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Felice Venosta
Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o La spedizione di Sapri

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I.

 

Da Ferdinando il cattolico a Filippo IV, cioè dal 1500 al 1648, Napoli, sotto il dominio di Madrid, ebbe ventotto vicerè, i quali, rubando ad un tempo e per la Spagna e per sè stessi, avevano con ogni sorta di balzelli e di avanie ridotta nella più squallida miseria quella regione privilegiata da Dio delle più rare delizie della natura. Salito al trono, Filippo V vide come difficile gli tornasse conservarsi i possedimenti italiani; onde distaccava per sempre dalla sua corona il regno di Napoli, e lo dava a Carlo suo figliuolo, nato dalle nozze con Elisabetta Farnese. Il nuovo re si fece chiamare Carlo III, «per la grazia di Dio re del regno delle due Sicilie e di Gerusalemme, infante di Spagna, duca di Parma, gran principe ereditario della Toscana.» Disegnò le armi innestando alle nazionali delle due Sicilie tre gigli d'oro per la casa di Spagna, sei di azzurro per la Farnese e sei palle rosse per quella dei Medici. La bandiera volle bianca con in mezzo le torri di Castiglia ed il rinomato vello d'oro della monarchia spagnuola. Nel 1735, cioè un anno dopo che era stato insediato nel nuovo regno, Carlo, recatosi a Palermo, e convocati nel Duomo i tre ordini dello Stato, che costituivano l'assemblea nazionale della monarchia rappresentativa, fondata dai Normanni in Sicilia1, saliva sul trono, e, ponendo la mano sul Vangelo, ad alta voce giurava di mantenere i diritti del popolo, le ragioni del parlamento e i privilegi della città. — «Diciotto re, scrive La-Cecilia, avevano giurato anch'essi di mantenere e garantire le libertà rappresentative della Sicilia: tutti osservarono que' giuramenti; i successori di Carlo III, Ferdinando I, Francesco I e Ferdinando II giurarono anch'essi più volte di mantenere e garantire non solo le antiche istituzioni della monarchia di Sicilia, ma anche i nuovi patti costituzionali della moderna civiltà; i tre principi furono fedifraghi e spergiuri in faccia a Dio ed al popolo.» Dopo secoli di straniera servitù, nella più bella parte d'Italia, veniva costituito un regno indipendente, che i trattati delle primarie potenze d'Europa garantivano al ramo dei Borboni di Spagna, i quali presero da quel tempo il nome di Borboni di Napoli, a patto però che rinunciassero per sempre a riunire in una sola la corona delle due Sicilie e quella di Spagna e delle Indie.

Napoli sotto Carlo III godette d'un savio governo, Bernardo Tanucci di Stia nel Casentino (Toscana) ministro del re, dava tosto mano a riformare con ottime leggi lo Stato, a riordinare la finanza e ad emancipare la corona da tutte le usurpazioni e da tutti gli abusi della podestà ecclesiastica. Queste ultime radicali riforme sono le opere più sorprendenti di quel regno; imperocchè per incuria dei vicerè eransi talmente estesi i poteri della Chiesa, che il clero opprimeva i popoli ed imperava perfino sul governo. Infrenati i chierici, si pose mano sulle giurisdizioni ed immunità baronali. Si regolarono ed alleggerirono le imposte; si diede opera al catasto; per cui fu contento il popolo, e respirò; s'impinguò l'erario, e «soperchiando gl'introiti ai bisogni si pensò ai monumenti di grandezza.» Allora, come per incanto, sorsero palazzi, edifici, ospizi, teatri e monumenti d'ogni genere2.

Moriva il re Ferdinando II di Spagna senza prole, e lasciava vacante il trono a Carlo III. Ma non potendosi, come accennammo, pe' trattati riunire in una sola le corone di Spagna e di Napoli, Carlo decise porre quest'ultima corona sul capo del suo terzogenito, il fatale Ferdinando, fatale a sè, fatale al reame delle due Sicilie.

Come in quella di Spagna, costumavasi nella Corte di Napoli ad ogni giovine principe o principessa a dare un compagno coetaneo che con vocabolo spagnuolo chiamavasi il Menino. Divideva esso la tavola i giuochi, gli studi coi reali infanti; ma se questi commettevano fallo, egli doveva sopportarne le reprensioni, i castighi a pane ed acqua e perfino le frustate. Compagno di Ferdinando fu un tal Gennaro Rivelli, figlio della nutrice di lui, ragazzo robustissimo, brutto però e di istinti feroci, e dedito ai vizi. Ferdinando venne da costui iniziato a vita incresciosa, e con esso lui ebbe comuni gli istinti rozzi, plebei ed impuri. Finite le pompe dell'insediamento al potere reale, il giovine Ferdinando corse difilato dal Rivelli, e, tutto giubilante, sclamò, «Sai che sono re e posso fare ciò che voglio, e tu, fratello di latte, sarai luogotenente mio.» «E fu vaticinio reale! scrive La-Cecilia. E vennero i giorni in cui Rivelli fu luogotenente del re, ma di ferocissimi atti, di delitti spaventevoli e di lesa umanità.» Trascorsa una giovinezza nel più turpe modo che mai3, addì 12 gennaio 1767, compiendo gli anni sedici, età maggiorenne stabilita da Carlo, Ferdinando si faceva proclamare sovrano assoluto e libero delle due Sicilie; e un anno dopo si univa in matrimonio coll'orgogliosa e superba Maria Carolina d'Austria.

Al Rivelli si aggiunse allora l'inglese Giovanni Edoardo Acton, nome esecrabile per tutta l'italianità e per l'umanità intiera, immeritevole di nascere uomo. Chiamato dal Borbone a Napoli per istabilirvi la marineria, vi andò da Toscana l'anno 1779; divenne in breve volgere di tempo l'arbitro della mente del re, del cuore della regina, e per tali pratiche, giunto a spodestare dagli stalli ministeriali chiunque dimostrasse giustizia e pudore, sopra quella medesima scranna di dove Piero delle Vigne e Bernardo Tanucci erano discesi, si assise solo, dispotizzando del re, del regno, del popolo e di Dio.

Non importando punto allo scopo di questo scritto il narrare per filo e per segno delle sozzure a cui si abbandonò la regale coppia e il suo degno ministro4, salteremo a piè pari allo scoppio della grande rivoluzione francese, rivoluzione che proclamava i diritti dell'uomo, e che, gridando guerra mortale alla barbarie dei vecchi troni, chiamava i popoli tutti a nuova vita. Narratori delle iniquità dei principi, dei delitti contro la libertà, del martirio dei popoli, ci atteniamo soltanto a quella parte delle generali vicende che aiutono ad intendere l'opera gloriosa di coloro che per la patria tutto consacrarono.

Nel 1791, Ferdinando e Carolina, impauriti delle idee di Francia, eccitavano contro di esse l'odio delle turbe ignoranti, usando a ciò l'opera dei preti e dei frati, i quali, mutando in tribuna i pergami e i confessionali, a tutt'uomo predicavano contro gli ordini liberi. Anche le spie si affaccendavano a più potere; Carolina conferiva con esse nella reggia; magistrati, nobili, ecclesiastici si prestavano al cómpito infame. I libri di Gaetano Filangieri erano sbanditi e bruciati; vietati i giornali forestieri, vietate le adunanze dei dotti; e adoperata la frusta, come abbietti furfanti, contro i sospetti di essere amatori delle riforme francesi.

Il 4 ottobre 1794, Vincenzo Vitaliano, di ventidue anni, Emanuele De Deo, di venti, Vincenzo Galiano, di diciannove, gentiluomini per nascita, notissimi per ingegno, salivano il patibolo per avere, al giungere del navilio francese, comandato dall'ammiraglio Latouche, salutato con fervore la bandiera della libertà. Mentre i tre giovani versavano il loro nobilissimo sangue, le galere e le carceri si empirono d'ingegni preclari.

Le opinioni perseguitate diventano sentimenti; il sentimento produce l'entusiasmo, l'entusiasmo si comunica in ogni classe; onde le opinioni perseguitate si fanno generali e trionfano. Il sangue di quei primi Martiri della libertà eccitò sdegno ed amore di vendetta; il numero di quelli che odiarono gli ordini antichi andò semprepiù crescendo; e quello che prima era amore di riforma diventò desiderio ardente di libertà. Quindi nuove persecuzioni e nuovi martiri.

Nel 1798, essendosi i Francesi, guidati da Championnet, impadroniti di Roma, la fama della Repubblica, inaugurata in Campidoglio, venne più tremenda che mai a disturbare i sonni di Ferdinando e di Carolina. Per cui, a malgrado della neutralità promessa all'ammiraglio Latouche, addì 22 novembre di quell'anno, con un manifesto, il re dichiarava essere deciso a muovere col suo esercito per conquistare al papa le terre che i Francesi gli avevano tolte. E, senza porre tempo in mezzo, irruì negli Stati romani con cinquantamila uomini, capitanati dal tedesco Mack; e, camminando a grandi giornate, giunse a Roma il 29 novembre medesimo. All'avvicinarsi dei Napoletani, i Francesi, vedendosi in piccolo numero, si ritirarono da quella città, e con esso loro la più parte degli amatori della Repubblica.

«Ma alcuni di questi, scrive il Colletta, confidenti alle regali promesse di clemenza o arrischiosi o dal fato prescritti, restarono: e nel giorno istesso furono imprigionati o morti; due fratelli di nome Corona, napoletani, partigiani di libertà, rimasti con troppa fede al re, furono, per comando di lui, presi ed uccisi. La plebe, scatenata sotto velo di fede a Dio e al pontefice, spogliò case, trucidò cittadini, affogò nel Tevere molti Giudei: operava disordini gravi e delitti.»

Championnet, raccolte tutte le milizie che qua e là aveva, sconfisse da ogni parte il nemico; gli tolse molte armi e bandiere; e, da assalito divenendo assalitore, mosse colle sue genti per alla volta di Napoli. Il re e la regina, non vedendosi nella metropoli più sicuri, ai 21 dicembre 1798 partirono per la Sicilia, recando seco le suppellettili più preziose dei reali palazzi, tutte le ricchezze dei musei, non che quelle dello Stato, cento milioni di lire, e lasciando il regno senz'ordine, senza leggi, e nella miseria. Non contento di ciò, volle Ferdinando, per soprassello, impartire barbarissime disposizioni, fra cui quella di abbruciare le navi dell'arsenale e dei porto, perchè non andassero in mano ai Repubblicani. E due vascelli, tre fregate e centoventi barche cannoniere furono arse in cospetto della città, che rimase mesta e costernata da quel tristo spettacolo.

Il generale francese, dopo fiera battaglia, e molte stragi, ai 23 gennaio 1799, entrò vittorioso in Napoli, e proclamò la Repubblica Partenopea. Mentre i buoni sostenevano i nuovi ordini della libertà e adoperavano ogni più onesto e generoso modo, i tristi facevano studio di male arti per rinsediare in trono la tirannide e la barbarie. Uomini di cattivo ingegno, ladri, assassini si posero alla testa della controrivoluzione nelle provincie. Essi erano chiamati amici ed onorati da Ferdinando e da Carolina; ad essi si rivolsero i preti, i frati, i vescovi e gli altri amici del dispotismo; e ad essi fu anima e capo il cardinale Fabrizio Ruffo, uomo che lasciò di sè fama scelleratissima. Assuntosi quel porporato di sommuovere le Calabrie contro i Repubblicani, sbarcò sul lido calabrese nel febbraio di quel medesimo anno 1799; raccolse intorno a sè malfattori e masnadieri in gran copia, e ne compose un esercito che chiamò della Santa Fede; donde venne poscia il nome di Sanfedisti a tutti i più perversi retrivi. Il Ruffo s'impadronì di molte città calabresi; eppoi si diresse a Cotrone5 ove, in nome della religione e del diritto divino dei re, fece nefandità non mai più udite. Tutti gli amanti di Repubblica vennero tratti a morte, anche negli altri luoghi in cui l'esercito della Santa Fede entrava vittorioso; e fra questi, la sera del 24 febbraio, Giovanni Andrea Serrao, vescovo di Potenza, uomo veneratissimo per dottrina, per vera religione e per santità di costumi.

I Repubblicani resistettero valorosamente, in sulle prime, alle orde del cardinale Ruffo; ma il combattimento era in armi dispare; e però non poterono a lungo resistere.

Il Ruffo, dopo essere passato su mucchi di cadaveri de' suoi e dei Repubblicani, attraverso alle fiamme, ai saccheggi e le rovine, più coll'inganno che colle sue preponderanti forze, a cui si erano uniti e Russi e Turchi, potè entrare in Napoli il 13 giugno; e dopo giorni di ecatombi, il 30, alla rada, protetto dall'armata inglese, condotta dall'ammiraglio Nelson, giunse pure re Ferdinando. Suo primo cómpito fu quello di promulgare una legge contro i rei di Stato, in forza della quale più di quarantamila cittadini erano minacciati della pena di morte, e un numero maggiore del bando. «E per conseguire i suoi feroci voleri, scrive il Vannucci, avea creata una Giunta di Stato composta di tristissimi uomini, più tristo de' quali era Vincenzo Speciale, nativo di Sicilia, spregiatore di ogni giustizia, furioso amatore della tirannide, insultatore crudele dei prigionieri, iniquo falsificatore dei processi: insomma schiuma di scellerato, e degno ministro alle ire di Carolina e di Ferdinando Borbone.» La persecuzione di questa tristissima coppia superò in crudeltà quella de' più feroci tiranni. Mentre contaminava le città col sangue degli uomini più venerandi, col commettere gli atti più arbitrari che mai, non risparmiava nè pure le donne. L'avere legami di parentela o d'amicizia con un fautore di Repubblica, l'avere soltanto mostrato un senso di umanità pelle vittime, bastava per esporre le più nobili e virtuose donne agli strazi della plebe furibonda, alle ire della corte, alle vendette di Carolina. Le madri, le mogli, le sorelle dei Repubblicani vennero barbaramente trattate; non mancarono le condanne di morte: anche nobilissime donne offersero il collo al capestro, o tinsero del loro sangue la mannaia del Borbone. Questo re, stretto dalle vittorie di Napoleone, dovette nel 1805, cercare di nuovo rifugio in Sicilia, scampando così alla meritata vendetta. Ivi rimase dieci anni finchè durarono in Napoli i regni di Giuseppe Bonaparte e di Giovacchino Murat.

Le sciagure dei Napoletani non ebbero termine nè pure sotto il governo di questi due re, i quali mancarono alle loro promesse. Colle prepotenze della conquista, colle immoderate gravezze, colle morti della più gagliarda gioventù in lontane guerre, essi avevano di molto irritati i popoli. Insopportabile fu più che l'altro il regno del Murat; e qualche storico dimostra come l'Austria e Ferdinando II fossero assai più miti nelle loro misure di quel re francese.

Gli amatori di Repubblica, odiando qualunque dominazione straniera, si ritirarono sui monti degli Abruzzi e delle Calabrie; ed ivi, intenti a cospirare contro i re, diedero principio alla sêtta dei Carbonari, la quale presto divenne potentissima6. Gl'Inglesi, che stavano in Sicilia a difesa di Ferdinando, si rallegrarono della mala contentezza che nasceva contro i Francesi; si rallegrarono dei sentimenti che animavano i Carbonari, e con essi fecero pratiche, e promisero loro una costituzione se si adoperassero a richiamare l'antico re. La polizia di Giovacchino, venuta in sospizione di queste pratiche, cominciò ad usare fierissimi modi; furono stabilite commissioni militari, vi furono condanne di morte. Ma la Carboneria, perseguitata, s'ingrandiva e si estendeva in ogni luogo, in ogni ceto; e quanto più poteva lavorava a' danni del Murat. E quando questi, muovendo contro gli Austriaci, chiamò col proclama di Rimini (30 marzo 1815) gl'Italiani all'indipendenza, niuno rispose all'appello, tanto i popoli erano stanchi delle fallite speranze.

Cadde Giovacchino; e tornò Ferdinando a gotizzare Napoli. Il Borbone, anzichè dar sostegno e favore a coloro che avevano cooperato al suo ritorno, anziché dare la promessa costituzione, si mostrò pronto a punire chi di libertà parlasse o pensasse. I Carbonari allora cominciarono a cospirare contro di esso. La rivoluzione di Spagna del 1820 vieppiù accese i desideri e le speranze di libertà. La materia era pronta; a destare vastissimo incendio bastava una favilla.

Ai 2 di luglio dello stesso 1820, i sottotenenti nel Reggimento Borbone cavalleria, Michele Morelli e Giuseppe Silvati, innalzando la tricolore bandiera, disertavano da Nola con alquanti sergenti e soldati. Ad essi si univano varî settari e il prete Luigi Menichini da Nola. Il grido di patria trovò dappertutto favore; e la rivoluzione in quattro giorni si operò da un capo all'altro del regno, con esemplare concordia, senza spargimento di sangue. In tant'armonia di tutti nello stesso pensiero, il re cedette ai desideri del popolo, e promise e giurò solennemente la Costituzione di Spagna. Il giorno primo di ottobre si aprì il Parlamento nella chiesa dello Spirito Santo, ed ivi il re col maggiore apparato giurò sul libro dei Santi Vangeli di difendere e conservare la Costituzione, ed aggiunse che se mai mancasse al giuramento, invocava da Dio sul proprio capo la pena degli spergiuri. I principi della santa alleanza, non assentendo al mutamento di Napoli, invitarono Ferdinando a congresso in Lubiana per trattare cose del regno. Il re accettò tosto l'invito, e comunicò al Parlamento la sua volontà; dopo vario disputare, i rappresentanti del popolo commisero il gravissimo errore di lasciarlo partire.

Nella vita delle nazioni, come in quella degli individui, v'hanno istanti solenni, i quali decidono di tutto un avvenire; un'ispirazione luminosa, uno slancio generoso possono essere l'origine di felicità e di gloria; un istante di debolezza costa spesso anni di umiliazione e di servaggio. L'errore del Parlamento napoletano fruttò larga mêsse di lacrime e di sangue a quella già troppo sfortunata terra. Il re partì in fatti, il 14 dicembre, giurando che andava qual mediatore di pace, qual propugnatore dei diritti del suo popolo, e aggiunse che quando non ne conseguisse l'intento, a tutt'uomo difenderebbe colle armi la Costituzione. Tre mesi non erano per anco trascorsi, allorchè giunse novella che Ferdinando tornava a Napoli con cinquantamila Austriaci, comandati dal Frimont, per distruggere quella Costituzione che aveva giurato difendere. In riscatto dello spergiuro il Borbone appendeva a Firenze in voto ricchissima lampada alla Madonna dell'Annunciata7.

Alla nuova fremettero i popoli e corsero alle armi. Condotti dai generali Carrascosa e Guglielmo Pepe, quarantamila uomini di soldatesche regolari; a cui si erano unite molte milizie civili, mossero contro il nemico. Ma i capitani erano discordi, grandissima la diffidenza fra i generali e soldati. Il Pepe assalì il 7 marzo 1821 gli Austriaci a Rieti, e fu vinto. L'esercito napoletano si scoraggiò, e si disperse; e gli Austriaci con gran facilità entrarono in Napoli ai 23 marzo, in mezzo allo sbalordimento dei cittadini che «mesti pensavano alla perduta libertà e alla soprastante tirannide.» E questa all'usanza dei Borboni fu crudelissima, avendo trovato Ferdinando nello scellerato Canosa un suo degno ministro. L'effusione di sangue fu tale che perfino l'Austria se ne commosse. L'imperatore scriveva al generale Frimont comunicasse al re Borbone, come ei reputasse migliore politica quella di martirizzare senza spargimento di sangue i rei di maestà. Il Borbone rispose che di per sè stesso non farebbe grazia a niun condannato, ma che siffatte essendo le imperiali intenzioni, ad esse pienamente si conformerebbe. E però invece d'impiccare quelli già sentenziati alla morte, nel suo cuore magnanimo stabilì che patissero trent'anni di ferri nell'orrida isola di Santo Stefano.

Quel re, che aveva sull'anima più delitti d'ogni altro tiranno, moriva, esecrato da tutti, il 4 gennaio 18258. Il duca di Calabria, figlio di Ferdinando, veniva, per testamento olografo del defunto, confermato re; egli assumeva il nome di Francesco I. Questo degno erede dei Borboni pure spremè le lagrime ed il sangue dei popoli per mezzo dei preti, dei frati, dei crudeli ministri, e vieppiù di un suo rapacissimo servitore favorito, Michelangiolo Viglia; il quale insieme con una Caterina De-Simone, aiutatrice delle bestiali lussurie della regina Isabella, pose a prezzo ogni cosa. Dando denari al Viglia si campava dalle condanne, si avevano impieghi civili, militari, ecclesiastici. Francesco sapeva di quelle turpitudini, ne godeva, e diceva al Viglia: «Fa buoni affari e approfitta del tempo, che io non vivrò molto». Nel 1828 gli abitatori del Cilento, stanchi del mal governo, si levarono a tumulto e si posero d'accordo coi liberali di Napoli e di altre provincie per proclamare una costituzione che liberasse i popoli dagli orrori del dispotismo. Francesco mandò contro gl'insorti il marchese Del-Carretto, generale comandante della gendarmeria, con una truppa di sgherri, investendolo di pieni poteri. Il Del-Carretto fece orribili cose: mise a ferro e a fuoco intieri villaggi: fece macellare, condannare numero grande di generosi. Per ispaventare quel generale fece studio di barbarie. Le teste tagliate sul patibolo erano per ordine di lui esposte in una gabbia di ferro e messe davanti agli occhi della moglie e dei parenti di quei disgraziati9.

Lo stupido e crudele Francesco Borbone moriva il giorno 8 novembre 1830. Nell'agonia della morte vedeva intorno al suo letto le ombre dei sacrificati; onde negli estremi deliri, asseverano dicesse: «Che cosa sono queste grida? Il popolo vuole la costituzione? Dategliela, e lasciatemi tranquillo!»

Ferdinando II, il figlio di quell'Isabella che fu moglie di Francesco e donna di molti, saliva al trono due giorni dopo la morte del padre. Le popolazioni credettero sorgere a nuova vita, notando nei primi atti del giovane principe sentimenti di giustizia, di assennatezza e di clemenza regale. Ferdinando biasimò il governo del padre, disse farebbe ogni sforzo per rimarginare le piaghe che da anni affliggevano il reame, promise giustizia, vigilanza e saggezza; e cominciò col dare alcune concessioni e col diminuire il tempo di pena dei condannati politici. Ma non tardò guari a mostrarsi non degenere della sua trista razza; si diede ai gesuiti, si fece bigotto e feroce. Gli esili, le condanne e i macelli si succedettero senza posa dal 1832, anno in cui ricominciarono le cospirazioni10, al 1859, tempo in cui l'angelo della giustizia, librandosi sul capo del tiranno lo chiamò a rendere stretto conto a Dio delle sue scelleratezze.

La congiura dei fratelli Rossaroll, quella del frate Angelo Peluso, la insurrezione di Catania e di Siracusa per opera di Salvatore Barbagallo-Pittà e di altri generosi, quella di Aquila e di Cosenza, la spedizione dei fratelli Bandiera e compagni diedero luogo a nuove strazianti uccisioni, a condanne numerosissime. E in modo particolare il macellamento dei generosi Bandiera coi sette loro amici mosse a sdegno un cuore nobilissimo, quello di Carlo Pisacane, il martire, del quale particolarmente imprendiamo oggi a parlare. Il nome di Carlo Pisacane primeggia fra gli uomini che coll'ingegno e col valore cooperarono grandemente a pro della patria nostra e che per essa fecero sacrifizio della vita. Generoso fra quanti mai ne ebbe l'Italia, volle con un pugno di prodi ritentare quella spedizione già fallita ai fratelli Bandiera.

Quando si accinse all'azione era quasi sicuro della morte che l'attendeva; tuttavia, porgendo un magnifico esempio agli Italiani, con animo fermo e deliberato, seguito da pochi, eroi come lui, le andò incontro, come ad una festa da lungo tempo desiderata.

 




1 Que' tre ordini chiamavansi bracci o ceti; ed erano il baronale l'ecclesiastico ed il popolare, composto quest'ultimo dei deputati delle città non soggette a feudo.



2 Specialmente il magnifico palazzo di Caserta e il superbo teatro di San Carlo, entrambi unici nel loro genere.



3 I giorni di Ferdinando erano occupati dalle donne, dal vino, dai bagordi, dalla caccia e dalla pesca.



4 Carolina d'Austria era disordinata nella fantasia, ardente nei desideri; univa alle lubriche ispirazioni della mente, una più potente lubricità di organismo; era l'antica Messalina, era Venere Afrodisiaca. Di lei si poteva dire quanto scrisse di Messalina Giovenale: et lassata viris, nec dum satiata recessit.



5 Antica Repubblica greca nella Calabria; ivi sbarcarono i fratelli Bandiera, allorchè partirono da Corfù per sommuovere le Calabrie.



6 Veggasi: Venosta, I fratelli Bandiera, cap. I. (Ediz.:Barbini), non che I Carbonari del 1820 e 1821 (Ediz. Terzaghi.)



7 Si disse che le benedizioni del Pontefice lo avessero sciolto dagli obblighi del giuramento.



8 Ferdinando morì notte tempo d'apoplessia. Il mattino i dottori ed i servi, entrando nelle di lui stanze, trovarono le coltri e le lenzuola disordinate, e in esse avvolto il corpo cosa stranamente che pareva avesse lottato per molto tempo; un lenzuolo gli avvolgeva il capo; le gambe, le braccia erano stravolte; la bocca aperta; il viso livido e nero; gli occhi aperti e terribili. Non un congiunto, non un amico ebbe nel solenne istante della morte. Ei moriva chiuso nella propria stanza, lontano da tutti, custodito soltanto da un feroce cane mastino da lui prediletto. Il seguente distico corse un pezzo per le bocche de' Napoletani:

«Accadono in ver gran cose strane,

Moriva un lupo e l'assisteva un cane.»



9 Carlo Didier, l'autore della Roma sotterranea, che viaggiò in quel tempo per quegli infelicissimi luoghi, narra nella Revue des deux Mondes di aver veduta la testa di un vecchio in cima ad una picca piantata davanti alla casa di lui: i bianchi capegli, macchiati di sangue, ondeggiavano al vento e davano alla famiglia orrenda vista.



10 Giuseppe Mazzini, esule genovese, dopo aver assistito alla mala prova della spedizione di Lione del febbraio 1831, passò in Corsica con altri esuli per dar moto ad uno sbarco di Carbonari accorsi sulle rive della Toscana per aiutare la rivoluzione dell'Italia centrale. Veduti fallire per mancanza di senno politico e di ardita difesa i moti di quelle provincie, e avendo conosciuto da vicino i capi preposti al movimento della Romagne e dei Ducati, ben presto si avvide che l'Italia non era risorta perchè mancavano gli accordi fra i capi e il genio rivoluzionario. E però decise di dare alla Penisola un generale organamento che si appoggiasse sulle forze vitali della Nazione. Si recò a Marsiglia, da quivi si volse alla gioventù italiana, e prima che terminasse l'anno 1838 ebbe una potente e segreta affiliazione in Italia, e fondò la Giovine Italia, ed un giornale, che, coll'istesso nome, sfidava altamente i re ed i governi, ne svelava le turpitudini, li perseguitava colla storia del vero; e mentre mostrava al mondo che, quantunque sfortunati, nè ciechi, nè vili erano gl'Italiani, questi educava nel santo concetto dell'unità della patria e li infiammava a' fatti ardimentosi.






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