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Felice Venosta
Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o La spedizione di Sapri

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V.

 

Verso le ore sei pomeridiane del giorno 25 giugno 1857, Carlo Pisacane di Napoli, Giovanni Nicotera di San Biaso (in Nicastro) e Battistino Falcone di Acri, (Calabria), seguiti da ventidue prodi amici, sforniti di tutto, ma infiammati del santo amore di patria, si imbarcavano, come passeggieri, sul Cagliari, piroscafo della Società Rubattino, che da Genova faceva vela per Tunisi toccando la Sardegna. Niun sospetto si nutriva su di essi; tranquillamente erano lasciati passare dai Carabinieri e dalle Guardie di pubblica sicurezza, che la Questura, in sentore di qualche tiro ardito, teneva non in poco numero sguinzagliati lungo il porto. Quando furono lontani dal lido si gettavano sul capitano del battello, Antioco Sitzia, e sui marinai, e colla forza li costringevano a cedere il comando, racchiudendoli sotto coperta. Veniva al Sitzia rilasciata una dichiarazione perchè potesse provare la sua innocenza su quanto stava per accadere. La dichiarazione era firmata da Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera, Giovanni Battista Falcone, Luigi Barbieri, Achille Pomari, Cesare Faridoni, Felice Poggi, Giovanni Gagliani, Domenico Rolla, Cesare Cori, Federico Foschini, Lodovico Negroni, Francesco Medusei, Giovanni Sala, Lorenzo Gianoni, Giuseppe Faielli, Domenico Mazzoni, Giovanni Camillucci e Pietro Rusconi.

Il comando del Cagliari era affidato a Giuseppe Daneri, capitano marittimo, che si trovava a bordo diretto per la Sardegna, il quale accettava. Rosolino Pilo con una barca, piena di armi e di polvere, anche questa volta, doveva, a venti miglia dalla spiaggia, raggiungere la spedizione. Una fitta nebbia gli impediva di scorgere il Cagliari, e, sconfortato, doveva riprendere terra, abbandonando tutto il carico, il quale era catturato dall'Ichnusa, piroscafo, che il Governo sardo, avvertito della spedizione, aveva mandato contro i congiurati.

Attesa invano, e dopo lunghe ricerche, la barca del Pilo, sorse in alcuni il dubbio se convenisse, quasi inermi, proseguire il viaggio, o procrastinarlo ancora. Pisacane, Nicotera e Falcone decisero di continuare, essendo ormai il dado gettato. «Impareranno i moderati, sclamò il Pisacane, come poche anime generose, sappiano iniziare grandi fatti, armate d'un pugnale soltanto

 

Quindi egli dettava la seguente dichiarazione:

 

«Noi qui sottoscritti, avendo tutti congiurato, forti nella giustizia della nostra causa e nella gagliardia del nostro animo, ci dichiariamo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non ci asseconderà, noi senza maledirlo sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange dei Martiri italiani. Trovi altra nazione uomini che, come noi, s'immolino per la loro libertà, ed allora solo potrà paragonarsi all'Italia benchè sia tuttora schiava.

 

Carlo Pisacane, di Napoli.

Giovanni Nicotera, di san Biaso (in Nicastro).

Giov. Battista Falcone, di Acri (Calabria).

Giovanni Gagliani, di Milano.

Giovanni Sala, idem.

Amilcare Bonomi, idem.

Pietro Rusconi, di Treviglio (Lombardia).

Carlo Rota, di Monza.

Luigi Barbieri, di Lerici (Genovesato).

Lorenzo Gianoni, di Genova.

Domenico Bolla, idem.

Gaetano Poggi, idem.

Felice Poggi, idem.

Cesare Faridoni, idem.

Domenico Porro, idem.

Francesco Medusei, idem.

Giuseppe Faielli, di Parma.

Federico Foschini, di Ugo (Romagna).

Luigi Conti, di Faenza.

Giuseppe Sant'Andrea, di Bologna.

Cesare Achille Perucci, di Ancona.

Cesare Cori, idem.

Domenico Mazzoni, idem.

Giovanni Camillucci, idem.

Lodovico Negroni, d'Orvieto

 

Mentre volgevano la prua verso l'isola di Ponza, ove in orride prigioni stavano rinchiuse alcune centinaia d'infelici condannati politici, al Nicotera veniva in pensiero di rovistare il piroscafo se mai per avventura vi fossero armi. Sotto coperta discopriva sette casse con 150 schioppi, che un armaiuolo genovese spediva a Tunisi, e poca polvere, rimasta sul legno dall'epoca della guerra di Crimea. Non è a dire come a quella scoperta giubilassero i generosi patrioti; trassero da questo lieto pronostico pell'esito dell'impresa. Durante il viaggio essi si occuparono a far cartucce, e a ventilare sempre più il disegno d'azione.

Il giorno 27, alle ore 4 pomeridiane, il Cagliari, con a poppa la bandiera piemontese, a prua una piccola bandiera rossa, col pretesto di avarie, dava fondo innanzi a Ponza. Il capitano del porto si recava a bordo per dar pratica al legno; ma a viva forza era ritenuto prigione. In pari tempo il Pisacane con quattordici compagni, essendo gli altri rimasti a guardia del battello, a mezzo delle lancie, scendeva a terra ed assaltava il posto doganale, che si trovava sulla marina, e lo disarmava; indi aggrediva la guardia dei Veterani, di poco discosta; qualche tiro di schioppo veniva scambiato; ma anco quella non tardava a cedere. Il Pisacane guidava sollecito i compagni verso il forte. All'avanzarsi di lui i trecento soldati di fanteria, che vi stavano di guarnigione, si attelavano a battaglia; ma niuno in atto di minaccia. Gli ufficiali credevano che quel pugno di gente fosse foriere di forte nerbo d'armati; essi si facevano incontro al Pisacane, e chiedevano di essere trattati cogli onori di guerra. In pari tempo Nicotera, Falcone e Daneri, pure unitosi ai congiurati, recavansi dal vecchio comandante dell'Isola, il quale, accompagnato dalla moglie e dalle figliuole piangenti, accostavasi a loro, e, non meno commosso della sua famiglia, impetrava la vita. Il Nicotera gli rispondeva «consegnasse le armi e le chiavi delle prigioni; nulla avessero a temere che non assassini, ma essere Italiani venuti a combattere le guerre dell'indipendenza della patria

I soldati cedevano le armi; e que' pochi arditi divenivano padroni dei destini dell'Isola di Ponza. I relegati politici erano resi alla libertà; questi avrebbero tutti impugnate le armi, se un tal De-Leo, udito come la spedizione non fosse fatta allo scopo d'insediare a Napoli la monarchia del Murat, d'accordo col parroco dell'Isola, non avesse insinuato loro a non imbarcarsi. Non contento di ciò il De-Leo coglieva l'istante in cui niuno lo vedesse, balzava in una barca, e fuggiva a Gaeta per riferire al governo dell'accaduto di Ponza. Pei tristi uffici di questo scellerato, che in premio del suo spionaggio otteneva la condonazione della pena e una licenza da farmacista, dei relegati se ne imbarcarono poco più di quattrocento. I rimasti, meglio di seicento, rubarono gli schioppi che si erano presi ai soldati e li vendettero per pochi carlini agli Isolani.

Verso la mezzanotte del 27 al 28, Pisacane, Nicotera, Falcone e i generosi compagni, quale novella falange delle Termopili eubee, destinata anch'essa ad empire la storia dell'eco dell'ultimo suo sospiro, muovevano intrepidi, fidenti per le regioni del Cilento.

A convalidare quanto abbiamo scritto di quei primi fatti, diamo luogo ad una particolareggiata narrazione quale ci venne dettata da uno de' generosi che fecero parte della magnanima impresa.

«Il giorno 25 giugno 1857, fu definitivamente fissato per la partenza. Una barca, carica d'armi e munizioni, partiva il 24, guidata da Pilo e da venti compagni; doveva stare al largo sino al domani e raggiungerci nelle acque di Portofino. Gli uomini della spedizione si recarono verso le sei del vespro sul piroscafo Cagliari. Chi fingeva essere diretto per Tunisi, chi per Cagliari: chi andare per un interesse, chi per un altro: mai una parola si scambiavano fra di loro: sembravano veramente passeggieri che si trovassero colà a caso. Dopo due ore circa di cammino, ad un segnale di Pisacane, che consisteva nel porsi in testa un berretto rosso, ognuno si collocò al posto assegnato; ed al grido di viva l'Italia tutta la gente del bordo venne sorpresa; si tolse il comando al capitano, e si affidò a Giuseppe Daneri, genovese, pur capitano di marina, il quale trovavasi fra i passeggieri. Tanto i marinai quanto i viaggiatori, vedendo gli uomini della spedizione armati di pistole, furono presi da timore, credendoli pirati. Ma bentosto furono rassicurati dalle parole del Pisacane, il quale, senza particolareggiarglielo, disse loro a quale scopo avessero fatto quel tiro. La calma ritornò in tutti; si mostrarono lieti; ed una donna, una tal Rosa Mascherò, genovese, moglie d'un medico di Tunisi, sclamò: «Quand'è così, vi auguro buona fortuna, e grido con voi viva l'Italia! viva la libertà!» Prima cura fu quella di trovare la barca partita il giorno prima colle armi e colle munizioni. Si fecero i convenuti segnali; ma invano. Finalmente alla mezzanotte, dopo tre ore d'attesa, perduta ogni speranza, i congiurati stavano perplessi sul da farsi, quando uno di essi, esaminando non a caso il giornale di bordo vide che nel Cagliari si trovavano imbarcate sette casse di fucili da caccia e due di tromboni. Riferita la cosa a Pisacane, questi, di conserva coll'altro, si recò nella stiva, ed ivi rinvennero le armi segnate sul giornale. Un grido di gioia echeggiò sul Cagliari: «Armi! armi! Ecco trovato quel che ci mancava.» Il capitano del piroscafo pregava non si toccassero quelle armi, perchè mercanzia a lui affidata; ma lo scopo a cui dovevano servire non ammetteva consegna di sorta. Dopo le armi bisognava pensare alla munizione: rovistato il bordo si trovò polvere e piombo. Allora la coperta del bastimento fu tramutata in un arsenale. Chi faceva le cartucce, chi fondeva le palle, la cui forma era stata fatta con due pezzi di mattoni, chi metteva in sesto gli schioppi; insomma il giorno 26 passò in grande attività. Allorchè il 27 si fu in vista dell'isola di Ponza vennero caricate le armi e concertati i mezzi di prender terra. Giunti a poca distanza dell'Isola il piroscafo si fermò, e fu chiamato il pilota col segnale all'albero di trinchetto. Egli venne; ma richiesto salisse a bordo per condurre alcuni marinai nel porto per far acqua, rispose non poterlo vietandoglielo le leggi ivi vigenti. Fu fatto salire a forza.

«L'arrivo di un grosso vapore a quell'Isola aveva attirato sul piccolo molo e sulla calata molta gente, ed anche il comandante del porto e l'aiutante di piazza. Questi due militari, tratti dalla curiosità, si erano con una barchetta avvicinati al piroscafo, e veduto il pilota sul cassero lo sgridarono qual trasgressore delle leggi sanitarie. E mentre parlavano anch'essi vennero presi, e fatti salire a bordo. Lo stratagemma successe senza che que' di terra se ne accorgessero. Imperocchè la scala per cui si ascendeva sul piroscafo, era nel fianco opposto a quello presentato al porto. In mare era già pronto un drappello di congiurati, il quale doveva recarsi dal comandante dell'Isola a domandare la permissione di visitare il luogo; e fu appunto quel drappello che costrinse i due militari a salire a bordo. Pisacane per viemmeglio ingannare i curiosi pregò la signora Rosa Mascherò a starsene sul cassero. Il battello che conduceva i finti passeggieri era a metà cammino, quando Pisacane, che dalla prora del bastimento guardava con un canocchiale l'Isola, ad un tratto gridava: — «In mare le imbarcazioni, e pronti. —» L'ordine fu eseguito in un batter d'occhio; eccetto pochi, rimasti a guardia del vapore, i congiurati scendevano in mare; e innanzi che la barchetta che precedeva fosse giunta alla casa sanitaria per presentare le carte, Pisacane co' suoi era già sceso a terra in un luogo, ove aveva scorto un sentiero che conduceva nella piazzetta del porto. Quivi giunto egli spiegò la bandiera, che era portata da un giovinetto di 13 anni, mozzo del bastimento (era un tal Demetrio Costa), e si diresse dov'era la guardia. La sentinella, vedendo gente armata, fece fuoco, e cercò poscia di rinchiudersi coi compagni entro la cancellata; ma non glielo permise la prontezza con cui Federico Foschini pose la canna del fucile attraverso l'apertura del cancello. Il corpo di guardia venne così invaso: i soldati furono tosto disarmati. In questo fatto rimase morto l'ufficiale comandante il posto, colpito da un fendente mentre cercava eccitare i soldati a far fuoco. Poscia furono disarmati i soldati dell'altro corpo di guardia, e affondata in pari tempo la barca scorriera (specie di barca doganale armata di piccola colubrina), e inchiodati i cannoni della piazza. Questi fatti erano eseguiti da quindici uomini in poco più d'un quarto d'ora. Ma il più mancava: il disarmamento della guarnigione, forte di circa trecento uomini. Questi si erano rinchiusi entro il forte, munito di cannoni; all'avvicinarsi di Pisacane fecero fuoco, ferendo Cesare Cori e Lorenzo Acquarone, cameriere del piroscafo, il quale aveva seguito a terra la spedizione. Vedendo come non lieve còmpito fosse quello della dedizione del forte, il Nicotera pensò di far prigioniero il comandante, che fu condotto a bordo e quivi costretto a firmare la resa della piazza: alle dieci circa l'Isola era in potere dei congiurati. Allora Pisacane ordinò si armassero que' relegati politici che volevano seguire la spedizione, i quali giunsero a più di quattrocento

Sbarcavano i congiurati vicino al villaggio di Sapri, posto nel golfo di Policastro, innalzando il grido di libertà. Nessun eco rispondeva a quel grido: tutto era silenzio e tenebre. Nessuno li aspettava, nessuno veniva ad incontrarli; gli uomini promessi dal Comitato di Napoli non si scorgevano punto: qualche terriere li vedevano: ma fuggivano spaventati. Attendevano tuttavia per lunga ora; infine perdevano ogni speranza di soccorsi e di guida. L'inesecuzione delle solenni promesse fatte a Pisacane dal Comitato, promesse che chiaramente risultano dagli scritti dati, fu la precipua cagione della morte di que' generosi23.

Lo sbarco si era effettuato in circa due ore poco lontano dal Casino Bianco, ove il Pisacane avrebbe dovuto trovare gli uomini armati. Egli dispose la colonna in quest'ordine di cammino. Gli imbarcati a Genova, a cui s'era unito anche Giuseppe Mercurio di Subiaco, cameriere del Cagliari, vennero divisi in due squadre, metà di avanguardia, comandata dal Nicotera, e metà di retroguardia, comandata dal Falcone; i relegati formarono il centro, diviso in tre compagnie coi rispettivi ufficiali, comandato dal Pisacane. Giunta la comitiva presso il Casino Bianco, gridò, come di concerto: — Italia degli Italiani! a cui avrebbero dovuto rispondere: E gl'Italiani per essa. — Niuna voce si fece udire. — Entrata nel Casino, lo trovò deserto. Due guardia-coste fecero fuoco; ma nessuno venne colpito. Imbattutasi nell'impiegato del telegrafo, lo fece prigioniero; esso servì di guida sino a Sapri. Quivi pernottava; e la mattina muoveva per a Torraca, ove giungeva a mezzodì del giorno 29. Il Pisacane sperò che sarebbe accolto festosamente; ma non un volto amico: nessuno s'offrì di seguirlo. Soltanto l'oste del Fortino, eretto lungo la strada che conduce a Lagonegro24, disse al Pisacane che un po' più avanti avrebbe trovati i compagni col barone Gallotti. Recatosi al Casino di costui trovarono un di lui figlio, il quale non solo non fece delle vaghe promesse; ma chiese se si era fatta la spedizione per conto del Murat. Quanto al barone, come seppe dello sbarco di Sapri, recavasi subito dal Sotto-Intendente di Lagonegro, e dichiarò che, essendo egli un attendibile politico, non voleva si fosse ritenuto complice. Esiste nel processo, che seguì questi fatti, un certificato di quel Sotto-Intendente in questi sensi. «Per verità il Gallotti non sapeva nulla della spedizione, non aveva promesso nulla.»

«In quel tragitto, ci disse uno della spedizione, patimmo tanta sete che credo fosse eguale a quella che soffersero i Crociati

Pisacane, Nicotera e Falcone non si perdettero di animo. Compresero anzi come fosse mestieri di ardite risoluzioni; raccozzatisi, tennero fra loro un breve consiglio, e statuirono di muovere per alla volta di Potenza. — Speravano ancora che il grido di libertà avrebbe accesi gli animi a virili propositi. In essi non nacque punto il pensiero che la tirannide avesse potuto attutire in quelle terre perfino l'ebbrezza di riabbracciare i fratelli proscritti.

La sera del 30 giugno arrivavano in Padula. Ivi pure non amici, non segni di rivoluzione; ma un paese atterrito. E come la voce della vendetta gridava: all'armi, gli uomini o fuggivano spaventati, o si nascondevano. I popoli più bellicosi, i più devoti a libertà, quegli stessi che due volte in vent'anni, nel 1828 e nel 1848, osavano iniziare la rivoluzione, si mostravano allora imbelli e timidi schiavi della paura. Le sante ossa dei De-Luca, dei De-Mattia, dei Dei-Dominicis e dei Carducci fremettero certo di sdegno. A Padula, il Pisacane e il Nicotera trovavano i fratelli Sant'Elmo, i Romano ed altri, tutti cospiratori; parlavano loro, facevano conoscere l'urgenza di armarsi: «Noi abbiamo mantenuta la parola, dicevano: siamo qui, e voi che cosa faceste?» Promisero pel domani gente: ma il domani non si presentò nessuno.

La voce dei fatti dell'isola di Ponza e dello sbarco a Sapri erasi tosto sparsa pel regno, per opera del traditore De-Leo. L'esecrato Ajossa, intendente della provincia salernitana, senza porre tempo in mezzo, prendeva tutti quei provvedimenti che meglio potevano valere ad impedire la riuscita d'un magnanimo proponimento. Spediva avvisi a tutti i paesi, sul cui territorio avevano a passare gli sventurati, ingiungendo di dar loro la caccia, come se fossero belve feroci, e di non concedere loro clemenza. Battaglioni di cacciatori, di gendarmi e di urbani vennero sguinzagliati. Le fregate a vapore della marina reale Amalia, Roberto, Ruggero e Vesuvio, con soldati dell'11° cacciatori, ebbero ordine di incrociare lungo le coste per guardarle da ogni sorpresa.

Nei fatti napolitani si trova spesso citata la guardia urbana, come quella che prese parte alla repressione d'ogni più nobile conato. Crediamo pregio dell'opera narrare come e di quali elementi si componesse. La guardia urbana non era che una fazione armata, che si reclutava fra i più improbi ed i più ignoranti sudditi devoti del Borbone; ogni milite, prima d'essere iscritto nei registri, soggiaceva al più severo scrutinio: i suoi atti, i suoi desideri, i suoi costumi erano accuratamente scandagliati; bastava che egli fosse ardentissimo ammiratore del governo e furibondo nemico del progresso civile: al soldato dell'ordine delle Due Sicilie era pure mestieri d'essere improbo e malvagio. I comandanti di queste orde poi, gli uomini preposti ad imperare su di esse in ciascun comune, dicevansi capi-urbani, e dovevano avere mostrato con evidenti prove l'affetto sentito per la casa dei Borboni ed i servigi a questa renduti. La guardia urbana era costretta a sussidiare le milizie regolari ed a supplire alle medesime col restare anche di guarnigione ove quelle non fossero. Ordinamento di partito fu questo, non istituzione liberale, come si era fatto credere all'estero; diramazione della polizia, la guardia urbana potevasi altresì considerare; imperocchè compiutamente ed esclusivamente vedevasi soggetta al ministero di polizia, ed i manigoldi che vi si facevano ascrivere non ricusassero qualunque incarico di bargello, di spia ed anche di carnefice. Ricordava la guardia urbana delle Due Sicilie i centurioni di papa Gregorio XVI, e serviva ad appuntellare la tirannide borbonica, con più di trecentomila scellerati e fanatici realisti, i quali, riuniti alle numerose soldatesche, ai mercenari svizzeri, ai gendarmi, agli agenti di polizia, agl'impiegati, ai servili magistrati, alla maggioranza del clero ed agli attivissimi gesuiti costituivano la gran macchina governativa di cui era supremo regolatore Ferdinando II.

A viemmeglio nascondere il nefasto intendimento dell'istituita guardia urbana delle provincie, si era creata nella metropoli partenopea la guardia di sicurezza. Ottomila furono gl'inscritti: i capitani formavano i registri, scegliendo i militi fra gl'impiegati ed i possidenti, senza il consiglio della polizia: molti nobili ne brigarono i gradi superiori per vaghezza di assisa, non per ispirito militare o aspirazione patriottica: il comando supremo di questa guardia di sicurezza fu affidato al principe di Salerno, Leopoldo di Borbone, zio del re, già disfatto dagli anni e dalle intemperanze d'ogni genere. Sospettoso mai sempre il re concesse ai militi di vestire elegantissima divisa, ma negò ad essi le armi, che, deposte negli arsenali del Castello Nuovo, si distribuivano nei giorni di esercizio dei singoli battaglioni, e subito dopo quei militari ammaestramenti si riponevano nei regi depositi. In un sol giorno dell'anno vedevasi tutta riunita la guardia di sicurezza, nella grande rassegna di Piedigrotta, che avveniva l'otto settembre, giorno consacrato alla natività della Vergine; ed in mezzo alle file, di quarantamila soldati indigeni e stranieri, fedeli al re e devoti alla sua tirannide. Questa pomposa mostra, a giorno determinato, e sotto lo sguardo di numerosi e distinti stranieri, giovava allo scaltro Ferdinando per confermare l'Europa nella credenza che felicissimi fossero i Napoletani, possedendo i Consigli rappresentativi delle provincie, una Consulta di stato, l'organamento amministrativo moderno, una sapiente e liberalissima legislazione, e perfino una milizia cittadina. L'Europa non sapeva, o meglio non voleva sapere, che il re colla polizia, e la più schifosa corruzione, calpestava le istituzioni, le leggi, i diritti, i doveri e sostituiva l'arbitrio sfrenato, la sua volontà personale alla regolare azione della monarchia temperata. La guardia urbana fu richiamata in vigore dal ministro Del-Carretto, il quale, con arte veramente infernale, rivolse quell'istituzione dei popoli civili e liberi a danno non della libertà, che non esisteva a Napoli, ma delle semplici aspirazioni verso un migliore avvenire.

La guardia urbana di Sapri, Torraca, Sala e di altri paesi, raccolta dal giudice di Torchiara, forte di ottocento uomini, a cui si erano uniti duecento gendarmi, si schierava nel piano di Padula per combattere i generosi. Spuntava l'alba dei 1.° luglio. I volontari della libertà, comechè in molto minor numero e cinti dappertutto da uomini a loro ostili, accettavano la lotta, e combattevano come sanno i campioni d'una causa santa. Sgominati, sanguinosi, i Borboniani non potevano a lungo resistere all'impeto della sacra falange, e fuggivanle dinanzi, lasciando sul terreno parecchi morti, fra cui degli ufficiali. Invano, dopo la vittoria, l'eroica legione cercava di che confortarsi: ogni porta, ogni finestra era chiusa: essa doveva, cosa inaudita, soffrire la fame e la sete, ove non avrebbe dovuto trovare che abbondanza di tutto, che fraterne accoglienze. La tirannide col suo terrore non solo il sentimento di patria, ma anco quello di umanità aveva soffocato nel cuore di quei terrieri.

Mentre i generosi, adagiati sotto gli alberi, rinfrancavano le forze, di cui avevano pur troppo abusato, venivano d'un tratto scossi dal suono d'una fanfara. Erano le otto compagnie del battaglione cacciatori, mandate in soccorso degli urbani dall'intendente Ajossa25. Comandavale il tenente-colonnello Ghio, quel desso che in Sicilia aveva alcun mesi prima date prove d'inaudite barbarie. L'infame Ajossa sapeva finamente scegliere fra gli ufficiali superiori dell'esercito, napoletano, quelli che devotissimi erano al Falaride. Il Ghio, fatto generale, alla testa di un corpo d'esercito, fuggiva vilmente nel 1860 innanzi ad una mano di volontari guidati dal Garibaldi. Sempre così gli uomini della tirannide: jattatori e crudeli nella vittoria: servi e vigliacchi nella sconfitta!

I gendarmi e le guardie urbane, all'inaspettato soccorso del 7.° cacciatori, vedendosi ormai otto volte maggiori degli uomini che avevano da combattere, riprendevano animo, e si ponevano sotto gli ordini del Ghio.

I generosi patrioti avanti alla certa morte, non cercavano ritirarsi; ma come i trecenti Spartani, di pie' fermo aspettavano il nemico, e come quelli facevano olocausto della vita sull'altare della patria. A mezzogiorno cominciava il combattimento; gli uni fatti arditi dal grosso numero e dall'avidità della carnificina, gli altri resi magnanimi dal santo amore di libertà e dal pensiero che la loro morte sarebbe di grande esempio a' fratelli e di rimorso ai mancatori delle date promesse. Due ore continuava la battaglia; da ambo le parti il terreno era coperto di morti. Il Ghio eccitava i suoi agli atti più crudeli; il Pisacane ed il Nicotera cercavano quanto più potessero di risparmiare sangue fraterno. Consumate le cartuccie, i valorosi devevano cessare il fuoco. Il Pisacane si recava sulla linea difesa dal Nicotera, ove sventolava il vessillo nazionale; e, sereno in volto, come uomo sicuro, risolveva aspettare l'avanzarsi del nemico, e a quel posto pugnando di ferro, corpo a corpo, morire. «Noi morremo da uomini, sclamava egli, abbiamo fatto quello che umanamente far si poteva per aiutare questo disgraziato paese. Maledetti coloro che ci lasciano soli, ai quali non basta nemmeno l'esempio per iscuotersi dal vergognoso sonno di nove anni!» Il Nicotera proponeva invece di ritirarsi sui monti per ivi far guerra ad oltranza ai satelliti di Ferdinando: «Chissà, diceva, il nostro sacrificio potrà forse destare alfine i dormenti.» E con altre nobili ed eloquenti parole induceva il Pisacane a rinunciare al fiero proposito. La ritirata cominciava con ordine. Il Pisacane, silenzioso, rimaneva ultimo sul luogo, volgeva quindi uno sguardo all'ingiro, e a lenti passi raggiungeva i compagni.

Nell'attraversare Padula, la magnanima schiera veniva fatta segno alla più inaudita barbarie. Feroce e pazzo popolo dalle finestre e dai tetti delle case scagliava sopra a' generosi, sassi, suppellettili, quanto gli capitava nelle mani, ed innalzava gridi di gioia al cadere di ogni Martire. Quasi un terzo della schiera sventurata si sperperava; parecchi morivano lottando: altri finivano prigionieri: cinque di questi, senza formalità di legge, cadevano uccisi per ordine del tenente-colonnello Ghio.-Dei partiti da Genova morivano Lorenzo Gianoni e Lodovico Negroni; venivano fatti prigionieri: Domenico Porro, Gaetano Poggi, Giovanni Camillucci, Cesare Faridoni, Domenico Mazzoni e Felice Poggi; nonchè Giuseppe Mercurio e Nicola Valletta. Novantasei dei più animosi superstiti di Genova si raggruppavano intorno al Pisacane, al Nicotera, al Falcone; e, sfidando il nemico, percorrevano lungo la pianura, ed ascendevano le montagne di Buonabitacolo, nella valle di Diano. Il Pisacane diceva: «Il nostro dovere lo abbiamo fatto, ora tentiamo ancora nel Cilento: se non ci riesce, e se non troveremo modo di salvarci moriremo da fortiStanchi, digiuni, col cuore sanguinante, erravano sino al tramonto del sole per que' monti, senza mai trovare un pietoso che desse loro asilo. Il Falcone, giovine a ventun'anno, bello di forme e di cuore, basiva per lassitudine fra le braccia del Pisacane. I compagni gli erano attorno; lo confortavano con amorose cure; altro non potevano, avendo invano picchiato alle capanne dei pastori. Alfine uno di questi, nel cui cuore allignava un senso di pietà, scôrti gli sventurati, si avvicinava loro; ed interrogato dei luoghi, segnava ad un'ora di cammino il villaggio di Sanza, e s'offriva a servire di guida. Il cammino ricominciava. Preceduti dal pastore, essi entravano in un bosco: guida e guidati si smarrivano dopo poco tempo; eglino dovevano, incerti, vagare per tutta la notte.

All'alba del 2 luglio scorgevano Sanza, villaggio di cinquemila abitanti. Il drappello si era rimpicciolito, giacchè parecchi perdutisi; pochi erano gli uomini armati di schioppi, ed anche scarichi. I prodi spiegavano la bandiera nazionale, e si avanzavano gridando: Viva l'Italia! viva la libertà!

I terrieri di Sanza a quegli accenti, che avrebbero dovuto far palpitare ogni cuore, si levavano contro i generosi: sono uomini e donne, vecchi e giovini, preti e monaci, armati tutti, chi di schioppo, chi di scure, chi di coltello, chi di bastone, e, a gran passi, mentre le campane suonavano a stormo, muovevano dove erano quegli schietti Italiani, che avevano tratto in una terra d'Italia a fare opera utile alla patria comune, ed a ricevervi, così essendo scritto nei fatti, il vilipendio e la morte. La stupida ed ignorante gente, aizzata ai più feroci propositi dai preti e dai frati, non si tratteneva di piombare su i poveri Martiri alle soavi e tenere parole che essi facevano suonare in mezzo alla turba furente: — «Siamo vostri fratelliandavano dicendo gl'infelici. «Perchè ci assassinate?... Noi siamo venuti a spendere la nostra vita per togliervi dalla tirannia!» — Ma pur dovendosi difendere, e vedendo che vano tornava il fraterno linguaggio, i pochi generosi non si atterrivano, ed affrontavano la moltitudine pazza e scellerata. I rimasti dei regalati di Ponza, vedendo impossibile la difesa, fuggivano precipitosamente. Pisacane, Nicotera e Falcone, con nove degli imbarcati a Genova rimanevano, e, sospinti dal popolo furibondo, si ritiravano in un burrone all'ingresso della borgata. Il Nicotera volava per raggiungere i fuggenti, e ricondurli all'azione; ma tutto era vano; preferivano cadere prigionieri; ed egli ritornava per morire cogli undici compagni. Giungeva il Nicotera al luogo ove pochi istanti prima li aveva lasciati, e trovava il Falcone supino a terra; poco più avanti il Foschini e il Barbieri. Il Pisacane, sempre imperterrito, cercava ripassare un torrente, quando veniva colpito dalla scure de' terrazzani, e tratto a morte crudele con colpi di forca e di bastone. V'ha taluno che asserisce aver egli pronunciato mentre era aggredito: «Voi siete assassini, mi derubate, ed ora mi uccidete: conducetemi alla giustizia.» Il Nicotera con altri trenta circa, che aveva potuto ancora raggranellare, si raccoglieva per continuare la difesa; infine, vedendo come vano era ogni ulteriore conato, stava per raccogliere il cadavere del Pisacane e ritirarsi in altro punto, quando una palla gli forava la destra: datosi ad inseguire il feritore, tre fendenti di scure lo coglievano al capo, e cadeva in una gora di sangue non lungi dall'amico. I relegati, che si consegnavano, morivano sotto la scure di quella gente ubbriaca dopo essere stati disarmati e spogliati di tutto. Ben si poteva scrivere sulle mura di Sanza come Agide: «Passeggero, percorri l'Italia, e grida che i suoi figli morirono per la sua libertà

Fra i morti erano: Domenico Rolla, Giovanni Sala e Luigi Conti; fra i feriti: Giovanni Gagliani, Giuseppe Faielli, Giuseppe Sant'Andrea, Cesare Achille Perucci, Carlo Rota e Pietro Rusconi.

I prigionieri in numero di ventinove, tutti grondanti sangue e nudi, fra i quali Giovanni Nicotera, a furia di popolo, venivano sospinti entro il paese di Sanza. Diamo luogo alle parole di uno dei superstiti di quelle ecatombi.

«Uno dei guardiani del campo, finita la pugna, si aggirava tra le vittime, per constatarne la morte. Una di esse, gli parve desse segno di vita. Tre fendenti di scure gli avevan fatto tre larghe ferite nel capo: la mano destra giaceva inerte per una quarta ferita. Al di lui fianco un largo cappello alla calabrese lo additava per uno dei capi della spedizione. Era il barone Giovanni Nicotera, che giaceva supino e privo di sensi. Il guardiano dava ordine ai suoi uomini di raccoglierlo e di consegnarlo nelle mani della giustizia. Venne spogliato ignudo, deposto sopra una barella e trasportato a Sanza. Lungo il tragitto, turbe d'infuriate megere muovevano incontro al convoglio, in cerca delli briganti che volevano ammazià u re. Il guardiano giungeva in tempo per salvarlo dalle furie, che volevano scannare il catturato semivivo. I portatori, stanchi, a un certo punto della via, deponevano la barella per riposare. Il guardiano si scostava alcuni passi, e soggiungeva altro drappello di donne, armate di forche e di picconi, le quali si affollavano intorno al Nicotera, e scaricavano sul di lui ignudo corpo colpi spietati. Uno di questi colpi lo feriva al ventre e gli faceva uscire l'ombelico; sarebbe stato l'ultimo se il guardiano tratto al rumore, non salvava una seconda volta la vita del prigioniero. Il dolore della nuova ferita aveva richiamato ai sensi il coraggioso Nicotera, svelandogli tutto l'orrore della sua posizione. Ma la triste storia non era finita. All'ingresso del paese altre megere infuriate assalivano il convoglio, e volevano costringere il Nicotera a pronunciare: Viva u re! Egli raccoglieva un supremo sforzo d'energia, e lieto d'aver occasione a finirla una volta, gridava con quanta forza si sentiva ancora in gola: Morte al re! Le streghe gli si precipitavano addosso, armate di coltello, e la sua vita era salva a stento per la terza volta, dal guardiano. Chi era mai questo guardiano? Come fu deposto sulla nuda terra in una stanzaccia del convento, il Nicotera riesciva saperlo. Il guardiano gli stringeva la mano; gli faceva il segno dei carbonari, e gli domandava se qualche cosa potesse fare ancora per lui. Credete che il Nicotera gli domandasse qualche cosa per ? No. Le sue uniche parole furono queste: «— Scendi al campo, e cerca vicino al posto ov'io mi trovava, un uomo basso, biondo, col cappello uguale al mio. Al fianco porta una borsa: dentro la borsa sonovi alcune carte. Prendi tutte le carte e mettile in sicuro

«Poco dopo il guardiano ritornava; aveva trovato l'uomo, il Pisacane; ma la borsa era vuota. I saccheggiatori del campo ne avevano tolto i denari e sparpagliate le carte. Di queste il guardiano aveva raccolte tutte quelle che gli fu dato vedere. E sapete che cosa si trovasse tra quelle carte? Un foglio su cui erano scritti i nomi dei cospiratori in tutte lettere; la prova più terribile che potesse cadere nelle mani del governo borbonico. Quel foglio, e le altre carte raccolte, furono preda delle fiamme prima che il Nicotera si trovasse a contatto dei giudici.» —

Dal supplente al giudicato del Circondario di Sanza Pier Antonio Rinaldi, facente funzione pel titolare in accesso; assistito dal cancelliere sostituto Giovanni Pastore, il Nicotera ebbe un primo interrogatorio. Egli era stato preso colle armi alla mano: la fucilazione immediata era immancabile. Le sue risposte furono le seguenti:

Dimandato del motivo che diede luogo al suo arresto, rispose:

«Che per gli affari politici del 1848 e 1849 emigrò dalla sua patria, rifugiandosi in Torino; quindi passò in Genova, dove nel giorno 25 dello scorso giugno s'imbarcò con vari altri di Genova istessa, recandosi in questo regno a promuovere una rivoluzione per liberare la sua patria dalla tirannia, e propugnare la libertà.»

Dimandato chi fossero i compagni coi quali partì da Genova, rispose «conoscere il solo Pisacane, ignorando il nome degli altri.»

Dimandato chi avesse noleggiato il piroscafo, dove, e a chi appartenesse, rispose «non saperlo, ma è certo che per mezzo di un legno a vapore si recarono in questi luoghi a fare la rivoluzione

Dimandato chi gli avesse somministrato le armi e munizioni, rispose: «che rinvennero tutto sul piroscafo e se le presero. — Altro non sapere

Dimandato se il Pisacane fosse in loro compagnia, e dove si trovasse, rispose «essere giunti uniti in questo comune, e ora dicesi di essere stato ucciso

Lettura data, disse: «non potere sottoscrivere perchè ferito alla mano

Dopo quest'interrogatorio, l'esecuzione non era più che questione di ore. Ma, in questo mezzo, giunse al giudice un telegramma che annunciava la cattura del Cagliari, il battello da cui era sbarcata la spedizione, cattura che rendeva necessaria una procedura criminale. Il Nicotera, unico capo superstite della spedizione, non poteva essere giustiziato sommariamente. Venne l'ordine di mandarlo a Salerno.

Il Cagliari era stato catturato dalle fregate a vapore della marina borbonica Tancredi ed Ettore Fieramosca, e condotto a Napoli. Capitano, macchinisti (Watt e Parks inglesi), marinai, passeggieri, ed alcuni dei delegati di Ponza, che erano rimasti sul cassero, vennero senza distinzione, gettati nelle prigioni della Vicaria.

Gli evasi da Ponza erano: Michele Milano, di Napoli, Filippo Conte, di Caserta. Michelangelo Mario, di Foggia, Salvatore Barberio, di Cosenza, Vincerzo Pafaro, di Catanzaro, Francesco Gallo, di Catanzaro, Battista de Pascale, di Teramo, Giovanni Parrillo, di Caserta, Carlo Lofata, di Sicilia, ed Eugenio Lombardo, di Potenza.

Erano i prigionieri di Sanza da circa due ore nel convento, quando arrivavano da Sapri due compagnie dell'11° cacciatori. Gli ufficiali chiedevano del Pisacane, e, udito come non fosse fra i presenti, comandavano che il Nicotera venisse accompagnato sul luogo, ove era avvenuto il combattimento, affinchè cercasse riconoscerlo fra gli estinti. Già sfinito per la perdita di molto sangue, il Nicotera doveva compire il tristo ufficio. Il corpo del Pisacane era stato reso deforme; ma l'amico lo riconobbe subito.

In Italia si serbò per qualche tempo la speranza che Carlo Pisacane fosse scampato al macello de' suoi. Ma quella speranza andò dileguando, e pur troppo non rimase che il conforto della speranza di vendicarlo e di lavare ad un tempo l'Italia dalla vergogna di averlo lasciato perire. E il sangue del generoso Martire e de' suoi compagni, fu largamente vendicato dall'Eroe dei due Mondi, il quale mostrò altresì che se la tirannide aveva per un istante soffocato nel cuore dei figli del mezzogiorno l'amore di patria, essi avrebbero però saputo ritrovare, nella propria coscienza, la forza di riaccenderlo più potente che mai. Tra le provvidenze del Garibaldi, dopo quella risguardante i congiunti di Agesilao Milano, vuol essere accennata l'altra relativa a quelli di Carlo Pisacane, come nuovo segno di gratitudine verso chi perde la vita pugnando per la libertà. Il seguente decreto fu uno dei primi atti del Dittatore:

 

«Considerando che è debito ed obbligo di giustizia di un governo, interprete della gratitudine del paese, riconoscere i grandi sacrifici fatti a pro della patria, ed il soccorrere le vittime della tirannide, decretiamo; è accordata una pensione di ducati sessanta al mese, vita durante, a contare dal ottobre prossimo, a Silvia Pisacane, figlia dell'eroico Carlo Pisacane, trucidato a Sanza mentre combatteva per la liberazione dei fratelli, nel luglio 1857

 

Più tardi con offerte di popolo veramente italiano, si eresse in Salerno alla memoria del Pisacane e dei suoi compagni periti un monumento ricco di sante memorie. Esso innalzasi lungo la maggiore passeggiata, in vicinanza del Golfo; il Martire di Sanza ha la destra in atto di additare il cammino che dovevano i prodi seguire. È doloroso il sapere come quel monumento non sia tenuto con quella devozione che dovrebbe inspirare ai cittadini il Municipio di Salerno; esso è fatto segno a bisogni che ci vergognamo di dire.

Altro monumento all'amico Pisacane venne fatto innalzare nel 1872 da Giovanni Nicotera nel Cimitero di Napoli, a Poggioreale. — Rappresenta un obelisco: in cima si vede lo Stemma di Roma colla storica lupa, a dinotare il concetto dell'unità italiana, pel quale il Pisacane cadde illustre vittima. Sulla base vi è un bassorilievo di bronzo; in esso si raffigura il Pisacane ferito a morte, sostenuto fra le braccia del Nicotera. Di fronte è la marina, e si vede il Cagliari. Il moribondo accenna colla mano alla Stella d'Italia che sorge in lontananza.

Fu Carlo Pisacane ben composto della persona, sebbene di breve statura; ebbe gentile l'aspetto, in cui ad un dolce sorriso tutto suo si mesceva una temperata mestizia che carissimo lo faceva a chi pur per la prima volta lo vedesse. Degli esercizi del corpo, e specialmente della scherma, della ginnastica e dei cavalli, si dilettò oltre ogni credere e vi fu eccellente; ne trasse vigore di membra non comune ed operosità singolare. Quanto è delle qualità dell'animo, al coraggio e all'impeto d'un eroe, aggiunse la dolcezza, l'affabilità, la modestia d'una fanciulla. Fu di rara costanza nell'amicizia e nell'amore; tenace nel proposito; benigno agli altri, severissimo a ; di parsimonia e di temperanza antica, e tanto più pregevole in lui educato fra molli agi e fra licenze soldatesche; laborioso e amantissimo di studi gravi e che avessero in del grande, si beava di contemplare ed ammirare la natura, e da quella traeva argomento a profonde meditazioni e conforto e pace dell'anima. Amò sopratutto la patria, e credette con ferma fede vicina l'ora del riscatto, e diede la vita in testimonianza di quella credenza. Credette che l'Italia fosse non solo grande in ogni nobile arte ed in ogni virtù e seconda a nessun popolo; ma benanco a tutti maestra. E ne' suoi Saggi con moltissimo affetto si adopera a mostrare come la terra nostra nulla abbia appreso dagli altri, tutto insegnato, e possa di virtù propria e con proprie forze operare ogni più gran cosa. Abbiamo già detto come fosse nelle cose militari peritissimo; il suo naturale ingegno, accresciuto dallo studio, fu lucidissimo; e rese tutto quanto riferivasi alla scienza militare assai facile alla comune intelligenza. Nella questione che tutto abbraccia l'umano genere fu socialista; nella questione italiana, inchinò innanzi tratto al federalismo; ma poscia abbracciò le dottrine del Mazzini, l'unità della patria.

Non è mestieri che ci diffondiamo in altre parole a celebrare Carlo Pisacane. La sua fama sfida le miserabili ire di parte, le calunnie e il correre degli anni; vivrà eterna. «Sì, scriveva un amico del Martire, finchè la libertà sia cara agli uomini, finchè vi sia un italiano che ami l'Italia, finchè la virtù abbia culto e memoria nel mondo, il tuo nome, fortissimo eroe, sarà benedetto e ripetuto con ammirazione e con lode dagli uomini! Cesseranno i tiranni di essere salutati col nome di grandi; ma tu, Carlo Pisacane, non cesserai di essere offerto ad esempio del come degnamente per la patria si viva o si muora

Del Pisacane è superstite la figlia Silvia che fu col cuore adottata dal Nicotera e dalla consorte di lui signora Poerio, dopo la morte della signora D..., che, non meno del padre, assai teneramente amava. Da Silvia i congiunti Nicotera sono corrisposti del pari al grandissimo affetto che hanno per lei; ella volle dal in cui entrò nella nuova famiglia formarne una sola nel petto, e chiamarsi Pisacane-Nicotera. La signorina Silvia alle gentilezze della persona accoppia un animo nobilissimo ed un intelletto ricco di sapere; la sua parola, i suoi modi le caparrano d'un subito l'ammirazione di quanti l'avvicinano. Figlia di Martire, ama immensamente la patria e la libertà, e per esse farebbe pur sacrificio della vita.

 




23 Sin da quando pubblicammo nel 1864 i fatti di Sapri ci fu presentato uno scritto firmato, come ci si affermava, dagli stessi, L. Zuppetta, G. Matina, N. Agresti, R. Laurelli, Nicola Mignogna, Filippo De-Boni, Nicola Fabrizi, Aurelio Saffi, Antonio Mordini, e F. Crispi, in cui, citando documenti, si dimostrava che Fanelli e Dragone in fatto di promesse portarono il dubbio insino allo scrupolo; che le loro vedute e i loro disegni accennavano a profonde meditazioni ed a previdenze di favorevoli risultati; che Mazzini e Pisacane, astretti dai loro progetti preordinati ed allettati dalla speranza che un diversivo qualunque potesse dare forme atletiche ai sincroni movimenti altrove preparati, operarono improvvisamente ed anticipatamente a ciò che gli accordi indicavano; che infine il disastro di Sapri dovevasi ascrivere ad una di quelle fatalità, che ogni popolo è condannato a subire come inesplicabile volere del cielo, e come prezzo anticipato della redenzione. Malgrado di un tale scritto, testimoni oculari, assicurano che Il comitato di Napoli mancò alla data parola.



24 Nel 1860 con religioso raccoglimento quivi si fermarono i Garibaldiani a contemplare il letto ove dormì il martire, Pisacane.



25 Affinchè i lettori abbiano una esatta cognizione del numero delle forze contro cui dovettero combattere i compagni dell'infelice Pisacane, accenniamo come i battaglioni di cacciatori nell'ex esercito borbonico fossero composti di otto compagnie dai 150 ai 160 uomini cadauna.






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