V.
Verso le ore sei pomeridiane del
giorno 25 giugno 1857, Carlo Pisacane di Napoli, Giovanni Nicotera di San Biaso
(in Nicastro) e Battistino Falcone di Acri, (Calabria), seguiti da ventidue
prodi amici, sforniti di tutto, ma infiammati del santo amore di patria, si
imbarcavano, come passeggieri, sul Cagliari, piroscafo della Società
Rubattino, che da Genova faceva vela per Tunisi toccando la Sardegna. Niun
sospetto si nutriva su di essi; tranquillamente erano lasciati passare dai
Carabinieri e dalle Guardie di pubblica sicurezza, che la Questura, in sentore
di qualche tiro ardito, teneva non in poco numero sguinzagliati lungo il porto.
Quando furono lontani dal lido si gettavano sul capitano del battello, Antioco
Sitzia, e sui marinai, e colla forza li costringevano a cedere il comando,
racchiudendoli sotto coperta. Veniva al Sitzia rilasciata una dichiarazione
perchè potesse provare la sua innocenza su quanto stava per accadere. La
dichiarazione era firmata da Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera, Giovanni Battista
Falcone, Luigi Barbieri, Achille Pomari, Cesare Faridoni, Felice Poggi,
Giovanni Gagliani, Domenico Rolla, Cesare Cori, Federico Foschini, Lodovico
Negroni, Francesco Medusei, Giovanni Sala, Lorenzo Gianoni, Giuseppe Faielli,
Domenico Mazzoni, Giovanni Camillucci e Pietro Rusconi.
Il comando del Cagliari
era affidato a Giuseppe Daneri, capitano marittimo, che si trovava a bordo
diretto per la Sardegna, il quale accettava. Rosolino Pilo con una barca, piena
di armi e di polvere, anche questa volta, doveva, a venti miglia dalla
spiaggia, raggiungere la spedizione. Una fitta nebbia gli impediva di scorgere
il Cagliari, e, sconfortato, doveva riprendere terra, abbandonando tutto
il carico, il quale era catturato dall'Ichnusa, piroscafo, che il
Governo sardo, avvertito della spedizione, aveva mandato contro i congiurati.
Attesa invano, e dopo lunghe
ricerche, la barca del Pilo, sorse in alcuni il dubbio se convenisse, quasi
inermi, proseguire il viaggio, o procrastinarlo ancora. Pisacane, Nicotera e
Falcone decisero di continuare, essendo ormai il dado gettato. «Impareranno i
moderati, sclamò il Pisacane, come poche anime generose, sappiano iniziare
grandi fatti, armate d'un pugnale soltanto.»
Quindi egli dettava la seguente
dichiarazione:
«Noi qui sottoscritti, avendo
tutti congiurato, forti nella giustizia della nostra causa e nella gagliardia
del nostro animo, ci dichiariamo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se
il paese non ci asseconderà, noi senza maledirlo sapremo morire da forti,
seguendo la nobile falange dei Martiri italiani. Trovi altra nazione uomini
che, come noi, s'immolino per la loro libertà, ed allora solo potrà paragonarsi
all'Italia benchè sia tuttora schiava.
Carlo Pisacane, di
Napoli.
Giovanni Nicotera, di san
Biaso (in Nicastro).
Giov. Battista Falcone,
di Acri (Calabria).
Giovanni Gagliani, di
Milano.
Giovanni Sala, idem.
Amilcare Bonomi, idem.
Pietro Rusconi, di
Treviglio (Lombardia).
Carlo Rota, di Monza.
Luigi Barbieri, di Lerici
(Genovesato).
Lorenzo Gianoni, di
Genova.
Domenico Bolla, idem.
Gaetano Poggi, idem.
Felice Poggi, idem.
Cesare Faridoni, idem.
Domenico Porro, idem.
Francesco Medusei, idem.
Giuseppe Faielli, di
Parma.
Federico Foschini, di Ugo
(Romagna).
Luigi Conti, di Faenza.
Giuseppe Sant'Andrea, di
Bologna.
Cesare Achille Perucci,
di Ancona.
Cesare Cori, idem.
Domenico Mazzoni, idem.
Giovanni Camillucci,
idem.
Lodovico Negroni,
d'Orvieto.»
Mentre volgevano la prua verso
l'isola di Ponza, ove in orride prigioni stavano rinchiuse alcune centinaia
d'infelici condannati politici, al Nicotera veniva in pensiero di rovistare il
piroscafo se mai per avventura vi fossero armi. Sotto coperta discopriva sette
casse con 150 schioppi, che un armaiuolo genovese spediva a Tunisi, e poca
polvere, rimasta sul legno dall'epoca della guerra di Crimea. Non è a dire come
a quella scoperta giubilassero i generosi patrioti; trassero da questo lieto
pronostico pell'esito dell'impresa. Durante il viaggio essi si occuparono a far
cartucce, e a ventilare sempre più il disegno d'azione.
Il giorno 27, alle ore 4
pomeridiane, il Cagliari, con a poppa la bandiera piemontese, a prua una
piccola bandiera rossa, col pretesto di avarie, dava fondo innanzi a Ponza. Il
capitano del porto si recava a bordo per dar pratica al legno; ma a viva forza
era ritenuto prigione. In pari tempo il Pisacane con quattordici compagni,
essendo gli altri rimasti a guardia del battello, a mezzo delle lancie,
scendeva a terra ed assaltava il posto doganale, che si trovava sulla marina, e
lo disarmava; indi aggrediva la guardia dei Veterani, di là poco discosta;
qualche tiro di schioppo veniva scambiato; ma anco quella non tardava a cedere.
Il Pisacane guidava sollecito i compagni verso il forte. All'avanzarsi di lui i
trecento soldati di fanteria, che vi stavano di guarnigione, si attelavano a
battaglia; ma niuno in atto di minaccia. Gli ufficiali credevano che quel pugno
di gente fosse foriere di forte nerbo d'armati; essi si facevano incontro al
Pisacane, e chiedevano di essere trattati cogli onori di guerra. In pari tempo
Nicotera, Falcone e Daneri, pure unitosi ai congiurati, recavansi dal vecchio
comandante dell'Isola, il quale, accompagnato dalla moglie e dalle figliuole
piangenti, accostavasi a loro, e, non meno commosso della sua famiglia, impetrava
la vita. Il Nicotera gli rispondeva «consegnasse le armi e le chiavi delle
prigioni; nulla avessero a temere che non assassini, ma essere Italiani venuti
a combattere le guerre dell'indipendenza della patria.»
I soldati cedevano le armi; e
que' pochi arditi divenivano padroni dei destini dell'Isola di Ponza. I
relegati politici erano resi alla libertà; questi avrebbero tutti impugnate le
armi, se un tal De-Leo, udito come la spedizione non fosse fatta allo scopo
d'insediare a Napoli la monarchia del Murat, d'accordo col parroco dell'Isola,
non avesse insinuato loro a non imbarcarsi. Non contento di ciò il De-Leo
coglieva l'istante in cui niuno lo vedesse, balzava in una barca, e fuggiva a
Gaeta per riferire al governo dell'accaduto di Ponza. Pei tristi uffici di
questo scellerato, che in premio del suo spionaggio otteneva la condonazione
della pena e una licenza da farmacista, dei relegati se ne imbarcarono poco più
di quattrocento. I rimasti, meglio di seicento, rubarono gli schioppi che si
erano presi ai soldati e li vendettero per pochi carlini agli Isolani.
Verso la mezzanotte del 27 al
28, Pisacane, Nicotera, Falcone e i generosi compagni, quale novella falange
delle Termopili eubee, destinata anch'essa ad empire la storia dell'eco
dell'ultimo suo sospiro, muovevano intrepidi, fidenti per le regioni del
Cilento.
A convalidare quanto abbiamo
scritto di quei primi fatti, diamo luogo ad una particolareggiata narrazione
quale ci venne dettata da uno de' generosi che fecero parte della magnanima
impresa.
«Il giorno 25 giugno 1857, fu
definitivamente fissato per la partenza. Una barca, carica d'armi e munizioni,
partiva il 24, guidata da Pilo e da venti compagni; doveva stare al largo sino
al domani e raggiungerci nelle acque di Portofino. Gli uomini della spedizione
si recarono verso le sei del vespro sul piroscafo Cagliari. Chi fingeva
essere diretto per Tunisi, chi per Cagliari: chi andare per un interesse, chi
per un altro: mai una parola si scambiavano fra di loro: sembravano veramente
passeggieri che si trovassero colà a caso. Dopo due ore circa di cammino, ad un
segnale di Pisacane, che consisteva nel porsi in testa un berretto rosso,
ognuno si collocò al posto assegnato; ed al grido di viva l'Italia tutta
la gente del bordo venne sorpresa; si tolse il comando al capitano, e si affidò
a Giuseppe Daneri, genovese, pur capitano di marina, il quale trovavasi fra i
passeggieri. Tanto i marinai quanto i viaggiatori, vedendo gli uomini della
spedizione armati di pistole, furono presi da timore, credendoli pirati. Ma
bentosto furono rassicurati dalle parole del Pisacane, il quale, senza
particolareggiarglielo, disse loro a quale scopo avessero fatto quel tiro. La
calma ritornò in tutti; si mostrarono lieti; ed una donna, una tal Rosa
Mascherò, genovese, moglie d'un medico di Tunisi, sclamò: «Quand'è così, vi
auguro buona fortuna, e grido con voi viva l'Italia! viva la libertà!»
Prima cura fu quella di trovare la barca partita il giorno prima colle armi e
colle munizioni. Si fecero i convenuti segnali; ma invano. Finalmente alla
mezzanotte, dopo tre ore d'attesa, perduta ogni speranza, i congiurati stavano
perplessi sul da farsi, quando uno di essi, esaminando non a caso il giornale
di bordo vide che nel Cagliari si trovavano imbarcate sette casse di fucili da
caccia e due di tromboni. Riferita la cosa a Pisacane, questi, di conserva
coll'altro, si recò nella stiva, ed ivi rinvennero le armi segnate sul
giornale. Un grido di gioia echeggiò sul Cagliari: «Armi! armi! Ecco
trovato quel che ci mancava.» Il capitano del piroscafo pregava non si
toccassero quelle armi, perchè mercanzia a lui affidata; ma lo scopo a cui
dovevano servire non ammetteva consegna di sorta. Dopo le armi bisognava
pensare alla munizione: rovistato il bordo si trovò polvere e piombo. Allora la
coperta del bastimento fu tramutata in un arsenale. Chi faceva le cartucce, chi
fondeva le palle, la cui forma era stata fatta con due pezzi di mattoni, chi
metteva in sesto gli schioppi; insomma il giorno 26 passò in grande attività.
Allorchè il 27 si fu in vista dell'isola di Ponza vennero caricate le armi e
concertati i mezzi di prender terra. Giunti a poca distanza dell'Isola il
piroscafo si fermò, e fu chiamato il pilota col segnale all'albero di
trinchetto. Egli venne; ma richiesto salisse a bordo per condurre alcuni
marinai nel porto per far acqua, rispose non poterlo vietandoglielo le leggi
ivi vigenti. Fu fatto salire a forza.
«L'arrivo di un grosso vapore a
quell'Isola aveva attirato sul piccolo molo e sulla calata molta gente, ed
anche il comandante del porto e l'aiutante di piazza. Questi due militari,
tratti dalla curiosità, si erano con una barchetta avvicinati al piroscafo, e
veduto il pilota sul cassero lo sgridarono qual trasgressore delle leggi
sanitarie. E mentre parlavano anch'essi vennero presi, e fatti salire a bordo.
Lo stratagemma successe senza che que' di terra se ne accorgessero. Imperocchè
la scala per cui si ascendeva sul piroscafo, era nel fianco opposto a quello
presentato al porto. In mare era già pronto un drappello di congiurati, il
quale doveva recarsi dal comandante dell'Isola a domandare la permissione di
visitare il luogo; e fu appunto quel drappello che costrinse i due militari a
salire a bordo. Pisacane per viemmeglio ingannare i curiosi pregò la signora
Rosa Mascherò a starsene sul cassero. Il battello che conduceva i finti
passeggieri era a metà cammino, quando Pisacane, che dalla prora del bastimento
guardava con un canocchiale l'Isola, ad un tratto gridava: — «In mare le
imbarcazioni, e pronti. —» L'ordine fu eseguito in un batter d'occhio; eccetto
pochi, rimasti a guardia del vapore, i congiurati scendevano in mare; e innanzi
che la barchetta che precedeva fosse giunta alla casa sanitaria per presentare
le carte, Pisacane co' suoi era già sceso a terra in un luogo, ove aveva scorto
un sentiero che conduceva nella piazzetta del porto. Quivi giunto egli spiegò
la bandiera, che era portata da un giovinetto di 13 anni, mozzo del bastimento
(era un tal Demetrio Costa), e si diresse dov'era la guardia. La sentinella,
vedendo gente armata, fece fuoco, e cercò poscia di rinchiudersi coi compagni
entro la cancellata; ma non glielo permise la prontezza con cui Federico
Foschini pose la canna del fucile attraverso l'apertura del cancello. Il corpo
di guardia venne così invaso: i soldati furono tosto disarmati. In questo fatto
rimase morto l'ufficiale comandante il posto, colpito da un fendente mentre
cercava eccitare i soldati a far fuoco. Poscia furono disarmati i soldati
dell'altro corpo di guardia, e affondata in pari tempo la barca scorriera
(specie di barca doganale armata di piccola colubrina), e inchiodati i cannoni
della piazza. Questi fatti erano eseguiti da quindici uomini in poco più d'un
quarto d'ora. Ma il più mancava: il disarmamento della guarnigione, forte di
circa trecento uomini. Questi si erano rinchiusi entro il forte, munito di
cannoni; all'avvicinarsi di Pisacane fecero fuoco, ferendo Cesare Cori e
Lorenzo Acquarone, cameriere del piroscafo, il quale aveva seguito a terra la
spedizione. Vedendo come non lieve còmpito fosse quello della dedizione del
forte, il Nicotera pensò di far prigioniero il comandante, che fu condotto a
bordo e quivi costretto a firmare la resa della piazza: alle dieci circa
l'Isola era in potere dei congiurati. Allora Pisacane ordinò si armassero que'
relegati politici che volevano seguire la spedizione, i quali giunsero a più di
quattrocento.»
Sbarcavano i congiurati vicino
al villaggio di Sapri, posto nel golfo di Policastro, innalzando il grido di
libertà. Nessun eco rispondeva a quel grido: tutto era silenzio e tenebre.
Nessuno li aspettava, nessuno veniva ad incontrarli; gli uomini promessi dal
Comitato di Napoli non si scorgevano punto: qualche terriere li vedevano: ma
fuggivano spaventati. Attendevano tuttavia per lunga ora; infine perdevano ogni
speranza di soccorsi e di guida. L'inesecuzione delle solenni promesse fatte a
Pisacane dal Comitato, promesse che chiaramente risultano dagli scritti dati,
fu la precipua cagione della morte di que' generosi23.
Lo sbarco si era effettuato in
circa due ore poco lontano dal Casino Bianco, ove il Pisacane avrebbe dovuto
trovare gli uomini armati. Egli dispose la colonna in quest'ordine di cammino.
Gli imbarcati a Genova, a cui s'era unito anche Giuseppe Mercurio di Subiaco,
cameriere del Cagliari, vennero divisi in due squadre, metà di
avanguardia, comandata dal Nicotera, e metà di retroguardia, comandata dal
Falcone; i relegati formarono il centro, diviso in tre compagnie coi rispettivi
ufficiali, comandato dal Pisacane. Giunta la comitiva presso il Casino Bianco,
gridò, come di concerto: — Italia degli Italiani! a cui avrebbero dovuto
rispondere: E gl'Italiani per essa. — Niuna voce si fece udire. —
Entrata nel Casino, lo trovò deserto. Due guardia-coste fecero fuoco; ma
nessuno venne colpito. Imbattutasi nell'impiegato del telegrafo, lo fece
prigioniero; esso servì di guida sino a Sapri. Quivi pernottava; e la mattina
muoveva per a Torraca, ove giungeva a mezzodì del giorno 29. Il Pisacane sperò
che sarebbe accolto festosamente; ma non un volto amico: nessuno s'offrì di
seguirlo. Soltanto l'oste del Fortino, eretto lungo la strada che conduce a
Lagonegro24, disse al Pisacane che un po' più avanti avrebbe trovati i
compagni col barone Gallotti. Recatosi al Casino di costui trovarono un di lui
figlio, il quale non solo non fece delle vaghe promesse; ma chiese se si era
fatta la spedizione per conto del Murat. Quanto al barone, come seppe dello
sbarco di Sapri, recavasi subito dal Sotto-Intendente di Lagonegro, e dichiarò
che, essendo egli un attendibile politico, non voleva si fosse ritenuto
complice. Esiste nel processo, che seguì questi fatti, un certificato di quel
Sotto-Intendente in questi sensi. «Per verità il Gallotti non sapeva nulla
della spedizione, non aveva promesso nulla.»
«In quel tragitto, ci disse uno
della spedizione, patimmo tanta sete che credo fosse eguale a quella che
soffersero i Crociati.»
Pisacane, Nicotera e Falcone non
si perdettero di animo. Compresero anzi come fosse mestieri di ardite
risoluzioni; raccozzatisi, tennero fra loro un breve consiglio, e statuirono di
muovere per alla volta di Potenza. — Speravano ancora che il grido di libertà
avrebbe accesi gli animi a virili propositi. In essi non nacque punto il
pensiero che la tirannide avesse potuto attutire in quelle terre perfino
l'ebbrezza di riabbracciare i fratelli proscritti.
La sera del 30 giugno arrivavano
in Padula. Ivi pure non amici, non segni di rivoluzione; ma un paese atterrito.
E come la voce della vendetta gridava: all'armi, gli uomini o fuggivano
spaventati, o si nascondevano. I popoli più bellicosi, i più devoti a libertà,
quegli stessi che due volte in vent'anni, nel 1828 e nel 1848, osavano iniziare
la rivoluzione, si mostravano allora imbelli e timidi schiavi della paura. Le
sante ossa dei De-Luca, dei De-Mattia, dei Dei-Dominicis e dei Carducci
fremettero certo di sdegno. A Padula, il Pisacane e il Nicotera trovavano i
fratelli Sant'Elmo, i Romano ed altri, tutti cospiratori; parlavano loro,
facevano conoscere l'urgenza di armarsi: «Noi abbiamo mantenuta la parola,
dicevano: siamo qui, e voi che cosa faceste?» Promisero pel domani gente: ma il
domani non si presentò nessuno.
La voce dei fatti dell'isola di
Ponza e dello sbarco a Sapri erasi tosto sparsa pel regno, per opera del
traditore De-Leo. L'esecrato Ajossa, intendente della provincia salernitana,
senza porre tempo in mezzo, prendeva tutti quei provvedimenti che meglio
potevano valere ad impedire la riuscita d'un magnanimo proponimento. Spediva
avvisi a tutti i paesi, sul cui territorio avevano a passare gli sventurati,
ingiungendo di dar loro la caccia, come se fossero belve feroci, e di non
concedere loro clemenza. Battaglioni di cacciatori, di gendarmi e di urbani
vennero sguinzagliati. Le fregate a vapore della marina reale Amalia, Roberto,
Ruggero e Vesuvio, con soldati dell'11° cacciatori, ebbero ordine di
incrociare lungo le coste per guardarle da ogni sorpresa.
Nei fatti napolitani si trova
spesso citata la guardia urbana, come quella che prese parte alla repressione
d'ogni più nobile conato. Crediamo pregio dell'opera narrare come e di quali
elementi si componesse. La guardia urbana non era che una fazione armata, che
si reclutava fra i più improbi ed i più ignoranti sudditi devoti del Borbone;
ogni milite, prima d'essere iscritto nei registri, soggiaceva al più severo
scrutinio: i suoi atti, i suoi desideri, i suoi costumi erano accuratamente
scandagliati; nè bastava che egli fosse ardentissimo ammiratore del governo e
furibondo nemico del progresso civile: al soldato dell'ordine delle Due Sicilie
era pure mestieri d'essere improbo e malvagio. I comandanti di queste orde poi,
gli uomini preposti ad imperare su di esse in ciascun comune, dicevansi
capi-urbani, e dovevano avere mostrato con evidenti prove l'affetto sentito per
la casa dei Borboni ed i servigi a questa renduti. La guardia urbana era
costretta a sussidiare le milizie regolari ed a supplire alle medesime col
restare anche di guarnigione ove quelle non fossero. Ordinamento di partito fu
questo, non istituzione liberale, come si era fatto credere all'estero;
diramazione della polizia, la guardia urbana potevasi altresì considerare;
imperocchè compiutamente ed esclusivamente vedevasi soggetta al ministero di
polizia, ed i manigoldi che vi si facevano ascrivere non ricusassero qualunque
incarico di bargello, di spia ed anche di carnefice. Ricordava la guardia
urbana delle Due Sicilie i centurioni di papa Gregorio XVI, e serviva ad
appuntellare la tirannide borbonica, con più di trecentomila scellerati e
fanatici realisti, i quali, riuniti alle numerose soldatesche, ai mercenari
svizzeri, ai gendarmi, agli agenti di polizia, agl'impiegati, ai servili
magistrati, alla maggioranza del clero ed agli attivissimi gesuiti costituivano
la gran macchina governativa di cui era supremo regolatore Ferdinando II.
A viemmeglio nascondere il
nefasto intendimento dell'istituita guardia urbana delle provincie, si era
creata nella metropoli partenopea la guardia di sicurezza. Ottomila furono
gl'inscritti: i capitani formavano i registri, scegliendo i militi fra
gl'impiegati ed i possidenti, nè senza il consiglio della polizia: molti nobili
ne brigarono i gradi superiori per vaghezza di assisa, non per ispirito
militare o aspirazione patriottica: il comando supremo di questa guardia di
sicurezza fu affidato al principe di Salerno, Leopoldo di Borbone, zio del re,
già disfatto dagli anni e dalle intemperanze d'ogni genere. Sospettoso mai
sempre il re concesse ai militi di vestire elegantissima divisa, ma negò ad
essi le armi, che, deposte negli arsenali del Castello Nuovo, si distribuivano
nei giorni di esercizio dei singoli battaglioni, e subito dopo quei militari
ammaestramenti si riponevano nei regi depositi. In un sol giorno dell'anno
vedevasi tutta riunita la guardia di sicurezza, nella grande rassegna di
Piedigrotta, che avveniva l'otto settembre, giorno consacrato alla natività
della Vergine; ed in mezzo alle file, di quarantamila soldati indigeni e
stranieri, fedeli al re e devoti alla sua tirannide. Questa pomposa mostra, a
giorno determinato, e sotto lo sguardo di numerosi e distinti stranieri,
giovava allo scaltro Ferdinando per confermare l'Europa nella credenza che
felicissimi fossero i Napoletani, possedendo i Consigli rappresentativi delle
provincie, una Consulta di stato, l'organamento amministrativo moderno, una
sapiente e liberalissima legislazione, e perfino una milizia cittadina.
L'Europa non sapeva, o meglio non voleva sapere, che il re colla polizia, e la
più schifosa corruzione, calpestava le istituzioni, le leggi, i diritti, i doveri
e sostituiva l'arbitrio sfrenato, la sua volontà personale alla regolare azione
della monarchia temperata. La guardia urbana fu richiamata in vigore dal
ministro Del-Carretto, il quale, con arte veramente infernale, rivolse
quell'istituzione dei popoli civili e liberi a danno non della libertà, che non
esisteva a Napoli, ma delle semplici aspirazioni verso un migliore avvenire.
La guardia urbana di Sapri,
Torraca, Sala e di altri paesi, raccolta dal giudice di Torchiara, forte di
ottocento uomini, a cui si erano uniti duecento gendarmi, si schierava nel
piano di Padula per combattere i generosi. Spuntava l'alba dei 1.° luglio. I
volontari della libertà, comechè in molto minor numero e cinti dappertutto da
uomini a loro ostili, accettavano la lotta, e combattevano come sanno i
campioni d'una causa santa. Sgominati, sanguinosi, i Borboniani non potevano a
lungo resistere all'impeto della sacra falange, e fuggivanle dinanzi, lasciando
sul terreno parecchi morti, fra cui degli ufficiali. Invano, dopo la vittoria,
l'eroica legione cercava di che confortarsi: ogni porta, ogni finestra era
chiusa: essa doveva, cosa inaudita, soffrire la fame e la sete, là ove non
avrebbe dovuto trovare che abbondanza di tutto, che fraterne accoglienze. La
tirannide col suo terrore non solo il sentimento di patria, ma anco quello di
umanità aveva soffocato nel cuore di quei terrieri.
Mentre i generosi, adagiati
sotto gli alberi, rinfrancavano le forze, di cui avevano pur troppo abusato,
venivano d'un tratto scossi dal suono d'una fanfara. Erano le otto compagnie
del 7° battaglione cacciatori, mandate in soccorso degli urbani dall'intendente
Ajossa25. Comandavale il tenente-colonnello Ghio, quel desso che in
Sicilia aveva alcun mesi prima date prove d'inaudite barbarie. L'infame Ajossa
sapeva finamente scegliere fra gli ufficiali superiori dell'esercito,
napoletano, quelli che devotissimi erano al Falaride. Il Ghio, fatto generale,
alla testa di un corpo d'esercito, fuggiva vilmente nel 1860 innanzi ad una
mano di volontari guidati dal Garibaldi. Sempre così gli uomini della
tirannide: jattatori e crudeli nella vittoria: servi e vigliacchi nella
sconfitta!
I gendarmi e le guardie urbane,
all'inaspettato soccorso del 7.° cacciatori, vedendosi ormai otto volte
maggiori degli uomini che avevano da combattere, riprendevano animo, e si
ponevano sotto gli ordini del Ghio.
I generosi patrioti avanti alla
certa morte, non cercavano ritirarsi; ma come i trecenti Spartani, di pie'
fermo aspettavano il nemico, e come quelli facevano olocausto della vita
sull'altare della patria. A mezzogiorno cominciava il combattimento; gli uni
fatti arditi dal grosso numero e dall'avidità della carnificina, gli altri resi
magnanimi dal santo amore di libertà e dal pensiero che la loro morte sarebbe
di grande esempio a' fratelli e di rimorso ai mancatori delle date promesse.
Due ore continuava la battaglia; da ambo le parti il terreno era coperto di
morti. Il Ghio eccitava i suoi agli atti più crudeli; il Pisacane ed il
Nicotera cercavano quanto più potessero di risparmiare sangue fraterno.
Consumate le cartuccie, i valorosi devevano cessare il fuoco. Il Pisacane si
recava sulla linea difesa dal Nicotera, ove sventolava il vessillo nazionale;
e, sereno in volto, come uomo sicuro, risolveva aspettare l'avanzarsi del
nemico, e a quel posto pugnando di ferro, corpo a corpo, morire. «Noi morremo
da uomini, sclamava egli, abbiamo fatto quello che umanamente far si poteva per
aiutare questo disgraziato paese. Maledetti coloro che ci lasciano soli, ai
quali non basta nemmeno l'esempio per iscuotersi dal vergognoso sonno di nove
anni!» Il Nicotera proponeva invece di ritirarsi sui monti per ivi far guerra
ad oltranza ai satelliti di Ferdinando: «Chissà, diceva, il nostro sacrificio
potrà forse destare alfine i dormenti.» E con altre nobili ed eloquenti parole
induceva il Pisacane a rinunciare al fiero proposito. La ritirata cominciava
con ordine. Il Pisacane, silenzioso, rimaneva ultimo sul luogo, volgeva quindi
uno sguardo all'ingiro, e a lenti passi raggiungeva i compagni.
Nell'attraversare Padula, la
magnanima schiera veniva fatta segno alla più inaudita barbarie. Feroce e pazzo
popolo dalle finestre e dai tetti delle case scagliava sopra a' generosi,
sassi, suppellettili, quanto gli capitava nelle mani, ed innalzava gridi di
gioia al cadere di ogni Martire. Quasi un terzo della schiera sventurata si
sperperava; parecchi morivano lottando: altri finivano prigionieri: cinque di
questi, senza formalità di legge, cadevano uccisi per ordine del
tenente-colonnello Ghio.-Dei partiti da Genova morivano Lorenzo Gianoni e
Lodovico Negroni; venivano fatti prigionieri: Domenico Porro, Gaetano Poggi,
Giovanni Camillucci, Cesare Faridoni, Domenico Mazzoni e Felice Poggi; nonchè
Giuseppe Mercurio e Nicola Valletta. Novantasei dei più animosi superstiti di
Genova si raggruppavano intorno al Pisacane, al Nicotera, al Falcone; e,
sfidando il nemico, percorrevano lungo la pianura, ed ascendevano le montagne
di Buonabitacolo, nella valle di Diano. Il Pisacane diceva: «Il nostro dovere
lo abbiamo fatto, ora tentiamo ancora nel Cilento: se non ci riesce, e se non
troveremo modo di salvarci moriremo da forti.» Stanchi, digiuni, col cuore
sanguinante, erravano sino al tramonto del sole per que' monti, senza mai
trovare un pietoso che desse loro asilo. Il Falcone, giovine a ventun'anno,
bello di forme e di cuore, basiva per lassitudine fra le braccia del Pisacane.
I compagni gli erano attorno; lo confortavano con amorose cure; altro non
potevano, avendo invano picchiato alle capanne dei pastori. Alfine uno di
questi, nel cui cuore allignava un senso di pietà, scôrti gli sventurati, si
avvicinava loro; ed interrogato dei luoghi, segnava ad un'ora di cammino il
villaggio di Sanza, e s'offriva a servire di guida. Il cammino ricominciava.
Preceduti dal pastore, essi entravano in un bosco: guida e guidati si
smarrivano dopo poco tempo; eglino dovevano, incerti, vagare per tutta la
notte.
All'alba del 2 luglio scorgevano
Sanza, villaggio di cinquemila abitanti. Il drappello si era rimpicciolito,
giacchè parecchi perdutisi; pochi erano gli uomini armati di schioppi, ed anche
scarichi. I prodi spiegavano la bandiera nazionale, e si avanzavano gridando: Viva
l'Italia! viva la libertà!
I terrieri di Sanza a quegli
accenti, che avrebbero dovuto far palpitare ogni cuore, si levavano contro i
generosi: sono uomini e donne, vecchi e giovini, preti e monaci, armati tutti,
chi di schioppo, chi di scure, chi di coltello, chi di bastone, e, a gran
passi, mentre le campane suonavano a stormo, muovevano là dove erano quegli
schietti Italiani, che avevano tratto in una terra d'Italia a fare opera utile
alla patria comune, ed a ricevervi, così essendo scritto nei fatti, il
vilipendio e la morte. La stupida ed ignorante gente, aizzata ai più feroci
propositi dai preti e dai frati, non si tratteneva di piombare su i poveri
Martiri alle soavi e tenere parole che essi facevano suonare in mezzo alla
turba furente: — «Siamo vostri fratelli,» andavano dicendo gl'infelici. «Perchè
ci assassinate?... Noi siamo venuti a spendere la nostra vita per togliervi
dalla tirannia!» — Ma pur dovendosi difendere, e vedendo che vano tornava il
fraterno linguaggio, i pochi generosi non si atterrivano, ed affrontavano la
moltitudine pazza e scellerata. I rimasti dei regalati di Ponza, vedendo impossibile
la difesa, fuggivano precipitosamente. Pisacane, Nicotera e Falcone, con nove
degli imbarcati a Genova rimanevano, e, sospinti dal popolo furibondo, si
ritiravano in un burrone all'ingresso della borgata. Il Nicotera volava per
raggiungere i fuggenti, e ricondurli all'azione; ma tutto era vano; preferivano
cadere prigionieri; ed egli ritornava per morire cogli undici compagni.
Giungeva il Nicotera al luogo ove pochi istanti prima li aveva lasciati, e
trovava il Falcone supino a terra; poco più avanti il Foschini e il Barbieri.
Il Pisacane, sempre imperterrito, cercava ripassare un torrente, quando veniva
colpito dalla scure de' terrazzani, e tratto a morte crudele con colpi di forca
e di bastone. V'ha taluno che asserisce aver egli pronunciato mentre era
aggredito: «Voi siete assassini, mi derubate, ed ora mi uccidete: conducetemi
alla giustizia.» Il Nicotera con altri trenta circa, che aveva potuto ancora
raggranellare, si raccoglieva per continuare la difesa; infine, vedendo come
vano era ogni ulteriore conato, stava per raccogliere il cadavere del Pisacane
e ritirarsi in altro punto, quando una palla gli forava la destra: datosi ad
inseguire il feritore, tre fendenti di scure lo coglievano al capo, e cadeva in
una gora di sangue non lungi dall'amico. I relegati, che si consegnavano,
morivano sotto la scure di quella gente ubbriaca dopo essere stati disarmati e
spogliati di tutto. Ben si poteva scrivere sulle mura di Sanza come Agide:
«Passeggero, percorri l'Italia, e grida che i suoi figli morirono per la sua
libertà!»
Fra i morti erano: Domenico
Rolla, Giovanni Sala e Luigi Conti; fra i feriti: Giovanni Gagliani, Giuseppe
Faielli, Giuseppe Sant'Andrea, Cesare Achille Perucci, Carlo Rota e Pietro
Rusconi.
I prigionieri in numero di
ventinove, tutti grondanti sangue e nudi, fra i quali Giovanni Nicotera, a
furia di popolo, venivano sospinti entro il paese di Sanza. Diamo luogo alle
parole di uno dei superstiti di quelle ecatombi.
«Uno dei guardiani del campo,
finita la pugna, si aggirava tra le vittime, per constatarne la morte. Una di
esse, gli parve desse segno di vita. Tre fendenti di scure gli avevan fatto tre
larghe ferite nel capo: la mano destra giaceva inerte per una quarta ferita. Al
di lui fianco un largo cappello alla calabrese lo additava per uno dei capi
della spedizione. Era il barone Giovanni Nicotera, che giaceva supino e privo
di sensi. Il guardiano dava ordine ai suoi uomini di raccoglierlo e di
consegnarlo nelle mani della giustizia. Venne spogliato ignudo, deposto sopra
una barella e trasportato a Sanza. Lungo il tragitto, turbe d'infuriate megere
muovevano incontro al convoglio, in cerca delli briganti che volevano
ammazià u re. Il guardiano giungeva in tempo per salvarlo dalle furie, che
volevano scannare il catturato semivivo. I portatori, stanchi, a un certo punto
della via, deponevano la barella per riposare. Il guardiano si scostava alcuni
passi, e soggiungeva altro drappello di donne, armate di forche e di picconi,
le quali si affollavano intorno al Nicotera, e scaricavano sul di lui ignudo
corpo colpi spietati. Uno di questi colpi lo feriva al ventre e gli faceva
uscire l'ombelico; nè sarebbe stato l'ultimo se il guardiano tratto al rumore,
non salvava una seconda volta la vita del prigioniero. Il dolore della nuova
ferita aveva richiamato ai sensi il coraggioso Nicotera, svelandogli tutto
l'orrore della sua posizione. Ma la triste storia non era finita. All'ingresso
del paese altre megere infuriate assalivano il convoglio, e volevano
costringere il Nicotera a pronunciare: Viva u re! Egli raccoglieva un
supremo sforzo d'energia, e lieto d'aver occasione a finirla una volta, gridava
con quanta forza si sentiva ancora in gola: Morte al re! Le streghe gli
si precipitavano addosso, armate di coltello, e la sua vita era salva a stento
per la terza volta, dal guardiano. Chi era mai questo guardiano? Come fu
deposto sulla nuda terra in una stanzaccia del convento, il Nicotera riesciva
saperlo. Il guardiano gli stringeva la mano; gli faceva il segno dei carbonari,
e gli domandava se qualche cosa potesse fare ancora per lui. Credete che il
Nicotera gli domandasse qualche cosa per sè? No. Le sue uniche parole furono
queste: «— Scendi al campo, e cerca vicino al posto ov'io mi trovava, un uomo
basso, biondo, col cappello uguale al mio. Al fianco porta una borsa: dentro la
borsa sonovi alcune carte. Prendi tutte le carte e mettile in sicuro.»
«Poco dopo il guardiano
ritornava; aveva trovato l'uomo, il Pisacane; ma la borsa era vuota. I
saccheggiatori del campo ne avevano tolto i denari e sparpagliate le carte. Di
queste il guardiano aveva raccolte tutte quelle che gli fu dato vedere. E
sapete che cosa si trovasse tra quelle carte? Un foglio su cui erano scritti i
nomi dei cospiratori in tutte lettere; la prova più terribile che potesse
cadere nelle mani del governo borbonico. Quel foglio, e le altre carte
raccolte, furono preda delle fiamme prima che il Nicotera si trovasse a
contatto dei giudici.» —
Dal supplente al giudicato del
Circondario di Sanza Pier Antonio Rinaldi, facente funzione pel titolare in
accesso; assistito dal cancelliere sostituto Giovanni Pastore, il Nicotera ebbe
un primo interrogatorio. Egli era stato preso colle armi alla mano: la
fucilazione immediata era immancabile. Le sue risposte furono le seguenti:
Dimandato del motivo che diede
luogo al suo arresto, rispose:
«Che per gli affari politici del
1848 e 1849 emigrò dalla sua patria, rifugiandosi in Torino; quindi passò in
Genova, dove nel giorno 25 dello scorso giugno s'imbarcò con vari altri di
Genova istessa, recandosi in questo regno a promuovere una rivoluzione per
liberare la sua patria dalla tirannia, e propugnare la libertà.»
Dimandato chi fossero i compagni
coi quali partì da Genova, rispose «conoscere il solo Pisacane, ignorando il
nome degli altri.»
Dimandato chi avesse noleggiato
il piroscafo, dove, e a chi appartenesse, rispose «non saperlo, ma è certo che
per mezzo di un legno a vapore si recarono in questi luoghi a fare la
rivoluzione.»
Dimandato chi gli avesse
somministrato le armi e munizioni, rispose: «che rinvennero tutto sul piroscafo
e se le presero. — Altro non sapere.»
Dimandato se il Pisacane fosse
in loro compagnia, e dove si trovasse, rispose «essere giunti uniti in questo
comune, e ora dicesi di essere stato ucciso.»
Lettura data, disse: «non potere
sottoscrivere perchè ferito alla mano.»
Dopo quest'interrogatorio,
l'esecuzione non era più che questione di ore. Ma, in questo mezzo, giunse al
giudice un telegramma che annunciava la cattura del Cagliari, il
battello da cui era sbarcata la spedizione, cattura che rendeva necessaria una
procedura criminale. Il Nicotera, unico capo superstite della spedizione, non
poteva essere giustiziato sommariamente. Venne l'ordine di mandarlo a Salerno.
Il Cagliari era stato
catturato dalle fregate a vapore della marina borbonica Tancredi ed Ettore
Fieramosca, e condotto a Napoli. Capitano, macchinisti (Watt e Parks
inglesi), marinai, passeggieri, ed alcuni dei delegati di Ponza, che erano
rimasti sul cassero, vennero senza distinzione, gettati nelle prigioni della Vicaria.
Gli evasi da Ponza erano:
Michele Milano, di Napoli, Filippo Conte, di Caserta. Michelangelo Mario, di
Foggia, Salvatore Barberio, di Cosenza, Vincerzo Pafaro, di Catanzaro,
Francesco Gallo, di Catanzaro, Battista de Pascale, di Teramo, Giovanni
Parrillo, di Caserta, Carlo Lofata, di Sicilia, ed Eugenio Lombardo, di
Potenza.
Erano i prigionieri di Sanza da
circa due ore nel convento, quando arrivavano da Sapri due compagnie dell'11°
cacciatori. Gli ufficiali chiedevano del Pisacane, e, udito come non fosse fra
i presenti, comandavano che il Nicotera venisse accompagnato sul luogo, ove era
avvenuto il combattimento, affinchè cercasse riconoscerlo fra gli estinti. Già
sfinito per la perdita di molto sangue, il Nicotera doveva compire il tristo
ufficio. Il corpo del Pisacane era stato reso deforme; ma l'amico lo riconobbe
subito.
In Italia si serbò per qualche
tempo la speranza che Carlo Pisacane fosse scampato al macello de' suoi. Ma
quella speranza andò dileguando, e pur troppo non rimase che il conforto della
speranza di vendicarlo e di lavare ad un tempo l'Italia dalla vergogna di
averlo lasciato perire. E il sangue del generoso Martire e de' suoi compagni,
fu largamente vendicato dall'Eroe dei due Mondi, il quale mostrò altresì che se
la tirannide aveva per un istante soffocato nel cuore dei figli del mezzogiorno
l'amore di patria, essi avrebbero però saputo ritrovare, nella propria
coscienza, la forza di riaccenderlo più potente che mai. Tra le provvidenze del
Garibaldi, dopo quella risguardante i congiunti di Agesilao Milano, vuol essere
accennata l'altra relativa a quelli di Carlo Pisacane, come nuovo segno di
gratitudine verso chi perde la vita pugnando per la libertà. Il seguente
decreto fu uno dei primi atti del Dittatore:
«Considerando che è debito ed
obbligo di giustizia di un governo, interprete della gratitudine del paese,
riconoscere i grandi sacrifici fatti a pro della patria, ed il soccorrere le
vittime della tirannide, decretiamo; è accordata una pensione di ducati
sessanta al mese, vita durante, a contare dal 1° ottobre prossimo, a Silvia
Pisacane, figlia dell'eroico Carlo Pisacane, trucidato a Sanza mentre
combatteva per la liberazione dei fratelli, nel luglio 1857.»
Più tardi con offerte di popolo
veramente italiano, si eresse in Salerno alla memoria del Pisacane e dei suoi
compagni periti un monumento ricco di sante memorie. Esso innalzasi lungo la
maggiore passeggiata, in vicinanza del Golfo; il Martire di Sanza ha la destra
in atto di additare il cammino che dovevano i prodi seguire. È doloroso il
sapere come quel monumento non sia tenuto con quella devozione che dovrebbe
inspirare ai cittadini il Municipio di Salerno; esso è fatto segno a bisogni
che ci vergognamo di dire.
Altro monumento all'amico Pisacane
venne fatto innalzare nel 1872 da Giovanni Nicotera nel Cimitero di Napoli, a
Poggioreale. — Rappresenta un obelisco: in cima si vede lo Stemma di Roma colla
storica lupa, a dinotare il concetto dell'unità italiana, pel quale il Pisacane
cadde illustre vittima. Sulla base vi è un bassorilievo di bronzo; in esso si
raffigura il Pisacane ferito a morte, sostenuto fra le braccia del Nicotera. Di
fronte è la marina, e si vede il Cagliari. Il moribondo accenna colla
mano alla Stella d'Italia che sorge in lontananza.
Fu Carlo Pisacane ben composto
della persona, sebbene di breve statura; ebbe gentile l'aspetto, in cui ad un
dolce sorriso tutto suo si mesceva una temperata mestizia che carissimo lo
faceva a chi pur per la prima volta lo vedesse. Degli esercizi del corpo, e
specialmente della scherma, della ginnastica e dei cavalli, si dilettò oltre
ogni credere e vi fu eccellente; ne trasse vigore di membra non comune ed
operosità singolare. Quanto è delle qualità dell'animo, al coraggio e
all'impeto d'un eroe, aggiunse la dolcezza, l'affabilità, la modestia d'una
fanciulla. Fu di rara costanza nell'amicizia e nell'amore; tenace nel
proposito; benigno agli altri, severissimo a sè; di parsimonia e di temperanza
antica, e tanto più pregevole in lui educato fra molli agi e fra licenze
soldatesche; laborioso e amantissimo di studi gravi e che avessero in sè del
grande, si beava di contemplare ed ammirare la natura, e da quella traeva
argomento a profonde meditazioni e conforto e pace dell'anima. Amò sopratutto
la patria, e credette con ferma fede vicina l'ora del riscatto, e diede la vita
in testimonianza di quella credenza. Credette che l'Italia fosse non solo
grande in ogni nobile arte ed in ogni virtù e seconda a nessun popolo; ma
benanco a tutti maestra. E ne' suoi Saggi con moltissimo affetto si
adopera a mostrare come la terra nostra nulla abbia appreso dagli altri, tutto
insegnato, e possa di virtù propria e con proprie forze operare ogni più gran
cosa. Abbiamo già detto come fosse nelle cose militari peritissimo; il suo
naturale ingegno, accresciuto dallo studio, fu lucidissimo; e rese tutto quanto
riferivasi alla scienza militare assai facile alla comune intelligenza. Nella
questione che tutto abbraccia l'umano genere fu socialista; nella questione
italiana, inchinò innanzi tratto al federalismo; ma poscia abbracciò le
dottrine del Mazzini, l'unità della patria.
Non è mestieri che ci
diffondiamo in altre parole a celebrare Carlo Pisacane. La sua fama sfida le
miserabili ire di parte, le calunnie e il correre degli anni; vivrà eterna.
«Sì, scriveva un amico del Martire, finchè la libertà sia cara agli uomini,
finchè vi sia un italiano che ami l'Italia, finchè la virtù abbia culto e
memoria nel mondo, il tuo nome, fortissimo eroe, sarà benedetto e ripetuto con
ammirazione e con lode dagli uomini! Cesseranno i tiranni di essere salutati
col nome di grandi; ma tu, Carlo Pisacane, non cesserai di essere offerto ad
esempio del come degnamente per la patria si viva o si muora.»
Del Pisacane è superstite la
figlia Silvia che fu col cuore adottata dal Nicotera e dalla consorte di lui
signora Poerio, dopo la morte della signora D..., che, non meno del padre,
assai teneramente amava. Da Silvia i congiunti Nicotera sono corrisposti del
pari al grandissimo affetto che hanno per lei; ella volle dal dì in cui entrò
nella nuova famiglia formarne una sola nel petto, e chiamarsi
Pisacane-Nicotera. La signorina Silvia alle gentilezze della persona accoppia
un animo nobilissimo ed un intelletto ricco di sapere; la sua parola, i suoi modi
le caparrano d'un subito l'ammirazione di quanti l'avvicinano. Figlia di
Martire, ama immensamente la patria e la libertà, e per esse farebbe pur
sacrificio della vita.
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