì giurò di
togliere dalla terra quest'inumano uomo, e per meglio accostarlo, cinto e
ricinto com'era di baionette, nel maggio del 1856, si inscriveva fra le reclute
dell'esercito, e veniva destinato al 3° battaglione cacciatori, settima
compagnia. Nel servizio militare si mostrò puntualissimo; ma cercò sempre di
tenersi lontano dai compagni. Il dì della parata della Concezione, fu da lui
fissato per trarre a compimento il fatto disegno. La vigilia gli annunciarono
che non farebbe parte della rassegna. Agesilao si recava dal capitano Testa; e
tanto pregava che ne otteneva facoltà. Come fu gettato a terra dal
tenente-colonnello della Tour, a cui, per tal prodezza, venne conferita la
croce del R. Ordine di S. Ferdinando e del Merito, corsero in un battere
d'occhio molti gendarmi e soldati, i quali richiesero al Milano perchè avesse
voluto tentare la vita del re: esso imperterrito rispose loro: Per liberare la
terra da quel mostro. A questa risposta per piacere a Ferdinando volevano i
soldati ammazzare Agesilao sul luogo. Ma il re disse: Lasciatelo stare;
e fu consegnato ai gendarmi, che lo scortarono dal campo di Marte alle prigioni
in una carrozza.
Il Consiglio di guerra del
corpo, a cui presiedeva l'aiutante Pianell, venne tosto riunito. Questo gli
fece soffrire ogni orribile tortura perchè svelasse i complici. Rispose «aver
solo a complici le nefandità del Borbone.» Lo torturarono ancora in modo che
più non consentono essere narrati. «Io non ho altri complici che i delitti del
Borbone, rispondeva sempre alle reiterate domande.» Il Milano aveva fatto parte
anco della gran rassegna che il re costumava ordinare pel dì 8 settembre. Il
Consiglio lo interrogò perchè non avesse attentato alla vita del re in quel
giorno; al che egli rispose: «Il Borbone passa allora la rivista in carrozza,
io avrei dovuto tirargli una fucilata, e colpire un altro in sua vece, mentre
colla baionetta era sicuro del fatto mio.» Interrogato se fosse pentito
dell'azione, disse che «se avesse potuto ripeterla l'avrebbe eseguita
volentieri.» Vedendo come null'altro potevasi strappare dalle labbra del fiero
soldato, il Consiglio dannavalo alla forca col quarto grado di pubblico
esempio.
Il dì 13 dicembre 1856, alle
dieci e mezza, dopo la degradazione militare, il Milano, vestito dell'abito di
forza, a piedi scalzi, con appeso al petto un cartello che lo qualificava
parricida, doveva salire l'infame gibetto, eretto nel largo detto Cavalcatoio fuori
Porta Capuana. Egli vi trasse ritto, senza impallidire, nè senza jattanza; morì
gridando: Viva l'Italia! Narrasi che tanto eloquente mostrossi in
materie religiose, che i due frati che lo assistettero negli estremi istanti
l'udivano senza fiatare ed avevano cera di penitenti a fronte del condannato.
L'anima di Agesilao Milano era
pura, gentile come quella di fanciulla non mai uscita dalle braccia materne,
innamorata della virtù, d'ogni bella magnanima cosa. Come sì fiero proposito
vinse Agesilao? Contemplando il lagrimoso spettacolo della sua patria, non
iscorgendo che la potente ingiustizia, non udendo che singulti e gemiti, il suo
cuore sentì le angosce di tutti; credette in Ferdinando il sostegno e la causa
di tante calamità, la sua coscienza condannò quel monarca, e consacrò sè e
Ferdinando alla morte16.
Napoli al tristo fato di
Agesilao si commosse, e volle, nella mattina in cui doveva essere condotto
all'estremo supplicio, dimostrarlo coll'unico atto che le fosse permesso. Come
d'antico costume, i confratelli di Vertecoeli, un'ora prima che si
annunciasse l'aurora, si posero ad andare intorno per la città, chiedendo con
voci pietose l'obolo per celebrare la messa a suffragio del condannato. Mai
elemosina non fu più abbondante; mai non così spontanea, generale. Non vi fu
finestra che non si aprisse al grido della santa messa; cittadini d'ogni classe
gareggiarono a chi più avesse potuto gettare di danaro nella borsa dei
confratelli. Altri fatti da non tacersi sono i seguenti:
In Napoli vi ha un cimitero, il
quale conta trecentosessantacinque fosse; una appunto per ogni giorno
dell'anno. È il cimitero dei poveri e dei giustiziati. Ogni giorno si
dissuggella il coperchio di una di quelle fosse. All'indomani suggellano la
fossa di ieri e ne aprono un'altra, e così sempre. Avvenne che il giorno dopo
in cui Agesilao Milano fu giustiziato e sepolto, i becchini, venuti in quel
cimitero a dissuggellare altra fossa, trovarono che quella che avevano
suggellata il giorno prima era riaperta. Esterrefatti si peritano da prima ad
affacciarsi alla buca, poi si appressano, vi guardano dentro, e scorgono che il
cadavere di Agesilao era stato nella notte involato da quel luogo d'ignominia.
Dicono che riferito il fatto al Borbone ne avesse immenso terrore. La sua polizia,
ed era famosa, frugò, perquisì uomini e case, sguinzagliò tutti i segugi; le
migliaia di spie ebbero ordine di scoprire, di trovare almeno un indizio. —
Trovarono niente! E sì che un cadavere non è cosa che sia facile ad essere
trafugata, ed agevole a celarsi.
La salma di Agesilao era stata
collocata in onorato sepolcro.
La viltà e la paura auspicavano
al Borbone perchè era rimasto salvo nella vita. Bassi ed alti cortigiani
proposero di innalzare sul luogo una cappella alla Vergine in rendimento di grazie;
ma il Dio delle giustizie volle che il religioso edificio rimanesse incompiuto.
Frattanto che i più s'inchinavano davanti al fortunato superstite, un signore,
vestito a corrotto, si recò ad una delle principali e più frequentate chiese di
Napoli. Domandò del parroco e gli disse che avendo perduta persona a lui molto
cara, e ne portava il lutto, desiderava che piamente le fossero fatti splendidi
funerali, non badare a spesa di sorta, volere anzi pagare subito, ma la chiesa
al domani fosse tutta a gramaglia, con molto decoro di ceri, di musica, ed una
messa solenne fosse cantata per suffragare il defunto che egli piangeva. Il
parroco chiese allo sconosciuto signore chi fosse il suo parente. A questa
domanda l'interrogato rispose con un singhiozzo e tergendosi una lagrima; e
poi, quasi come chi sopraffatto da una grande passione non possa più proferire
parola, tratta una borsa di denaro la pose nelle mani del prete dicendogli.
«Per lei e pei poveri.» E s'incamminò. Ma poi sovvenendosi come di cosa dimenticata,
ritornato indietro, disse: — «Reverendissimo, non pensi al catafalco, che a
questo ho già provveduto; ella faccia parare la chiesa, e domani un'ora prima
verranno alcuni operai a rizzare la tomba dipinta a nuovo.» E partì.
Il reverendo rimase a contemplare
la borsa, che era molto pesante, e, fingendo commozione, disse: «Quel povero
signore è tanto addolorato che bisogna gli sia morto qualche stretto congiunto,
o padre o madre.» Il domani la chiesa era parata di nero. — Vennero alcuni
operai, portando tavole e telai dipinti cogli emblemi delle tombe, e drizzarono
nel mezzo un semplice ma alto e decoroso catafalco. Figurava una tomba di marmo
bianco a quattro lati. — Agli angoli quattro statue velate. Nei campi nessuna
iscrizione, nessun nome. All'ora convenuta si accendevano i cerei, e la messa
incominciava. Nell'istante solenne in cui le gravi note dell'organo intuonavano
il Deprofundis, le pareti della tomba, per un lume interno, diventavano
trasparenti, ed apparivano ai quattro lati, scritte in rosso, le seguenti
parole
AD AGESILAO MILANO
SOLENNI ESEQUIE.
Chi vi dirà il terrore dei
preti! Fu fatta ricerca dello sconosciuto; ma non fu mezzo a ritrovarlo.
Finchè in Napoli durò il governo
dei Borboni, gli spasimi di Agesilao continuarono, anche oltre la tomba, su
tutti i congiunti, su tutti quanti egli aveva avuto cari. Il Dittatore
Garibaldi, come fu a Napoli esercitò un atto di giustizia, ricordando con una
pensione la famiglia Milano.
Ecco il decreto pubblicato in
settembre nel 1860:
«Considerando sacra al paese la
memoria di Agesilao Milano, che con eroismo senza pari s'immolò sull'altare
della patria per liberarla dal tiranno che l'opprimeva, decreta:
1. È accordata una pensione di
ducati trenta al mese a Maddalena Russo, madre del Milano, vita durante a
contare dal primo ottobre prossimo;
2. È accordata una dote di
ducati duemila per ciascuna delle due sorelle del detto Milano. Questa somma
sarà investita in fondi pubblici a titolo di dote inalienabile, e consegnata
alle dette sorelle nel corso del prossimo ottobre.»
Questa pensione allarmò l'animo
dei pusilli, e taluni dissero che il Dittatore premiava con pubblico decreto il
regicidio. Da alcune città d'Europa si levò un grido di riprovazione, e molti
pensarono che il Garibaldi avrebbe dovuto accordare quella pensione
privatamente e senza un pubblico decreto. Francesco II, dalle mura di Gaeta,
protestò formalmente presso tutte le corti d'Europa, e fece udire al corpo
diplomatico come quelli che reggevano a Napoli la somma delle cose giungessero a
tanto da decretare una pensione alla madre ed alle sorelle d'un regicida. Ma
non fu immoralità, nè feroce sentimento che spinsero il Garibaldi a
sottoscrivere quel decreto, sibbene odio alla tirannide, sentimento di
riconoscenza, virtù che in lui primeggia verso chi ha dati tanti belli esempi
di sacrificio per vedere infranti i secolari ceppi della patria. Egli non
premiava il regicida; ma volgeva un pensiero ad una povera famiglia, che, fatta
bersaglio all'ira d'un despota, conduceva fra gli stenti una vita che fu sì
cara al povero Agesilao.
Con grande soddisfazione delle
corti d'Europa e dei retrivi quella pensione non doveva essere pagata per molto
tempo. Non erano quasi scorsi due mesi, che il Governo di Torino ne abrogava il
decreto, gettando la famiglia Milano in quella miseria da cui un atto benefico
l'aveva sottratta. Esso decretava invece pensioni ai Ghio, ai Marulli, ai
Marra, agli Spanzilli ed altrettali borbonici uccisori di libertà.
In Torino, nel 1857, un artefice
di cuore ritraeva le sembianze di Francesco Bentivegna e di Agesilao Milano
sopra una medaglia che qui riproduciamo; e l'avv. Giuseppe Del-Re, emigrato
napoletano, scriveva un Carme intitolato Agesilao Milano17.
I fatti che si svolgevano in
Sicilia ed in Napoli commossero altamente l'animo di Carlo Pisacane che
traboccò poi di sdegno, quando il Borbone, rifatto dalla paura, e reso vieppiù
esacerbato dall'esplosione di una polveriera e di una fregata per opera del
Comitato napoletano, volse l'animo alle maggiori repressioni, perseguitando
perfino i vecchi, le donne e i fanciulli18. Terenzio Mamiani aveva
detto: «un tiranno che opprime il suo popolo, le sacre carte confermano il
popolo nel sacro diritto di spegnerlo.» Vincenzo Gioberti aveva detto,
piangendo su i generosi Bandiera, che «meglio invidiava la loro sorte che la
potenza di re Ferdinando.» Il Pisacane pensò di proposito a siffatte sentenze,
e si convinse che la salute e la salvezza della patria stava appunto in ciò che
prima aveva gridato cagione di sua rovina.
Fin da quando era in Albaro,
aveva strette relazioni di congiure e di arditi disegni col Comitato Nazionale
che era in Napoli. Allora si poneva d'accordo col barone Giovanni Nicotera, il
quale aveva preso già parte a congiure. Esso abitava in Torino; quivi si recava
il Pisacane nei primi giorni di maggio del 1857, proponendogli un assalto
improvviso sul napoletano; e a renderlo certo della riuscita gli mostrava
lettere del Comitato. Il Nicotera aderiva. Con lui ed altri emigrati, fra i
quali Giovanni Battista Falcone, si concretavano i mezzi per una spedizione, e
veniva stabilita. Il Pisacane accettava di assumerne il comando, che a lui,
come a quello che di militari discipline era peritissimo, affidavano gli uomini
dell'emigrazione napoletana residente in Genova, e del partito d'azione.
Il Nicotera veniva nominato
luogotenente del Pisacane. Egli aveva 29 anni; era nato in San Biaso dal barone
Felice. I primi suoi studi li fece nel collegio di Catanzaro, ove Luigi Settembrini
gli aveva dato lezioni di belle lettere; studiò quindi l'avvocatura. Benedetto
Musolino, suo zio materno, capo della Giovine Italia nella Calabria, lo
aveva affiliato all'associazione mazziniana. Era stato nella cospirazione e
nella rivoluzione in cui perdettero la vita Domenico Romeo, Pietro Mazzoni e
Gaetano Ruffa ed altri nel settembre 1847. Nell'anno 1848, si distingueva nel
campo di Spezzano con altri prodi Calabresi; fu poi a Roma nel 184919;
quindi emigrò a Torino. — Prese parte a varie congiure, e nel 1856 veniva
incaricato dal Comitato Nazionale di Napoli di recarsi in Sicilia per valutare
il movimento tentato dal Bentivegna.
Prima di operare volle il
Pisacane di persona chiarirsi dello stato delle contrade meridionali e degli animi.
Affidandosi ad un passaporto e alla lingua inglese, che parlava perfettamente,
in sullo scorcio del maggio 1837, penetrava in Napoli, si affiatava con
parecchi amici, dai quali aveva l'assicurazione che il paese trovavasi in
condizioni tali da insorgere in un solo pensiero al benchè lieve impulso.
Teodoro Pateras, Luigi Dragone e Giuseppe Fanelli, dei più fervorosi del
Comitato, gli facevano inoltre solenni promesse di aiuti d'uomini e di danaro;
ma avrebbero desiderato tempo ancora. Se non che il Pisacane, allettato dalla
speranza che forme atletiche avrebbe preso l'insurrezione allo sbarco di gente
armata, non accondiscese a procrastinare l'esecuzione dello stabilito disegno,
e pregò il Comitato ad affrettarne le disposizioni. Egli era convinto che si
dovessero, avanti tutto, rivolgere gli sforzi alle terre del Cilento, terre di
poesia, di memorie di sventure. Ivi la libertà era sempre stata tenuta in
pregio, e i Cilentani per acquistarsela non avevano perdonato nè a fatiche, nè
a pericoli. Il carcere, l'ergastolo, l'esilio, il capestro, furono i mezzi che
la tirannide sempre usò per ispegnere nel loro cuore la fiamma di libertà; ma
dessi, anzichè spegnerla, non avevano fatto che ingrandirla e nobilitarla. A
ragione il Pisacane poteva avere certezza di pronti e potenti mezzi
rivoluzionari.
Ecco quanto ci scriveva (1864)
il Nicotera sugli accordi del Pisacane col Comitato napoletano: «Innanzi
operare, Carlo scrisse in diretta corrispondenza col Comitato di Napoli, ed
ebbe da questo le più larghe assicurazioni che il paese trovavasi in condizioni
tali da sorgere in un solo pensiero al benchè lieve impulso. Un tal Pateras gli
rimetteva un così detto piano militare, che in verità muoveva il riso,
che diceva studiato da lui in un viaggio nelle provincie di Salerno e di
Potenza (si è verificato poi che il Pateras non era mai stato in quelle
provincie); ed un certo Giuseppe Fanelli assicurava che tutti i quartieri della
città di Napoli erano preparati ad insorgere; che si era praticata una mina
sotto la caserma degli Svizzeri, e dava come possibile la sorpresa di
Sant'Elmo; per le quali cose si chiedeva un capo militare che fu scelto nella
persona di Enrico Cosenz.»
Sapri fu il punto fissato per lo
sbarco, e il giorno della partenza da Genova il 13 giugno dello stesso 1857; la
spedizione sarebbe stata aiutata da tentativi che il Mazzini avrebbe
arrischiati su Genova e sulla Toscana. Il giorno 9, il palermitano Rosolino
Pilo, altro dei congiurati, faceva collocare in una paranzella alcune armi, e,
accompagnato da venti giovani, partiva dalla spiaggia. Il Pilo doveva rimanere
in mare, sempre al largo una trentina di miglia, verso Portofino, sino al
giorno 13, e a un dato segno, trasportare le armi sul piroscafo che si sarebbe
sequestrato. In que' quattro giorni di attesa il mare si fece burrascoso in
modo che il giorno 12, il Rosolino dovette gettare le armi in acqua e
retrocedere in Genova. Il Pisacane rimase colpito alla notizia; riflettendo
come l'accaduto potesse essere causa di serî inconvenienti, decise di partire
subito per Napoli per avvisarne il comitato, e con esso combinare il tutto per
un altro giorno. Egli si servì per giungervi del passaporto che era stato
preparato per Cosenz, il quale, arrivato a Genova, mutò pensiero, e dichiarò di
non volersi più portare in Napoli. Il Pisacane quivi stette sino al giorno 15,
dopo d'aver tutto concertato col Fanelli, e preveduto perfino i disappunti.
Diamo luogo alla corrispondenza
che tenne Pisacane in allora, la quale dà maggior luce a quella sventurata
spedizione.
Lettere del Pisacane a Nicola
Fabrizi, scritte in casa del socio Dragone.
14 giugno 1857.
Procedimento energico del lavoro
in Napoli, mediante gli aiuti pecuniarii che potranno ottenersi; ricezione o
compra di armi, scegliendo il mezzo più pronto. Lavoro in Basilicata
sospingendola all'iniziativa, al più presto con spedire i capi, se li
domandano. — Continuare la pratica con le isole, nel modo il più sollecito
possibile. Coi moderati evitare ogni discussione, procedendo sempre ad
assimilarsi gli elementi d'azione, ed evitando ogni discussione di principî,
opponendosi occultamente con ogni mezzo alle dimostrazioni. Cedere alle loro
pretese di ammettere il grido di Costituzione (perchè l'avvenire è nostro) nel
solo caso che da questo dipendesse il fare o il non fare immediato. Contare
sempre, non come condizione indispensabile, ma come spinta (se necessaria) il
progetto delle isole, o uno sbarco di una cinquantina d'armati. Un proclama pei
cittadini e per la truppa, una specie di dichiarazione di principî d'affiggersi
sulle mura nel momento dell'azione. Spedire una barca nelle acque di
Pantelleria, con segnali convenuti, avvertirne a Niccola, comunicargli i
segnali, acciocchè spedisca in quelle acque le armi.
———
Napoli, 14 giugno 1857.
Amico carissimo. — Ho
abbracciato i nostri ottimi amici, io mi recai qui in Napoli temendo che la
disgrazia sopravvenuta20 avesse prodotto una catastrofe, dalla quale io
non voleva, nè doveva essere immune; ma fortunatamente la disgrazia avvenuta
non ha prodotto altri danni, se non quello della cosa stessa mancata. Ho visto
tutti, ho parlato con le cime, con coloro dai quali dipende l'azione, ho
trovato una grande quantità di ottimi elementi e più di quello che assicurava
il coscienziosissimo Kilburn21, manca, come egli dice, un centro
interno a cui questi elementi potessero indissolubilmente rannodarsi, ma non ci
è mezzo per crearlo, è da questo male che dipende la esuberante individualità,
non vi è che un sol rimedio, che il nostro operosissimo amico si tenga
strettamente unito con costoro, e si accrediti presso di loro coi mezzi di cui
noi dobbiamo fare ogni sforzo per fornirlo; egli lo può; avveduto e modesto
come è speriamo riuscire. Ci abbiamo segnata una linea di condotta, abbiamo
calcolato più o meno quello che potrà bisognare, il tempo necessario, il modo
d'iniziare, e ora è d'uopo che io e lui prefigendoci come scopo lo stabilito,
pieghiamo come si dovrà alle circostanze. Io sperava senza verun impulso
ottenere una immediata iniziativa, ma è stato impossibile22. Riguardo
ad armi abbiamo stabilito così: egli farà partire una barca inviandola nelle
acque di Pantelleria con stabiliti segnali; tu avuti questi segnali farai
partire immediatamente armi, e le dirigerai nel medesimo punto, ove avverrà il
trasbordo. Se questo non potesse avvenire, se tu non trovi il mezzo, come
inviarle, ed egli come riceverle, allora, previo consenso di Mazzini, io
crederei che la miglior cosa sarebbe di vender tutto e spedire il danaro a
Kilburn che gli sarà assai più utile che le armi depositate in Malta, giacchè
con danaro si faranno cose molto utili, anzi decisive, e si avranno anche armi.
Io domani parto per Genova; non so cosa sia avvenuto dopo la mia partenza; è
inutile dirti con quanta ansietà sono su tale riguardo. Ti prego dire a Calona
che ho tutto ricevuto, che lo ringrazierò, ma che non ho avuto tempo di farlo.
Addio.
———
Il Pisacane, ritornato a Genova,
si occupò subito della spedizione, e al Comitato di Napoli scrisse la seguente
lettera.
Genova, 23 giugno 1857.
Amico carissimo. — Trovai come
aveva già previsto, o immediato manopolio qui, o rifare il mancato. Il
materiale era stato rimpiazzato non già così abbondante come il perduto, ma più
di quello che io sperava. Gl'indugi impossibili per ragioni troppo lunghe ed
inutili a dirsi. Io ho accettato, e perchè accetto sempre quando trattasi di
fare, e perchè son convinto che questo è l'ultimo gioco che per ora si farà; e
se mai non cercheremo trarne il profitto possibile faremo tale errore che verrà
scontato con lunghissimo sonno. Noi ci siamo intesi su tutto. Il giorno
appresso alla partenza, sarà spedito il dispaccio a Derrata, se non ricevo da
voi altra indicazione. Quindi bisognerà prevenirlo, ed appena giunto fare
immediatamente quello che vi ho suggerito sul rapido cenno su Napoli. Come
ancora è cosa urgentissima, nel ricevere questa mia, se ieri non ne avete
ricevuta un'altra, che ho spedita all'indirizzo, di fare il possibile onde quelle
medesime persone si trovassero a quel medesimo luogo, e che il nostro amico
(Pateras) si portasse immediatamente in Basilicata, attenendosi a quanto fu
convenuto fra noi. Vi rimetto lo scritto da affiggersi, che io avrò
stampato, e che se potrò inviarvene un certo numero lo farò, ma sembrami cosa
molto difficile. Or vado a dirvi ciò che io spero dalla vostra lettera che
debbo ricevere.
1.° Indicazione più precisa per
l'invio del dispaccio, sia alla stessa persona, sia ad altra.
2.° La lettera di Agresti.
3.° Schiarimenti maggiori sulla località
di Ponza, che avrete avuto da quel tale indicato, e per lo stesso mezzo un
avviso che potreste spedire nel ricevere questa o la precedente a questa.
4.° La faccenda di armi in Malta
già in corso, barca già partita da Castellamare.
5.° Secondo il convenuto avrete
già almeno un cantaio di polvere, che potreste avere in tale circostanza.
Se nella vostra che ricevo
leggerò tutte queste cose sarò contentissimo. La lettera di cui vi parlo
diretta a Rizzo non la spedii: vi accludo varie lettere, voi le leggerete e
suggellerete, ma vi prego di consegnarle al loro indirizzo appena avrete
ricevuto il dispaccio, se tale merce non giunge è segno che il contratto non ha
avuto luogo, ma se giunge vi prego caldamente consegnarle a coloro ai quali
sono dirette, senza la benchè minima esitanza, aggiungendo a voce tutti i
possibili schiarimenti. Appena saprete il contratto conchiuso a Sapri spedite
quelle merci dispaccio. Finalmente se per caso in luogo di sapere la
conclusione del contratto per le merci Sapri, venisse a vostra conoscenza un
nostro disastro, spedite qui le merci, dispaccio all'indirizzo medesimo, ma con
queste altre così stabilite. La cambiale è stata rifiutata. Dunque queste merci
significano disastro, tutte le altre a vostra scelta, che non sieno queste,
vuol dire arrivo. Spero che la cosa vada, ma non possiamo essere certi di
nulla, voi continuate a lavorare alacremente su quelle basi, giacchè se per
imprevedibile eventualità ciò non avesse luogo, il monopolio di Genova è
inevitabile, e quindi la conseguenza immediata è il nostro contratto, dunque
comunque vadano le cose, ritenete che se il tutto non sfuma, la cosa avverrà
con differenza di pochi giorni. — Resta fisso che il nostro dispaccio vuol dire
cosa fatta. Attendo con ansia la vostra lettera, se dopo averla ricevuta vi è
cosa che importa, e sarò ancora in tempo vi spedirò una seconda lettera. Un
abbraccio a voi ed agli amici tutti, in particolare al socio (Dragone) ed una
stretta di mano alla moglie. — Abbiate in pronto i seguenti campioni. Giovedì
venticinque partenza. Domenica arrivo a Sapri. Salute e così sia.
—
Certo delle promesse avute,
speranzoso che le tradizioni avrebbero deste le popolazioni e rese pronte a
vendicarsi del Borbone, il Pisacane se ne viveva profondamente credente nell'efficacia
dei perigliosi tentativi. E la sera del 24, mentre tutto aveva stabilito cogli
amici Nicotera e Falcone, egli affidava alla carta il suo testamento politico,
riassumendo tutte le sue teorie in queste due parole: Libertà ed
Associazione.
Ecco il testamento.
«Nel momento d'intraprendere
un'arrischiata impresa, voglio manifestare al paese le mie opinioni, onde
rimbeccare la critica del volgo, corrivo sempre ad applaudire i fortunati e
maledire i vinti.
«I miei principi politici sono
abbastanza noti; io credo che il solo socialismo, ma non già i sistemi francesi
informati tutti da quell'idea monarchica e dispotica che predomina una nazione,
ma il socialismo espresso dalla formola Libertà ed Associazione, sia il
solo avvenire non lontano dell'Italia, e forse dell'Europa: questa mia idea la
ho espressa in due volumi, frutti di circa sei anni di studio; non condotti a
forbitura di stile per mancanza di tempo, ma se qualche mio amico volesse
supplire a questo difetto e pubblicarli, gliene sarei gratissimo. Sono convinto
che le ferrovie, i telegrafi, il miglioramento dell'industria, la facilità del
commercio, le macchine ecc. ecc., per una legge economica e fatale, finchè il
riparto del prodotto, è fatto dalla concorrenza, accrescono questo prodotto, ma
l'accumulano sempre in ristrettissime mani, ed immiseriscono la moltitudine;
epperciò questo vantato progresso non è che regresso; e se vuole considerarsi
come progresso, lo si deve nel senso che, accrescendo i mali della plebe, la
sospingerà ad una terribile rivoluzione, la quale, cangiando d'un tratto tutti
gli ordinamenti sociali, volgerà a profitto di tutti quello che ora è volto a
profitto di pochi. Sono convinto che l'Italia sarà libera e grande oppure
schiava: sono convinto che i rimedi necessari come il reggimento
costituzionale, la Lombardia, il Piemonte, ecc. ecc., ben lungi
dall'avvicinarla al suo risorgimento, ne l'allontanano; per me non farei il
minimo sacrificio per cangiare un Ministro, per ottenere una costituzione,
nemmeno per cacciare gli Austriaci dalla Lombardia ed accrescere il regno
Sardo: per me dominio di Casa Savoia o dominio di Casa d'Austria è precisamente
lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più
dannoso all'Italia che la tirannide di Ferdinando II. Credo fermamente che se
il Piemonte fosse stato retto nella guisa medesima degli altri Stati italiani,
la rivoluzione sarebbe fatta. Questo mio convincimento emerge dall'altro che la
propaganda dell'idea è una chimera, che l'educazione del popolo è un assurdo.
Le idee risultano dai fatti non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero
quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero. Che la sola opera che
può fare un cittadino per giovare al paese è quella di cooperare alla rivoluzione
materiale; epperò cospirazioni, congiure, tentativi, ecc., sono quella serie di
fatti attraverso cui l'Italia procede verso la sua meta. Il lampo della
baionetta di Milano fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti dai
dottrinari, che sono la vera peste del nostro, come di ogni paese.
«Alcuni dicono che la
rivoluzione deve farla il paese: ciò è incontestabile. Ma il paese è composto
d'individui, e poniamo il caso che tutti aspettassero questo giorno senza
congiurare, la rivoluzione non scoppierebbe mai; invece se tutti dicessero: la
rivoluzione dee farla il paese, di cui io sono una particella infinitesimale, e
però ho anche la mia parte infinitesimale da compiere, e la compio, la
rivoluzione sarebbe immediatamente gigante. Si potrà dissentire dal modo, dal
luogo, dal tempo di una congiura, ma dissentire dal principio è assurdo, è
ipocrisia, è nascondere un basso egoismo. Stimo colui che approva il congiurare
e non congiura egli stesso: ma non sento che disprezzo per coloro i quali non
solo non vogliono far nulla, ma si compiacciono nel biasimare e maledire coloro
che fanno. Con tali principi avrei creduto mancare a un sacro dovere, se
vedendo la possibilità di tentare un colpo in un punto, in un luogo, in un
tempo opportunissimo, non avessi impiegato tutta l'opera mia per mandarlo ad
effetto. Io non ispero, come alcuni oziosi mi dicono per schermirsi, di essere
il salvatore della patria. No: io sono convinto che nel Sud la rivoluzione
morale esista: sono convinto che un impulso, gagliardo può sospingerla al moto,
epperò il mio scopo, i miei sforzi sonosi rivolti a mandare a compimento una
congiura, la quale dia un tale impulso: giunto al luogo dello sbarco, che sarà
Sapri nel principato citeriore, per me, è la vittoria, dovessi anche perire sul
patibolo. Io individuo, con la cooperazione di tanti generosi, non posso che
far questo e lo faccio: il resto dipende dal paese e non da me. Non ho che i
miei affetti e la mia vita da sacrificare a tale scopo e non dubito di farlo.
Sono persuaso che se l'impresa riesce, avrò il plauso universale; se fallisce,
il biasimo di tutti: mi diranno stolto, ambizioso, turbolento, e molti, che mai
nulla fanno e passano la vita censurando gli altri, esamineranno minutamente la
cosa, porranno a nudo i miei errori, mi daranno la colpa di non essere riuscito
per difetto di mente, di cuore, di energia... ma costoro sappiano ch'io li
credo non solo incapaci di far quello ch'io ho tentato, ma incapaci di
pensarlo. A coloro poi che diranno l'impresa impossibile, perchè non è riuscita,
rispondo, che simili imprese se avessero l'approvazione universale non
sarebbero che volgari. Fu detto folle colui che fece in America il primo
battello a vapore; si dimostrava più tardi l'impossibilità di traversare
l'Atlantico con essi. Era folle il nostro Colombo prima di scoprire l'America,
ed il volgo avrebbe detto stolti ed incapaci Annibale e Napoleone, se fossero
periti nel viaggio, o l'uno fosse stato battuto alla Trebbia, e l'altro a
Marengo.
«Non voglio paragonare la mia
impresa a quelle, ma essa ha un testo comune con esse; la mia disapprovazione
universale prima di riuscire e dopo il disastro, e l'ammirazione dopo un felice
risultamento. Se Napoleone, prima di partire dall'Elba per isbarcare a Fréjus
con 50 granatieri, avesse chiesto consiglio altrui, tutti avrebbero
disapprovato una tale idea. Napoleone aveva il prestigio del suo nome; io porto
sulla bandiera quanti affetti e quante speranze ha con sè la rivoluzione
italiana; combattono a mio favore tutti i dolori e tutte le miserie della
nazione italiana.
«Riassumo: se non riesco,
dispregio profondamente l'ignobile volgo che mi condanna, ed apprezzo poco il
suo plauso in caso di riuscita. Tutta la mia ambizione, tutto il mio premio lo
trovo nel fondo della mia coscienza, e nel cuore di quei cari e generosi amici,
che hanno cooperato e diviso i miei palpiti e le mie speranze; e se mai nessun
bene frutterà all'Italia il nostro sagrificio, sarà sempre una gloria trovar
gente che volonterosa s'immola al suo avvenire.
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