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Felice Venosta
Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o La spedizione di Sapri

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VI.

 

Verso il vespro, i prigionieri, avvinti di catene, e sempre nudi, venivano dai soldati dell'11° cacciatori condotti a Buonabitacolo, sulla via di Salerno, ove facevasi loro incontro il feroce colonnello Marulli, lo stesso che nel 1860 comandava da generale la piazza di Gaeta. Il Marulli, dopo di avere fortemente percosso ed insultato il Nicotera, fece rinchiudere tutti in un porcile. Tre giorni i prigionieri fatti a Sanza furono tenuti rinchiusi a Buonabitacolo. Durante questo tempo, il Nicotera veniva a sapere della cattura del Cagliari, e come fosse esso mandato a Salerno per esservi processato. Il pensiero dei suoi compagni gli rampollava tosto alla mente, e cercava il mezzo di stornare da loro le ire di Ferdinando II, di attenuare, di giustificare, in certo modo, la spedizione di Sapri. Quanto a sè, non pensava nè pure; ben sapeva come il suo fine fosse segnato; ma in favore dei suoi compagni potevano militare attenuanti. E appunto a Buonabitacolo, alla presenza di un ufficiale dei cacciatori, stendeva una dichiarazione, sulla quale esagerando la cospirazione murattista, in questa faceva consistere il vero pericolo pel regno dei Borboni, e cercava di rendere più mite l'animo dei giudici, verso i suoi compagni di sventura. Non un nome di quelli che potevano essere colpiti gli sfuggiva di bocca. Conosceva tutti i capi murattisti di Napoli, e non ne svelava alcuno. Parlava soltanto di quelli che si trovavano all'estero, al sicuro da qualsiasi persecuzione; onde nessun murattista fu mai posto in accusa, nè arrestato, nè tampoco sospettato per sua cagione.

I prigionieri erano al quarto giorno fatti salire su carri tirati da buoi, e legati ed esposti ai raggi del sole, e fra i maggiori strapazzi, condotti a Sapri, ove giungevano la mattina del giorno 7 luglio. È facile immaginarsi lo strazio che dovettero soffrire specialmente i feriti gettati in quel modo su carri di campagna ed esposti tutto il giorno alla cocentissima sferza del sole. Verso sera dello stesso dì venivano imbarcati per Salerno, dove, giunti il giorno 9, trovavano gli altri compagni fatti prigionieri a Padula. A Salerno ebbero a patire i più gravi insulti dall'intendente Ajossa. Ma alle contumelie di quel tristo, i generosi rispondevano parole così nobili e così energiche, che fu costretto a tacersi.

L'Ajossa, assistito da un suo segretario, Alfonso Condò, lo stesso giorno 9 luglio cominciava l'istruttoria.

Il Nicotera eragli condotto davanti, ravvolto in una coperta di lana, il capo bendato per le ferite, e la mano destra abbandonata al lavoro di sessanta mignatte, non avendo egli voluto che se gliene facesse l'amputazione.

Stesse domande fatte a Sanza gli furono mosse; eguali risposte. Se non che, il guardiano non aveva raccolte tutte le carte del Pisacane. Nello sparpagliamento, alcune altre erano rimaste sul campo, e queste erano cadute in mano dei commissari borbonici. Venivano presentate al Nicotera, il quale le guardava, le scorreva, e si accorgeva d'essere appena a metà strada. Fra questi documenti ce n'era uno, intestato: «Nota campioni.» Era un foglio grande di carta grossissima; portava una lunga lista di nomi insignificanti; nomi di merci, di commestibili. Accanto a ciascun nome era segnata una cifra. Quella «Nota campioni» era nientemeno la chiave del cifrario. Se di quella carta si fosse rilevato il valore, tutte le lettere cifrate del Pisacane sarebbero state interpretate, tutti i coinvolti nella cospirazione inevitabilmente perduti. Che cosa faceva il Nicotera? «— Riconosco queste carte, rispondeva; appartenevano al Pisacane.

«— A Pisacane?

«Sì, e domando che si eriga verbale della mia ricognizione.» —

Ciò detto, e mentre le mignatte si venivano staccando, una ad una dalla mano destra minacciata di amputazione, colla sinistra il Nicotera numerava i documenti, tra i quali erano parecchie lettere cifrate, e li contrassegnava tutti con una sigla, non potendo firmare colla mano sinistra. Si erigeva il verbale, nel quale ogni documento era notato e descritto.

Giunti alla Nota campioni, il Nicotera la riprendeva colla sinistra, la guardava con indifferenza, e:

«— Questa, diceva, non credo appartenesse al Pisacane. Contiene una serie di nomi di genere di commercio: l'avrà smarrita qualcuno dei nostri compagni, o si riferirà alle operazioni commerciali che il mio amico voleva fare in Sardegna.» —

L'Ajossa non vi badava più che tanto, poichè riponeva tutta la sua attenzione nelle lettere cifrate, e il verbale parlava della «Nota campioni» come d'una carta insignificante, e taceva delle figure che si trovavano accanto ai nomi.

Le Autorità borboniche avevano già arrestato, Giovanni Matina, N. Libertini, F. Agresti, Michele e Nicola Magnone, Pasquale Verdolina e parecchi altri. Sul loro conto si avevano molti sospetti. Mancavano però le prove: ma quelle prove sarebbero state indubitabilmente raggiunte, se le lettere del Pisacane si fossero decifrate.

Il giorno 10 luglio l'istruttoria dall'intendente Ajossa passava nelle mani del procuratore generale presso la Corte Criminale della Provincia di Salerno, Francesco Pacifico. Questi non si accontentò di compilare verbali: volle interpretare anche documenti, aiutato dal vice segretario Michele Orienzi; e però le cose andarono così per le lunghe che i dibattimenti non poterono cominciare prima del 29 gennaio 1858. Fu allestita all'uopo una nuova Corte nel soppresso monastero di San Domenico dove, era anche un quartiere. Gli accusati erano 286, e cioè i congiurati non rimasti sul campo di battaglia, l'equipaggio del Cagliari, ed alcuni passeggeri sospetti di connivenza col Pisacane e coi suoi compagni. Furono condotti nell'aula della Corte Criminale legati due a due, e vestiti, come se fosse estate, della giubba di tela grigia che era prescritta nelle carceri. La Corte era speciale, e consisteva nel Presidente, avvocato Domenico Dalia, nel procuratore generale, avvocato Francesco Pacifico, e in dieci giudici, due più dell'ordinario per provvedere in caso di malattia.

Quindi si hanno i nuovi interrogatori del Nicotera. E questi, meno tormentato-dalle ferite fu interpellato sul modo con cui i documenti potevano essere letti dall'autorità. La chiave del cifrario era conservata negli atti del processo; ma il Nicotera non si scompose, e con calma e serenità disse:

«La lettera N. 13 è scritta dallo stesso Comitato, ma con cifre che non si possono interpretare altrimenti, se non avendo sott'occhio una copia del libro a riscontro, di cui uno era presso lo stesso Pisacane e l'altro presso il Presidente del Comitato di Napoli. Nè gli abecedari numerici sono bastevoli per riuscire alla spiegazione delle cifre che vi si contengono.»

Il Procuratore generale si dava attorno per cercare il famoso libro a riscontro del Pisacane. Il Ministro sardo Rattazzi, che aveva già fatto perquisire la casa che il Martire abitava in Genova colla mite signora D..., quante carte e quanti libri eransi rinvenuti, con molta compiacenza spediva a Salerno26. Ma il Nicotera non trovava il libro famoso che doveva dare la chiave dell'enigma, e pel Procuratore generale si faceva bujo, più bujo di prima; esso non sapeva più raccapezzarsi. Il libro a riscontro non si sarebbe potuto da nessuno trovare; non aveva mai esistito. Il Nicotera l'aveva immaginato per sviare l'attenzione dalla Nota campioni, e preparare così l'incidente che si svolse nel dibattimento. Il libro a riscontro fu l'arma principale con cui il Nicotera difese, e fece rimandare assolti tutti i compagni. Tra gli oggetti appartenenti al Pisacane, si trovò un biglietto sul quale era scritto a tutte lettere un nome. Questo nome era quello del De Mata, cappellaio a Napoli, e facente parte del Comitato. Il De Mata, prima ancora che fosse interrogato il Nicotera, era stato arrestato.

«— E questo nome che cosa significa? venne domandato al Nicotera.

«— Ah! me n'era scordato, rispose egli pronto. Il De Mata è un bravo cappellaio di Napoli. Il Pisacane aveva comprato da lui un cappello, e siccome n'era stato contento, così ne aveva notato il nome per fargli le commissioni in seguito.»

Pochi giorni dopo il De Mata veniva rilasciato in libertà, per mancanza di prove, frutto del nobile procedere del Nicotera.

Tra gli oggetti sequestrati al Nicotera, c'era un grosso portafoglio inglese. Il Procuratore generale glielo presentava, ed egli lo riconosceva per suo. L'apriva, ne passava i fogli candidi come neve; ma da una divisione usciva un involtino di carta contenente polvere bianca.

«— E questa polvere che cosa è?

«— È, rispondeva il Nicotera senza scomporsi, un veleno. Aveva deciso d'ingoiarlo se la spedizione andava male. Ma caddi ferito, ho perduto i sensi, e non fui a tempo di sottrarmi alle vendette del governo borbonico.»

Il Procuratore generale prendeva la cartolina, s'accostava alla finestra, la scioglieva e sperdeva al vento la polvere. Quel portafoglio conteneva la lista dei componenti il Comitato di Napoli, di tutti i cospiratori, e di tutti i corrispondenti, scritta con inchiostro simpatico. La polvere bianca, sciolta in un bicchiere d'acqua, avrebbe dato il mezzo di leggere, tutti quei nomi, scritti di pugno del Nicotera.

Il Procuratore generale, più furbo dell'intendente Ajossa, quando vide che il famoso libro a riscontro non si trovava, rifrugò tra le carte del processo; trovò la Nota campioni, e s'incaponì a crederla la chiave del cifrario. L'adoperò, e lesse interi i nomi del Matina, dell'Agresta, del Libertini, del Magnone e degli altri. L'istruttoria poteva dirsi compiuta; l'atto d'accusa veniva redatto, e gli accusati comparivano alla sbarra. Le prime parole del Nicotera furono un aggressione vivace contro il procuratore generale.

«— Protesto contro il modo iniquo con cui mi volete dar complici, ch'io non conosco e non ho mai conosciuto. Avete preso uno dei fogli del processo, e vi avete scritto cifre arbitrarie, le quali, interpretate a vostro modo, vi dessero i nomi del Libertini, del Matina, dei Magnone, dell'Agresti, del Verdolina, che avevate già arrestati prima. Il vostro è artificio infernale di polizia per colpire innocenti, mentre i veri, i soli rei siamo io ed i miei compagni morti sul campo di battaglia.»

Il Procuratore generale replicava vivissimamente. Le sue parole mettevano in sodo che egli si era valso della Nota Campioni.

Quella nota, rispondeva il Nicotera, conteneva nomi, non conteneva cifre. Le cifre vennero aggiunte dopo. Domando che si constati il fatto, consultando il verbale di ricognizione.»

Nasceva un incidente, si consultava il verbale, e la Corte era costretta a ritirarsi per deliberare. Non osando prendere da sola una decisione, consultò telegraficamente il Consiglio supremo di Napoli. Finalmente, esaminato il processo, riconosceva che la Nota Campioni conteneva soli nomi, e che non poteva venire considerata come mezzo di prova per le figure aggiunte in seguito. Così scomparve la prova contro il Matina, il Libertini e gli altri, e la Corte li mandò assolti. L'ingegnoso eroismo del Nicotera riesciva a salvare i propri compagni. Procedendosi nell'interrogatorio, il Nicotera veniva interpellato se conosceva un certo regolamento. Era fatto scendere presso il cancelliere. Egli guardava il foglio, e rispondeva:

«— Questo è il regolamento del convitto femminile di Vercelli.

«Voi mentite! sclamava il procuratore generale.

«— Signor presidente, replicava freddo il Nicotera: la prego a difendermi dagli insulti del procuratore generale. Questo è il regolamento del convitto femminile di Vercelli.

«— Vi ripeto che siete un mentitore! —

Non ancora era uscita intiera l'ingiuria dal labbro del procuratore generale, e già il Nicotera, sollevato il calamaio di bronzo del cancelliere, glielo scaraventava in viso.

L'udienza era sospesa, ed il processo interrotto per quindici giorni. E d'ordine di re Ferdinando si riapriva con una dichiarazione del procuratore generale, che non aveva inteso di offendere la persona dell'accusato barone Giovanni Nicotera.

Due compagni, generosi quanto lui, s'alzavano al processo, e dichiaravano che il Nicotera li aveva sconsigliati dalla spedizione, e che un assalto dei cacciatori li aveva sorpresi mentre stava inalberando la bandiera bianca, e voleva indurli alla resa.

«— Quei signori mentono! interrompeva con impeto il Nicotera. Caddi tramortito alle prime ferite, e me vivo, e padrone dei miei sensi, non avrei mai, come non ho, parlato di resa, nè innalzato bandiera bianca, davanti alle soldatesche del Borbone.» —

Prima che si chiudesse la procedura, il Nicotera protestò anche contro l'accusa che gli insorti avessero commesso furti e rapine, ricordando invece che uno era stato fucilato per ordine del Pisacane per avere involati pochi carlini ad una donna.

Quando, in carcere, gli recarono la sentenza (era la notte dal 19 al 20 luglio 1858), svegliato dagli amici, fece attendere un'ora il cancelliere per compire la sua teletta; indi gli chiese seccamente:

«— Quante condanne di morte?

«— Tre.

«— Per quanti è giunta la sospensione?

«— Per due.

«— Ed io sono l'escluso non è egli vero?

«— Sì; furono graziati Gagliani e Sant'Andrea.

«— Bene; mi basta. —»

E dato mano agli strumenti, convertì la prigione in sala da ballo!

Quando il capo custode delle carceri, certo Giacomo Ferrigno, gli recò l'annuncio che, per istanza del Governo inglese, il re gli aveva commutata la pena di morte nella galera a vita, egli rispose con un motto rimasto tradizionale a Salerno:

«— Sarà per un'altra volta!

Il presidente della Gran Corte, il Dalia, all'annuncio della grazia di Ferdinando, mostrava al Nicotera il desiderio che lui e i suoi compagni avessero corrisposto col grido di viva il re! Al che egli sclamò fieramente che quel grido equivaleva a morte alla libertà.

Il Governo inglese erasi intromesso nella quistione per l'affare del Cagliari, facendosi mediatore del Piemonte, che chiedeva la restituzione del piroscafo e la liberazione dei due macchinisti. Esso usò ogni ascendente presso la corte di Napoli perchè le pene di morte fossero commutate; e così il Nicotera venne condannato a vita nell'ergastolo, e gli altri condannati a morte ebbero i lavori forzati per trent'anni; altri pene minori; moltissimi furono prosciolti per mancanza di prove a loro carico.

Il Borbone, «aprendo tutto il paterno cuore alla beneficenza,» destinò la somma di annui ducati duemila a favore dell'isola di Ponza per le «sciagure in cui fu immersa per opera dei malfattori che la invasero;» dispose altri duemila ducati da dipartire fra i poveri di quell'isola, profuse onori e gratificazioni agli Ajossa, ai Ghio, ai Marulli, ai Capi-Urbani, e fece distribuire onorificenze e danaro ai gendarmi, ai cacciatori, alle guardie urbane, a tutte le centinaia di eroi che combatterono un pugno d'uomini. Infine fece coniare una medaglia che eternasse le infamie di Padula e di Sanza, la quale venne specialmente data agli assassini dell'eroico Pisacane e suoi compagni. Una di queste medaglie d'oro è conservata dal Nicotera per dono fattogliene dal Garibaldi.

Il Governo borbonico volle in ogni maniera vendicarsi del Nicotera. In generale i condannati politici venivano mandati a Santo Stefano, senza catena; esso inviò invece lui nelle terribili sepolture di Favignana, con trenta libbre di ferro al piede, in una fossa dove bisognava estrarre l'acqua, e dove visse parecchi mesi con due soldi di pane al giorno, senza mai venir meno a quella fortezza d'animo di cui aveva date tante prove. Fattogli intendere durante la prigionia come avesse potuto ottenere una grazia speciale, la respingeva disdegnosamente, scrivendone in questo senso ad un tal Angeleri. Egli era entrato in Favignana negli ultimi di agosto dell'anno 1858. La traduzione da Salerno in Sicilia, nell'ergastolo, era stata affidata con ordini severissimi a Michele Bracco, ufficiale della marina militare.

E quando nel 1860, i Borboni accordarono il perdono, vi furono compresi gli Spaventa, i Poerio, i Pironti; il solo Nicotera ne rimase escluso, nè avrebbe riveduto la luce del sole, senza l'ardimentosa spedizione dei Mille.

Giovanni Nicotera, visitato il Garibaldi, come potè acquistare tanto di forza da potersi muovere ed operare per l'Italia, si recava sollecito in Toscana, ed ivi assunse il comando di una brigata di volontari, che, in unione ad altre, sotto gli ordini del Pianciani, dovevano far guerra al Lamoricière per liberare Roma. L'impresa non potè aver luogo per l'opposizione del barone Ricasoli. Nel 1866 fece la guerra del Trentino come colonnello-brigadiere dei volontari. Nel 1867, alla testa di una schiera pure di volontari, dalla Terra di Lavoro penetrò nel territorio romano per iniziare la guerra di emancipazione di quella provincia; ma non fu punto assecondato nella sua nobile impresa.

Giovanni Nicotera è tarchiato e robusto come un alpigiano, svelto ed elegante come uno zerbinotto, colla faccia bruna, circondata da nera e foltissima barba, somigliante a quella d'un tribuno romano; è di ingegno svegliatissimo, di facile e immaginosa parola, pronto all'assalto e abilissimo nella difesa, focoso e nel tempo stesso attissimo a padroneggiarsi anche nel fervore di una improvvisazione. Il Nicotera è la più diretta riproduzione di quegli oratori improvvisati dalla Repubblica Partenopea, di cui il Colletta ci ha tramandato non pochi esempi. Egli fu deputato al Parlamento italiano, e lo è tuttodì come rappresentante del Collegio di Salerno. In oggi è Ministro per gli affari dell'interno, e l'Italia attende da lui e dai suoi colleghi opere di ben ponderato progresso.

 

FINE.




26 Diamo luogo alla relazione d'un testimonio oculare che dimostra quali Istruzioni avesse dato il Rattazzi a' suoi agenti.

«Il giorno 11 luglio, non saprei indicare a quale ora precisa dopo il mezzodì, la signora D.... parlava con due amiche, che erano a visitarla, delle incerte notizie che correvano sulla spedizione, e delle speranze che ancora rimanevano dell'esito e della vita del Pisacane. Picchiato l'uscio, ella disse d'improvviso: «Questa dev'essere la Polizia.» Aprì, e vide entrare il vice-console di Napoli, accompagnato da uscieri e da un giudice; questi con aria insolente e burbera, e con voce truce prese a dire: «Essendo morto Carlo Pisacane, siamo venuti in questa casa che egli abitava per mettere in sicuro la roba sua.» A quest'annunzio la signora D.... ricevè tale impressione che si può sentire, ma esprimere non mai. Nervosamente commossa, tra l'ira e il dolore che non ha nome, si avvicinava al giudice malaugurato ripetendo: «È morto? E dà a me questa notizia? A me?....» E il giudice rispondeva: «Sì, a lei; non se ne dovrebbe meravigliare; perchè questo era il fine che doveva fare, e che faranno tutti i pazzi come egli era.»

«La signora si volgeva al vice-console di Napoli domandandogli se fosse vera la morte. E costui umanamente le rispondeva: «Ne sono dolente, signora, di compiere questo ingrato ufficio; ma egli è morto.»

«Le persone che erano presenti lodano come civile la condotta del vice-console napoletano, e danno la parte di esecutore spietato al giudice del Rattazzi. Fino gli uscieri erano visibilmente commossi; gli astanti versarono lagrime. — Rifrugarono le carte: ignorasi con qual diritto. La signora protestava che erano sue le robe tutte che trovavansi in casa, perchè pagato da lei sola il fitto dell'alloggio che dava al Pisacane. Le domandarono la scrittura di locazione, e il proprietario, che era presente, attestò che non s'era fatta scrittura, perché la signora D.... pagava il fitto a trimestri anticipati. Ciò non ostante il sequestro fu eseguito inesorabimente, e se il vice-console di Napoli non s'interponeva per lasciare alla signora la custodia della camera suggellata, il giudice nominava un custode a spese della medesima.»






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