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Federico Luigini da Udine
Il libro della bella donna

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  • LIBRO PRIMO
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LIBRO PRIMO

 

Sovvenendomi, magnanimo e generoso monsignore, quasi di continuo le alte cortesie e le dolcissime accoglienze, che per bontà vostra infinita usate di fare a ciascheduno comunemente, e massime a coloro che mostrano d'amarvi, e tenervi caro ogni giorno più, come sono io, astretto dai lacci della gratitudine, non ho potuto non ricordarmi i meriti grandi ancora, che voi cercate pure di conferirmi sempre, poco ai passati, de' quali posso dire con verità di avere ricevuto un monte, l'animo vostro splendido e reale rivolgendo; per la qual cosa n'è nato in me un desìofatto, già son più mesi, di riconoscere almeno in qualche particella, se non in tutto, que' beneficj che mi avete sempre con larga mano distribuiti; chè, non potendo in, alcun modo più celarlo, mi è stato forza aprirvelo qui, e qui farvelo, quasi in purissimo specchio, rimirare.

Perciocchè, sapendo io voi poco men sin dalle fasce quasi aver avuto in sommo piacere la contemplazione di qualche bella e leggiadra donna, cosa veramente degna de' vostri pari, cioè di spiriti ben creati e gentili; insomma ho deliberato di farvi qui vedere una bellissima, e quale so ben io, che mai non vedeste addietro cogli occhi vostri, donna dipinta e perfetta da cinque pennelli di cinque perfetti ed accorti signori, che per voi, ove fosse bisogno, esporrebbono la vita ad ogni pericoloso rischio, e ad ogni prova.

Ben si converrebbe, o monsignore, che voi pagaste per guatar così bel ritratto, il che fece a molti fare Zeusi pittorefamoso, se vollero rimirar la vaga Elena, ch'esso sì leggiadramente dipinse. Ma io per due rispetti, non voglio che voi paghiate. L'uno è che questa donna, per siffatto mezzo veduta, potrebbe chiamarsi, come l'antidetta Elena, femina di mondo; cosa che a me per ogni rispetto non dee piacere.

L'altro è che così io non vorrei a sodisfare al desiderio mio di sopra accennato, del debito che ho con la molta cortesia vostra. Non pagherete adunque, no; ma io sibbene, facendolavi vedere, scemerò con la prontezza dell'animo in qualche parte il gran numero di tanti e tanti obblighi ch'io vi tengo.

Avete adunque da saper per introduzione di poter mirare questa di perfetta beltà dotata e adorna donna, che tornato io i mesi addietro dalla villa, ove con tanti solazzi tutti dilettevoli, voi ed altri gentiluomini assai e io avevamo quindici giorni continui spesi senza punto aver da lagnarci della fortuna, e standomi una notte in letto mi parve in sonno di vedere al vostro camino il signor Giacomo Codroipo, di quella stirpe così bello e felice ramo, e il qual tutto voi somiglia in ogni sorta di virtù vera, onde se ne fa ogni più chiaro, e seco era il suo cognato M. Pietro Arigone, gentilissimo signore, in cui rilucono quasi tutti quei lampi, che ponno luminoso rendere un gentiluomo, ed eravi altresì l'eccellente Dottore della Fornace, che, per essere il nido della bontà, della gentilezza e della mansuetudine, vi si accompagna volentieri con essi; e così ancora vi erano altri due splendidissimi ed onoratissimi signori, l'uno il signor Vinciguerra e l'altro il signor Ladislao, de' quali il primo è più vostro che suo, ed il secondo ama per bontà sua me tanto, che a me solo, so io onde ciò ne avvenisse, voleva egli allora volontariamente cedere.

Ora, ritrovatisi costoro al luogo detto, dove ancora voi e io eravamo, e ragionandosi di non so che dolcemente, il signor Giacomo, interrompendo il parlare che era per andare in lungo, e tagliando il ragionamento, disse queste parole: Signori, se a voi piacesse quel che a me non dispiace, io direi qui che rea cosa non sarebbe in altro tempo differire i ragionamenti, e voi tutti venirne meco a falcone a S. Martino, ove, avendo io un luogo, il quale alcuni di voi hanno potuto più volte vedere, mi sforzerei per tre giorni (che tanti sono per trattenermi ivi) di farvi conoscere che io ho un falcone de' buoni che oggidì vivano, e che a lato a lui quel di Federigo degli Alberighi sarebbe riuscito un cappone. I giorni si spenderanno in cacciar gli aironi e le anitrelle, e qualche altro spasso; le notti poi in dolci parlari, come più a voi vedrò aggradare e dilettare. Deh, venitene dunque con esso meco, e, venendo, venite allegri.

Piacquero molto a tutti le parole del vostro parente, e dove innanzi avevamo poco in grazia di uscire alla campagna e della terra fuori, ora quasi àrdevamo tutti di ritrovarci insieme a S. Martino. Ma voi, monsignore, solo ricusavate tale andata incolpando i molti affari vostri, ne' quali eravate tutto involto, e biasimando l'empio destino, a cui non era piaciuto di far sì che, con noi venendo ancora voi, non fosse alquanto rimaso tronco ed imperfetto il bene che avevamo d'avere egualmente tutti. Alla fine, veduto voi stare duro, e ragionevolmente non vi poter venire dove avevamo disegnato, convenimmo in questo di partire noi altri, e così, lasciato voi, dopo il congedo ne andammo a casa del signor Giacomo, dove trovati in bell'ordine e in punto i cavalli, (che buona pezza di tempo innanzi erano, a ciò fare, stati mandati da lui i paggi) su vi salimmo, chi involto in pelle di cinghiale, e chi di lupo e chi di volpe per la fiera stagione, nella quale si sentiva un gran freddo: inviati poi con ciò che facea di bisogno al cacciare, speronammo i destrieri sì che arrivammo innanzi notte. Laonde, smontati, e fatti presso a un buon fuoco, il quale ardeva in una camera del palagio (quello che mi avete voi tanto commendato, e che a me parve il più bello del mondo) tutti ci ricreammo, e poi cenammo in mezzo dell'allegrezza, e in fine, per ritrovarci anzi stanchi che no, e per levarci per tempo, ci riducemmo al riposo lieti, e cantando chi madrigale, chi qualche canzonetta e chi qualche sonettino, ciascuno però in lode di colei, che più ammirava e più gli piacea.

Ma guardate bel caso, monsignore; ciascuno nel suo cantare voleva e faceva più bella la sua di tutte le altre donne, il perchè ne nacque questo, che, non potendo noi convenire con noi a comporci in modo alcuno, fu (che così piacque loro) dato il carico a me di terminare questi litigi, e udite come.

Il signor Pietro Arigone, veggendo crescere e farsi maggiore il bisbiglio fra noi, incominciò a dire così: A me parrebbe, signori e fratelli, che, avendo a trapassare noi le future tre notti che qui samo per fare in dolci e soavi ragionamenti, come ci cennò nell'invitarci a questo luogo il mio caro e buon cognato, noi fossimo contenti di formare una donna tale, quale forse non si vide giammai, cioè bella a perfezione, e che manchi d'ogni opposizione che le si potrebbe fare, cosa nel vero pur da parlarne tra noi, e degna dei nostri ragionamenti; e chi alla fine verrà a dimostrare più alla costei beltà le ricchezze e le bellezze della sua diva avvicinarsi che di qualunque altra, questi abbia vinto, e tengasi per fermo lui aver la più bella delle nostre donne, che a gara lodiamo, e ci sforziamo ciascuno per di farnele rimanere le più belle e le più vaghe.

Surse a queste parole il signor Dottore e disse: Bella immaginazione è stata questa del signor Pietro; ma così ancora io le nostre lite chetate non veggo, perciocchè, se non si fa un giudice il quale abbia a giudicare chi più di bellezza avvicinantesi a questa donna che abbiamo a formare scopra ritrovarsi nella sua, io veggo indeterminata sentenza, le potremmo cento mill'anni contendere così, che mai non ne verremo a capo; poichè chi non sa ch'io non cederei, che voi e voi, questi e questi (non vi sendo chi giudichi.) avesse mostro starsi nell'idolo suo più di bello e vago, simile a quello di questa madonna, che io nel mio veramente divino? Sicchè sarebbe ben fatto che tra noi vi si eleggesse uno, il quale pigliasse questo peso, e, invece di ragionare, avesse a giudicare. Così detto, tacque l'eccellente Dottore.

Allora io fui (la loro buona mercè) eletto giudice, ma non mica senza questa condizione, che, non potendo io in mia persona celebrare la mia novella signora, la signora Lucrezia Toronda, e da lei torre quel bello, che mille non una donna potrebbe perfettamente far belle, altri in luogo avesse ad esercitare questo ufficio e questa impresa.

Mentre adunque ch'io mirassi in faccia di loro ognuno per vedere qual si levasse per me, e si volesse affaticare per far chiaro che la mia gentilissima Lucrezia, stupor della natura e onor del secolo nostro, fosse la più bella, e che più si assomiglierebbe alla donna, che si dovea bellissima e senza macchia formare, ecco i signori Vinciguerra e Ladislao allontanarsi alquanto da noi, e poco dopo appresentarsi sorridendo. Al sorriso dei quali non tacque il signor Giacomo ma disse con alta voce, udendolo tutti: io so che questi gentiluomini mi ridono, perciocchè sanno di ottenere indubitatamente vittoria, ma pazienza. A queste parole quasi tutti dissolutamente ridemmo, sapendo che essi vagheggiavano e amavano due, che invero men belle delle nostre erano assai, e più si vedea in loro della bruttezza di Gabrina che della bellezza di Angelica.

Finito il riso, da che, soggiunsero i beffati, pur voi ci date la burla, noi non potendo rimanere vittoriosi, faremo altrui rimanere; e cui? rispose il signor Giacomo; Monsignore e Luigino, replicarono i due. Allora io non mi potei contenere di non baciare e l'uno e l'altro, e ringraziarneli da parte vostra e dalla mia ben mille volte caldissimamente.

Volle il signor Vinciguerra in vostra vece prender l'assunto, e in mia il signor Ladislao. Or pacificati così per un poco, quasi che non so chi di noi volse da nuovo porre intrico, dicendo che egli non parea a lui, che la bella innamorata di voi dovesse di bellezza contendere con le nostre, perchè voi non v'eravate con noi (onde n'era uscita e venuta la gara) trovato in modo alcuno. Costui non fu udito; laonde ancora voi aveste loco, e poteste, mercè delle belle parole del difensore della vostra degnissima donna la signora Ottavia Picezza, ch'è la gloria d'amore, impetrare somma grazia e sommo favore. Così adunque trovatici d'accordo incominciammo a lasciarci vincere da quietissimo e dolcissimo sonno, avendo primieramente disegnato al comparire dell'alba di levarci, e trovarci ognuno col suo falcone in pugno, e poi, trapassato in siffatto piacere il giorno, ridurci al luogo, ove eravamo allora, per dare felice principio dell'antidetta donna.

Già l'alba aveva data volta a noi, e il sole era vicino al nostro emisfero, quando, lasciate le oziose piume, e levati, e posti in ordine, uscimmo fuori alla caccia. Ma io non son per dir altro quanto spetta a quella, perché l'intenzione, che mi fe' prender la penna, me lo vieta e non vuole. Insomma tenete certo, che quinci e quindi, passando, correndo, fuggendo, e dall'uno all'altro lato attraversando, avemmo solazzo e diporto assai, e calando alla marina il gran pianeta, con grassa e molta preda ce ne ritornammo al nostro alloggiamento. Dove poi che noi e i cavalli e falconi furono con buon governo riposti, l'apprestata cena si scoperse di subito, e, cenato che noi tutti avemmo, ci accostammo al fuoco, e, recate dai famigliari le sedie, a sedere vi ci ponemmo al dintorno, dove, ragionate venticinque parole in materia della caccia e dei falconi, il signor Dottore ottore levossi in piedi e disse così: Conciossiachè il giorno sia da noi, signori, stato, come deliberammo, ispeso, e, egli passato, abbia dato ritorno la notte, io direi che la nostra bella donna non si lasciasse, ma che incominciassimo oggimai a prendere i pennelli nostri e i nostri colori, acciocchè ispendessimo anco, se non tutta, almeno parte della presente notte, secondo l'ordine dato, e la comune nostra deliberazione.

Al parlare del signor Dottore vi si cominciò intorno ad udire un concento e un plauso di tutti mostrantisi vaghi e desiosi di tal cosa, quanto era possibile di mostrarsi il più; per la qual cosa, sendo ogni cosa piena di silenzio, ed io posto in disparte alquanto per udire, e giudicare in fine chi più belle parti somigliantisi a questa donna nella sua donna essere, facesse vedere e più; ecco risorgere con licenza di tutti l'antidetto signor Dottore, il quale dopo un breve riso così ruppe il silenzio e parlò:

Poichè piace alla vostre signorie, ch'io colui sia che dia principio a questa donna, io colui sarò senza ritrarre il piede, e senza qui far divieto alcuno al cospetto onorato di voi, e così incomincerò. Egli è vero che ufficio a me più dicevole e conveniente assai sarebbe stato, se io di quello che Bartolo, Baldo, Ulpiano, Paolo, Papiniano e gli altri degnissimi legisti hanno scritto, mi avessi posto a favellare; ma nondimeno, quando ch'io mi penso d'essere con le vostre signorie qui ridotto per mezzo di consolazione e di trastullo, io scorgo bene che il ragionare anche di quelle cose, che mie non sono, come quelle, di che parlano gli antidetti dottori, non mi si disdirà, mi disconverrà pur un punto. Dico adunque che noi siamo a tal partito, volendo dipingere una donna senza opposizione alcuna, e senza pur un nevo, a quale si trovò il dipintore, di cui sopra n'è stata fatta menzione; perocchè disegnando egli di volere in Crotone, od in Agrigento che si fosse, fare una immagine perfetta, la qual dovea collocare nel tempio di Giunone, elesse da tutto il drappello delle Crotoniate, o pur Agrigentine vergini ignude, al cospetto di lui accolte, cinque donzelle sole di bellezza vieppiù delle altre tutte dalla Natura dotate, delle quali egli se ne avesse a servire in quel perfettissimo e singolarissimo ritratto, a questa questa parte, a quella quella parte togliendo, e al simulacro suo meravigliosamente adattandola. Ma voglia Iddio che noi abbiamo in questa impresa, com'egli, un felicissimo fine, fortunata uscita, e favorevole il cielo, di che io non ho paura e dubbio niuno, qualora solamente volgo gli occhi miei a mirare la mia, che tanto mi piace, donna bella, gentile, onesta e santa; anzi mi cresce la speme più e più ognora di farnelo rimanere scornato e inferiore, e vincernelo d'assai anzi che no.

Qui fatta un poco di pausa soggiunse l'eccellente Dottore:

Due sono le bellezze, delle quali si vede qualche uomo andare adorno; l'una è dell'animo, l'altra è del corpo. Quale sia quella dell'animo voi lo sapete, quale parimenti quella del corpo egli vi è pur troppo chiaro. Adunque imitiamo qui l'arte, scimia della natura, la quale si attacca per lo più in sul principio alle cose men perfette e men difficili, e cose pian piano trapassa alle più perfette e più difficili. Voler ritrarre una beltà esteriore, pare a me che vi sia un peso molto più lieve assai che non è quello di voler ritrarre una interiore. E però se piace a voi, piacerà a me dal bello di fuori incominciare a formar questa donna prima che da quello di dentro, il quale, alla perfezione che le cerchiamo e procuriamo di dare, è necessarissimo.

Così detto, ebbe risposta il signor Dottore quale aspettava cioè di cominciar la donna esteriormente; il perchè egli così riprese il parlar suo:

Principiando io questa donna esteriormente, dico che il principio può esser difforme, altri da questa, altri da quella parte incominciando; ma io in ciò poco mi curo, e vo' cominciare dai capelli primieramente; e siccome in prima tolgo questi, così io giudico essi in una donna la più importante parte essere di qualunque altra, che, per dire il vero, senz'ella sarebbe tale e quale senza fior prato, o senza gemma anello; ella sarebbe tale e quale una selva spogliata del suo onore, o un rivo senza il suo corso; ella sarebbe finalmente tale quale alcune volte si vede essere la notte senza le stelle, e il giorno senza il sole, che lo suole così vago e così ragguardevole far divenire a noi, che lo rimiriamo. Per questi massimamente le donne s'insuperbiscono, e vi si veggono andare pettorute e gonfie, e di qui nasce la tanta cura, che di continuo hanno di loro senza stancarsi mai, ch'essi ancora sanno quanto loro ornamento e quanto abbellimento questi sien loro, delle quali qual che si voglia una, e sia quanto vuol bella, di questi priva dispiacerà affatto; se fosse ben la dea Venere scesa dal cielo, nata nel mare, allevata nell'onde, cinta e accompagnata dalle Grazie e dalla pargoletta turba de' faretrati Amori insieme, circondata del suo cinto, spirando amomo, e spargendo intorno goccie di balsamo, la quale senza crini se ne andasse or quà or , ella non potrebbe pure al suo Vulcano piacere; e per dire brevemente quel che io sento, io dico che alle donne tanta dignità e tanta bellezza arrecano i capelli, che, benchè d'oro, di veste, di gemme e del resto che le abbellisce si mostrino adorne, nondimeno, se non avranno quelli con bell'arte distinti, e sotto legge ridotti, io ardisco dire, ch'elleno non potranno parere ornate e belle in modo niuno. Questi crini adunque, di che noi abbiamo da ornare la donna nostra, saranno di colore che s'assomigli al forbito, puro e ben fino oro, perchè invero le saranno dicevoli vieppiù che se di altro colore essi fossero. Onde in ogni luogo per gli scrittori potete aver letto, auree chiome, crini d'oro, e siffatte voci: il Petrarca nei sonetti, Onde tolse Amor l'oro, e in quello, Se la mia vita, e in quell'altro, Amor e io si pien, e Laura, che'l verde lauro, e nella canzonetta, Perchè quel che mi trasse, e in quella sestina, Giovine donna, e in quella Verdi panni, e Chiare, fresche e dolci acque, e in mille altri luoghi chiaramente per mezzo di Laura, che tali gli avea, ce l'ha dimostro, che aurati debbono essere in ogni modo. Ce l'ha dimostro il Bembo nel sonetto, Crin d'oro crespo, e in quello, Da que' bei crin, e in quell'altro, O superba e crudele, e in ogni luogo quasi; e se non fosse ch'io così apporterei tedio a V. S., io anderei citando oltre all'Ariosto, il Sannazzaro e gli altri divinissimi spiriti, tanti poeti latini, che, veggendo fra loro tanta concordia, direste ben, che la chioma donnesca deve essere quale io la vi ho dipinta. Ad alcuni non è dispiaciuta quella, che del colore dello elettro o ambra si dimostra. Il perchè il Petrarca non tacque in quel sonetto, L'aura celeste, ove dice che l'ambra perde sua prova paragonata con le bionde chiome di Laura. Non ne tacque il Bembo nel allegato suo sonetto. Onde si legge che Nerone chiamava ambro i capelli della sua Poppea dal colore, ambro dico, il cui colore si scorge quasi simile al diafano, o trasparente oro puro, misto però con qualche parte di bianco argento. Ma perchè meno lodevoli e meno cantati sono siffatti crini, io vo', che quelli che stampano meglio il più bello e lucido metallo, che l'auro è, que' siano, come di sopra è stato detto, che hanno da adornare la testa di sì bella e compita donna, e che sieno crespi, come il Petrarca, il Bembo in alcuni luoghi de' componimenti loro sopra citati c'insegnano, e nel suo poema l'Ariosto. Ultimamente fieno lunghi, che siccome il capel brieve all'uomo è alquanto più dicevole, così alla donna viene il lungo a conferire grazia maggiore. Queste tre qualità, ch'io ho posto ne' capelli di questa donna, sono state non senza giudizio tutte in quelli d'Alcina dall'Ariosto descritti. Ora lasciando da canto che la chioma deve essere ancora folta e spessa, che siccome la spessezza e foltezza di lei accrescono grazia, così la rarità la toglie, io vengo a considerare con voi, signori, se male sarebbe questo, benchè più su parmi d'avervi fatto vedere il contrario, darle capelli fuori di legge, e farla andare con essi sopra il collo sciolti, e ricadenti or sull'omero destro, e or sul manco. Virgilio a Venere fattasi allo incontro al suo pietoso figlio Enea, che non sapeva dove si fosse, gli sciolti e diffusi al vento. Ma il medesimo poi a Camilla gli annodati, e a Didone insieme. Laonde si cava, che in amendue le foggie può parer bella una donna. Al tempo di Petrarca, che fu in quegli anni, che in Avignone facea residenza la Chiesa, si costumava in quelle parti della Francia, ove nacque la sua famosa Laura, di portare, sendo donzella, le chiome sciolte, e sendo maritata avvolte in perle, in gemme, od in altro, secondo la condizione d'ognuna. Il che non senza qualche fondamento pare, che un avveduto interprete di lui in quel sonetto, L'aura serena, voglia mostrare, e perciò maritata essere stata la Laura, perchè allora che fu composto il sonetto, dice il poeta ch'ella aveva legate le chiome, le quali al tempo che di lei s'innamorò, che fu secondo alcuni l'anno duodecimo, il decimo mese e il secondo giorno dell'età sua, erano sparte e sciolte. Ma questo se è vero o , altri più curiosi cerchino, e io tornando al lavoro e seguendo, dico, che Ovidio induce Atalanta la figlia di Scheneo comparire alla caccia d'un terribile cinghiale col crine semplice, e in un nodo avviluppato. Ma non più di questo, e la conclusione in ciò sia, che questa donna tenga e porti i capelli suoi dorati, crespi, lunghi e folti, in bionde trecce avvolti, e non già celati in rete niuna d'oro e di seta, ma scoperti sì, che ciascheduno li vegga senza maledire cosa alcuna, che li contenda agli occhi suoi.

Era, parlando, trascorso infino a qui l'eccellente Dottore, e già facevasi, quando il signor Pietro disse:

Deh, signor Dottore, non vi rincresca palesarci qual sia stata colei, la cui bellissima chioma riducendovi a mente, voi l'avete data a questa donna, che procuriamo di formare or ora caldi, come si vede, e anzi attenti che no.

A tal dimanda il signor Dottore, e per non mostrarsi scortese e duro, e per scoprire che non in vile e sozzo, ma in gentile e bel luogo aveva santissimamente collocato il cuor suo, lietamente così rispose: Fu la gentilissima ed onestissima sorella vostra la signora Ortensia Arigona, quella, signore, i cui folgoranti e biondissimi capelli veggendo io col pensiero (non li potendo con questi occhi scorgere) mi misi a porre l'idea di loro, e a donargli a questa donna nostra per tale dover essere, quando fia fornita, quale ella è, cioè da tutte le parti bella e perfetta a meraviglia.

Risero qui i compagni, e poi soggiunse dolce ridendo il signor Pietro:

Adunque voi, come chiaro qui veggio, siete il vago della sorella mia, ch'io non so come e quando d'averlo più compreso da voi; e meno da altrui; ma ben caro e dolce vi può essere l'averlomi scoperto qui alla presenza di questi signori, ch'io vi giuro di far si con essa lei, che crudele, fera ed empia; non vi sarà giammai, ma in tutti quei modi, che una gentildonna pari a lei scarsa del suo onore più che di cosa alcuna, può esser, larga e cortese per lo innanzi vi si dimostrerà.

A questo: o me beato, gridò l'eccellente Dottore, e rendè per allegrezza lagrimando mille grazie al signor Pietro, il quale, come l'amante sua ne avesse l'onore in avere i capelli della donna, avendoli pur troppo simili la sorella, che le li aveva dati, non ne fe' più conto. Ma gli altri tre furono di parer contrario, e l'uno dopo l'altro pianamente si sforzò di far chiaro apparere, che se le condizioni de' capelli concessi alla donna più minutamente si considerassero, altra donna non doveva riportare il vanto della vittoria, salvo che la sua, e questo, soggiunsero poi, con pace di qualunque si trova offeso. Non ha la mia, diceva il signor Vinciguerra, sostentando l'onore della vostra, che sua chiamava, onorata signora Ottavia Picezza, tutte le date qualità? Io non credo che Venere co' suoi bellissimi crini, possenti a smarrir l'oro, l'ambra e il Sole potesse in modo alcuno contrastar co' suoi bellissimi crini; non anderebbe di pari il biondo Apollo, e con quelli della mia, quasi purissimo specchio lucenti, e tersi, quali si potrebbono agguagliare? Disse poi il signor Giacomo: Io non mi fo a credere che mai Ninfa niuna, o Grazia, al tempo dolce dell'anno, quando per le verdi e fiorite campagne accolte van danzando, e scherzando insieme, spiegasse all'aura soave i più vaghi, i più netti e i più amorosi capelli. Ed io, soggiunse il signor Ladislao, che dirò della mia? anzi pur mia, diss'io allora, e tacqui poi seguendo lui così: Abbia ognuno di voi la chioma della sua donna per la più bella e per la più riguardevole, pure ch'io non vaneggi come voi per amore, e non guidichi torto, che torto giudicare non mi credo, non sendo l'amante di colei, che qui onoro e difendo. Ma rendomesser lo giudice, il perché dico non ingannato da amore, che ha in voi, come mi sono accorto, diritto giudicio spento. Che la signora Lucrezia Toronda, dove ha il rispetto con la castità suo nido, di tai capelli nativi è stata dalla Natura donata, di quali fu già mille e mill'anni donato il biondissimo Absalone, e veramente potrebbe essere, che di loro innamorato il cielo gli traesse, e concedesse a quegli parte vieppiù degna assai di quella, dove si stanno que' di Berenice or ora in sommo favore di lui. Avrebbe più detto, secondo l'alto mio desìo, il signor Ladislao, ma non fu lasciato, perocchè volle il signor Pietro con belle ragioni, il che è proprio di lui, che si valicasse ad altro, e qui tempo più non si consumasse.

Compito adunque il ragionare della chioma conveniente alla bella donna, e non aspettandosi altro, salvo che si levasse l'eccellente Dottore per darle qualche altra parte perfettissima, eccolo in piedi di nuovo risorto e dire:

— A me più non spetta egli, signori, di così tosto ragionare intorno al resto di questa donna, e può essere assai questo presso alle signorie vostre l'averle dato io un buon principio.

A queste parole disse il signor Giacomo: Voi mi parete assai debole barbero a tal corso, eccellente Dottore, poichè già vi dimostrate stanco, non avendo appena principiato l'arringo, e, per dirvi il vero, quello è avvenuto a noi, che io già intesi dal mio maestro di scuola essere avvenuto al cavallo d'un Sulpizio Galba, il quale avendo fuori a cavalcare e fare gran viaggio, come fu giunto alla porta per uscire, ecco cadergli sotto e tutto stenderglisi in terra, come se egli fosse stato più stracco del mondo, e avesse camminato dalla Tana al Nilo.

Bella comparazione è questa vostra per la prima, che in mezzo ci avete arrecata, gli rispose il signor Dottore, e, cosa ch'io non avrei di leggieri creduto, a tempo sereno ho sentito cadermi la gragnuola in su la testa.

Signor Dottore, voi siete troppo sottile ad intendere le mie parole così sconciamente, le mie parole semplicemente mandate fuori e senza malizia niuna, gli ridisse il signor Giacomo, quando infine l'eccellente Dottore replicògli: volete ch'io vi dica il Vangelo? Voi siete malizioso più che il fistolo, che vi venga, ch'io non dissi quasi, la fistola.

Ridemmo qui tutti. Alla fine chetati, facemmo tanto, che non fu discaro al signor Vinciguerra di prendere lo incarto su le spalle sue, e di cominciare, poi che si vide dare grata udienza, in queste parole:

Sarebbe stato mio sommo piacere, e forse più bella ventura di questa donna, se o tutte le parti che le si debbono, l'eccellente dottore, o di voi altri più saputi di me, a' quali io non sono di età, d'ingegno, d'autorità da essere paragonato, fosse stato alcuno che, non ricusando quest'impresa, si fosse levato a concedere un'altra o due parti in mia vece all'antidetta donna. Ma avvenga ciò che si vuole, ch'io non mi curo di nulla, purchè si soddisfaccia a voi, che mi potete mandare e per fuoco e per armi, qualora ve ne venga talento. Rendute a lui perciò grazie infinite, prese il cammino dal signor Dottore lasciato, e seguitò così: Questa donna infin'ora ha solamente i capelli avuti, ai quali io aggiungerò gli occhi e la fronte. E sappian le signorie vostre che, quantunque una bella chioma molti cuori allacci, come nel lamento d'Isabella e nelle bellezze d'Olimpia l'Ariosto, e il Petrarca nel sonetto. L'aura celeste, e il Beinbo in quello, Son questi quei begli occhi, e in quello, Da que' bei crin, e di nuovo il Petrarca nella canzone, Quando 'l soave mio fido conforto, ci hanno mostrato ben chiaro, non di meno gli occhi di una donna sono quei che più attirano e allettano l'uomo ad amare, ed a farsi servo d'amore, per giudicio mio, che ciascheduna altra bella parte e riguardevole. Laonde il Petrarca nel suo primo sonetto ci scopre, che gli occhi bei di Laura tutta vaga furono quelli che lo legarono e involsero nell'amorosa rete: il medesimo afferma Properzio; e, ditemi per cortesia, quando Cimone vide gli occhi della bellissima Ifigenia, non restò egli del tutto preso, e senza verun sentimento? Dimandate la figlia del Sole, Circe a che partito fu ella quando scorse la luce degli occhi del re Pico. Dimandate quella innamorata matrigna presso ad Apuleio nell'Asino, quando le venner veduti gli occhi del figliastro, e vederete come amore più s'asconde negli occhi che in qualunque altra parte che vi sia. Questi, per essere fra gli altri sensi nobilissimi, ha voluto l'alma natura porre in su la cima di tutti, e a tutti sovrastare. Questi, secondo alcuni, distinguono la vita dalla morte. Mancar di questi egli è una sorte più crudele di qualunque più crudel morte. Il perchè non mi sazio mai dal meravigliarmi di alcuni e di alcune, che se gli cavarono gli occhi e poterono vivere più oltre. Io non leggo mai di Tiresia, di Antipatro, di Didimo, di Omero, di Diodoro stoico, di Caio Druso, di Appio Claudio, di Sansone, di Asclepiade, di Lippo, di Annibale, di Tobia, e finalmente del re di Boemia Giovanni, che fu al tempo del Petrarca, che non mi venga una pietà di loro più che mezzana. Non bisogna andare con ragioni false sofisticando che alcuni fecero bene di privarsene; egli si vede chiaramente che fu una pazzia la loro. Oh come diversamente da questi tempi camminava Stesicoro, il quale, avendo inteso che la luce degli occhi suoi gli era stata tolta non per altro che per aver biasimato la bella Elena, subito per riaverla mutò canto, e dove di lei aveva detto male per lo addietro, incomincio per lo innanzi a dirne altrettanto bene, e così riebbe la cara cosa perduta. Ma io torno agli occhi della donna. Questi io vo' che negri sieno come una matura oliva, come una pece, come un velluto, e tali che si assomiglino a due carboni negrissimi. Questo ha piaciuto sempre ai romani ed ai greci nelle loro donne, ed ora pare che comunemente in Italia piaccia. Il Petrarca nella seconda canzone delle tre sorelle loda in Laura l'occhio nero, e in quella, Verdi panni. L'Ariosto parimenti in Alcina e in Angelica. Il Pontano in Fannia nel primo libro de' suoi Amori; Properzio in Cintia nel secondo de' suoi; Orazio in Lica nell'ode, il quale anche nella polemica ne parla di siffatti occhi. Il Boccaccio, se la memoria non m'inganna, della Fiammetta parlando, dice ch'avea a quei d'un falcone simili gli occhi suoi, i quali occhi sono anzi vivi che no, come noi abbiamo più volte potuto vedere. Ma qui mi sovviene quello ch'io ho letto presso un buono scrittore francese. Questi, avendo detto quel che di sopra ho io riferito, cioè che ai romani ed ai greci altresì piacque l'occhio nero, soggiunge poi, che egli non può non meravigliarsi come stia questo, che francesi e germani amino di vedere nelle loro donzelle l'occhio sereno, e, com'io credo, di zaffiro, poichè tutti i ritratti che mi sono venuti agli occhi dalle parti della Magna recati, hanno si fatti lumi in dipinti. Di questi occhi ne veggo fatta menzione dal Petrarca in quella canzone Tacer non posso. Ma stia ognuno nel suo parere; a me piacciono gli occhi neri.

Ahi, diss'io allora rivolto al signor Ladislao, come potrà mai la mia dolcissima Toronda, perfettissima opera di Natura, in questi occhi neri, avendogli ella zaffirini, assomigliarsi alla donna? Ma consolato per essere ancora questi begli occhi e famosi assai, come pure conferma nella sua lettura il Ruscelli, terrò che dalla bellezza e perfezione di lei prendano denominazione di bellissimi e perfettissimi non men questi che gli altri da voi descritti; e così il signor Vinciguerra riprese il parlar suo.

Vorrei poscia, soggiunse, che fossero non vaghi no, ma parchi a muovere e pietosi in riguardare, il che in quei d'Alcina ci dipinge l'Ariosto, e invero pur troppo bene, perchè un occhio, nel quale suole abitar l'animo e vedersi chiaro s'egli è incostante e mobile scopre poco cervello, come allo incontro molto quando però alle volte si gira e ruota dolcemente intorno e con quella pietà che si conviene alle belle vergini, alle quali se bella faccia e il tutto bello ha conceduto Natura, non però vuole ch'elleno abbiano petto ferrigno e cuore di diamante verso coloro, i quali l'hanno invece di Sole alla lor vita dolcissimo e chiarissimo.

Queste ultime parole del signor Vinciguerra giudicammo noi tutti essere state da lui dette in dimostrazione della fierezza che a voi, monsignore, avesse usato, o usasse a vostra bella e amorosa Picezza; e tanto più venimmo in questa opinione prestamente, che sapevamo lui essere nostro difensore in tener ch'ella fosse la più bella donna delle nostre, e non avere poi il medesimo bella innamorata; ma egli negò questo con dire, che dove procurava di mostrare prima e maggiore bellezza, che non è nelle nostre, essere e ritrovarsi nella nostra Diva, e che in bella donna non dee crudeltà annidarsi, egli farebbe contro accennando questo, e torrebbe alla donna nostra alquanto del suo bello. In fine poi disse, che ciò ch'egli avea detto allora che fu interrotto, aveva detto per tassare il vizio delle belle donne, cioè la crudeltà e non attribuirlo a quella donna, da cui esso ogni imperfezione voleva essere lontanissima.

Così detto si mise a seguire, soggiungendo: Poichè ho dimostrato gli occhi di questa donna dovere esser neri, non erranti e pietosi al guardo, io voglio anco che sieno luminosi e sfavillanti in guisa che contendere con le chiarissime stelle nel limpidissimo e serenissimo cielo scintillanti possano senza vergogna niuna. Tali erano quelli di Dafne fuggitiva; alti quelli di Narcisio, come ci scopre Ovidio; tali quelli di Laura, come ci mostra il Petrarca nel sonetto, Amor, e io si pien di meraviglia, e in quello, Quel sempre acerbo, e in altri luoghi assai; tali quei di Amaranta presso al Sannazzaro; tali quei di Antia bella innamorata di M. Tito Strozza il padre, presso al primo libro de' suoi Amori; tali quei di Sulpizia presso a Tibullo al quarto libro; tali quei di Cintia presso a Properizo al secondo; l'Ariosto in Alcina paragona gli occhi di lei iperbolicamente al Sole. Il che veggio aver fatto il Petrarca ne' sonetti, Qual ventura mi fu, e I' vidi in terra. Ma in questo vien piuttosto a preferirgli al Sole che altrimenti, dicendo:

 

Ch'han fatto mille volte invidia al Sole.

 

Le palpebre sieno degna casa di loro, cioè belle a meraviglia. Le ciglia negre come indiano ebano, e tranquille anzi che no; cosa che mostra il Petrarca aver avuto Laura ne' sopra allegati suoi due sonetti. Le sovracciglia poi, chiamate archi dall'Ariosto, saranno negrissime, sottilissime e minutissime. Ma tempo è che io venga alla fronte della donna, la quale, senza ch'io mi stia troppo ad intricare in parole, sia larga, alta, lucida e piena di divine bellezze, e brevemente tale, quale il Petrarca vuole essere stata quella di Laura nel sonetto, Onde tolse Amor l'oro, e quella della sua amorosa nel secondo libro de' suoi Amori lo Strozza il figlio.

Già pagato il debito e sodisfatto alla promessa, aggiunse poi al suo ragionare queste quattro parolette il signor Vinciguerra:

Onestissima cosa pare a me, e tanto giusta del mondo che abbia ad esser questa, onoratissimi signori, che avendo io mostrato quali occhi e qual fronte si richiegga a questa donna, voi non vi lagniate in guisa niuna se io le agguaglierò gli occhi neri e ampi e pieni di bella gravità con naturale dolcezza mescolata; lampeggianti come due fuochi del cielo minori nei lor vaghi e vezzosi giri della bella Picezza, vita del nostro monsignor Manino, fondamento singolarissimo del regno di amore, e unica sostanza delle tre Grazie; se io le agguaglierò, dico, gli occhi con le vaghe palpebre, nere ciglia e sovracciglia di lei, lasciando la fronte, (nel che io so ben ch'io potrei ancor contendere e riportarne anzi onore che no) ad alcuna delle vostre, onde poi ella si pareggi all'antidetta donna.

Non riuscì l'avviso del signor Vinciguerra, perocchè tutti baldanzosi e instantemente negavano ciò doversi con ragione ammettere, e tanto più che ne cadrebbe vergogna nelle donne loro, succedendo il suo proponimento. Il signor Ladislao, che poco in questi occhi s'avviluppava, attendeva ad accordar le parti, perchè si seguisse, dicendo:

— Se gli occhi della riguardevole Picezza sono sembianti a quei di questa donna, gli occhi come il Sole proprio lucenti, e quello che per appresso dimandate voi, signor Vinciguerra, della non mai abbastanza lodata donna dell'eccellente Dottore, l'Arigona altiera, dico, non vi si disconvengono. Non vi si disconvengono gli occhi della candida Rosa del qui gentilissimo signor Giacomo, i quali soavi, anzi la stessa soavità e dolcezza, e chiari più di ogni chiarezza, hanno forza di far giorno sereno l'oscura notte. Non vi si disconvengono gli occhi della signora Ginevra da Coloreto, co' quali potè far sì, che il cuore del giocondissimo signor Pietro lasciò l'antico albergo e ricovrossi in loro, onde continuo n'escono saette fuori d'invisibile fuoco, che arde e strugge così come il Sol neve. Perchè, signor Vinciguerra, considerate bene il caso e troverete che mal fa colui, il quale vago di uno onorare, a grandissimo torto cerca di tre infamare; e tanto più fa egli male se quelli, a cui procura disonore, vengono ad essere così degni di onore come colui, cui egli vuole esaltare e a tutto suo potere innalzare. Deh piuttosto a quella guisa, che veggiamo le Alcioni racchetar le marine tempeste, le alte azioni di questi signori gelosi della fama delle donne loro, e conseguentemente veri amanti, pacificate e quietate, esponendovi nelle mani di colui, che per ciò è stato fatto giudice e non per altro da tutti noi che qui siamo.

Piacquero sommamente a tutti le parole del signor Ladislao, e così nel giudicio mio fu rimesso qual donna delle loro doveva con giustizia e ragione a quella che si formava cogli occhi, quale colle palpebre, quale con le ciglia, quale con le sovracciglia e quale con la serena fronte d'allegro spazio dante segno di purità andar di pari, oppur quale con le antidette cose tutte.

Io non negherò qui, monsignore, ch'io mi ritrovai allora avvolto in grande impaccio, e volentieri la soma avrei in sugli omeri altrui scaricata; ma pur avendo io loro già fatto vedere come il giudizio non doveva esser precipitoso, ma riposato e maturo, a persuasione mia contentaronsi ch'egli sì differisse infino che fosse data intera perfezione alla donna, che allora non solamente si giudicherebbe di ciò, ma ancora delle altre tutte parti, e così agevolmente ne apparirebbe quale fosse delle loro donne la più bella e la più vaga.

Così ridotte le cose, e prolungato e tramutato il giudizio, che si doveva fare di particolare in universale, ch'egli adunque si segua l'impresa, disse il signor Giacomo, e non si stia a perder più tempo. Oh! lieve perdita è questa, soggiunse il signor Vinciguerra. Non mica, rispose l'eccellente Dottore; perocchè non si può ristorare, ma ben più grave sarebbe stata la nostra con voi, e delle nostre con la donna che difendete, se perdevamo. E che? credete di guadagnar con meco? replicogli il signor Vinciguerra; non sapete voi qual sia il mio nome? Sì, lo so, ridisse a lui il signor Dottore, e proprio per questo io e gli altri speriamo di vincere con voi, perchè tutto udiamo un nano chiamarsi Atlante, un moro, cigno, una picciola e storpiata donzella Europa, i cani pigri e per l'antica scabbia pelati e leccalucerne Tigri, Pardi, Leoni, e se qualche cosa è che più terribile sia.

A queste parole stette mutolo, ma sorridendo il signor Vinciguerra, e venne presso al signor Dottore per vedere, dacchè egli era stato pungente come il tribolo nel parlare, se aveva lo scillinguagnolo in bocca. Il che avendo noi preveduto, credemmo di smascellar per le risa, e facemmo sì, che non ne fu altramente accorto il signor Dottore. Compite le risa, e non facendo motto cenno alcuno della compagnia, il signor Giacomo e gli altri vollero che per cortesia fosse contento il signor Pietro di seguitare, e egli, poi che alquanto ebbe tenuto a terra chinato il viso, tutto festevole incominciò:

— I crini il signor Dottore, gli occhi con non so che aggiunta e la fronte il signor Vinciguerra, e io vi darò perfetta la testa di questa donna, se le signorie vostre non si graveranno d'udire, e di prestarmi per poco spazio, che poco spazio chieggo, le purgatissime orecchie loro.

Tacendo tutti e tutti mostrandosi intenti:

— Dal naso, soggiunse il signor Pietro, prenderò del ragionamento mio principio. Questo, se io non erro, riguardevole è tanto in noi animali razionali che per avventura non si estimerebbe giammai; e siccome finte treccie le donne, e gli uomini capelli trovano alle volte per servirsene, e altresì gli occhi, così n'ebbe di quelle già e di quelli, e forse n'ha in qualche luogo ora, che senza vero naso veggendosi, appararono un modo di così ben attaccarne un falso in quella vece, che vero e naturale egli potè a qual uomo, che vi riguardò e pose cura intorno, apparire anzi che no. Gli Egizj per pena del commesso adulterio volevano, e chi sa che oggi parimenti vogliano, che l'adultero fosse stranamente flagellato, e l'adultera senza naso ne rimanesse, per altro se non perchè la faccia sua in quella parte venisse a farsi deforme e sozza, nella quale massime suol bella e vaga a' riguardanti mostrarsi. Questo adunque, che si dee dare alla donna, fia per la mia estima picciolo, che invero un grande deforma assai una donna, come mi sovviene d'aver già letto, al tempo ch'io era scolare, in Orazio alla seconda satira; in Mario Equicola in quell'opera ch'ei fece della natura dell'amore; e, se ben io ricordo, poco fa nell'Ariosto, dove parla delle bellezze d'Alcina; fia, dico, picciolo e graziosamente locato in tanto, che Momo ne lo possa lodare, e l'invidia non emendare. Ora spedito così brevemente dal naso, stendo a farvi vedere quali devono essere le guance di questa donna. Le guance di questa donna saranno tenere e morbide, assomigliando la loro tenerezza e bianchezza con quella del latte, se non in quanto alle volte contendono con la colorita freschezza delle mattutine rose. Empiranno di vaghezza gli occhi, che le mireranno; se vermiglie e bianche insieme verranno a figurare quelle della vergine e cacciatrice Dea dei boschi, qualora ella si giace e si riposa dopo l'aver perseguito e cacciato i fuggitivi vivaci e ramoruti cervi, le damme imbelli, i cavrioli leggeri e i timidetti lepri. Piaceranno sommamente se si scoprirà in loro il bianco giglio e la vermiglia rosa, il purpureo giacinto e il candido ligustro; e finalmente se sieno tali quale n'è data a vedere talora l'aria, ove gelata al suo antico soggiorno incomincia prima a correre l'aurora, e indi a poco, levato il sole, oggimai imbiancarsi, e divenire candida e tutta neve. Tali non spiacquero all'Ariosto, ove scopre le bellezze d'Alcina. Non spiacquero al Petrarca nel sonetto, Io canterei d'amor, e alla canzone, il cui principio è: In quella parte. Non spiacquero al Sannazzaro nelle bellezze di Amaranta. Non spiacquero a messer Ercole Strozza nel secondo de' suoi Amori. Non spiacquero a messer Fausto Andrelino nel terzo de' suoi, e finalmente a niuno, ch'io mi sappia, giammai.

Così detto, e pensato un poco:

— Alla bocca con vostra licenza trapasserò, soggiunse il signor Pietro. Questa di picciolo spazio contenta, viene non poco di grazia ad una vergine a porgere, e però in Dafne fugace picciola la pone Ovidio nel primo delle sue Tramutazioni; picciola in Polissena nel terzo decimo delle medesime; Virgilio altresì nel primo della sua Eneide picciola la alla dea degli amori Venere bella; picciola alla Fiammetta la il Boccaccio; picciola il Bembo nel suddetto luogo ad ogni damigella che vaga vuole apparire. Ma le labbra, ove lascio io? Queste piacque al Boccaccio, pur parlando della Fiammetta, di rassomigliare a due vivi e dolci rubinetti; e al Bembo all'antidetto luogo ai medesimi, ma aventi forza di riaccendere desìo di baciargli in qualunque fosse più freddo e svogliato. Piacque al Sannazzaro di agguagliarle alle mattutine rose nell'allegato sonetto di sopra, anzi di preporle. Agli Strozzi, padre e figlio, delle sue belle donne parlando, non spiacque il medesimo. Il Petrarca contentossi nel secondo capitolo della Morte farlene simili, parlando della sua Laura così:

 

... poi mise in silenzio

Quelle labbra rosate insin ch'io dissi.

 

Altri, come Ovidio, le stesse labbra, o pur le gote hanno paragonate al porfido; ma insomma non vi è differenza nel colore, ch'egli è tale nel porfido quale ne' rubini e nelle rose. Ora è da vedere quali devono essere i denti di questa bellissima donna, della quale se nel parlar mio vi pare ch'io troppo mi affretti stasera per ispedirmene, iscusimi appo voi il non essere naturalmente io lungo e tedioso nel mio, ragionare; iscusimi il signor Dottore, che ha favellato lungamente e il signor Vinciguerra, benchè l'uno e l'altro divinamente, iscusimi l'ora tarda, e vicina oggimai di posarsi.

Queste quattro parole traposte nel suo ragionamento seguì poi il signor Pietro:

— Il Petrarca, nel sonetto Onde tolse amor l'oro, e in quello Non pur quell'una bella, e in quell'altro, Quel sempre acerbo; l'Ariosto, nelle bellezze d'Alcina, il Sannazzaro in quelle di Amaranta, e parecchi altri scrittori, che, per esser breve, qui non allego, vogliono e sommamente lodano in una donna denti simili a perle. Denti simili a perle essere stati que' della sua ci mostra il Bembo nel sonetto, Crin d'oro, denti d'avorio commenda l'antidetto Petrarca nel dialogo ch'ei fa della rara bellezza del corpo; gli commenda nella sua Diva messer Ercole Strozza nel secondo de' suoi Amori; gli commenda messer Ortensio Lando nella gentilissima boccuccia del morto pidocchio di frate Puccio.

Queste parole mandate fuori così, ridendo alquanto e sogghignando, dal signor Pietro fecero sì, che di noi non fu pur uno che non ridesse e sogghignasse insieme con esso lui, il quale poi così riprese a dire:

— Della carissima signora e animosa Zenobia io mi credo ben che le signorie vostre molte e molte cose abbiano perinfinora letto, ma io non so, e forse che sì, se questa giammai.

E quale è questa cosa di questa reina d'Oriente? disse qui il signor Ladislao. Questa, gli rispose il signor Pietro, che molto è al proposito nostro: Che ella, come scrive il Petrarca nel dialogo de' dolori de' denti, fra le altre sue bellezze ebbe così bei e così candidi denti, che a' riguardanti, qualora avveniva ch'ella parlasse o ridesse, pareva che la sua bocca fosse ripiena non di denti no, ma di bianchissime margarite; e che dirò della figlia del re di Ponto Mitridate, la quale si legge aver avuto le filze e gli ordini di denti gemini e doppi? che di Prusia re della Bitinia, o, per dir meglio, di suo figlio, a cui la Natura, cosa che d'alcun altro non mi ricordo mai di aver letto, concesse invece de' denti di sopra un sol dente uguale a tutti quei di sotto, cioè un osso steso dall'una all'altra mascella, e non già senza vaghezza? Resterebbemi a dire, volendo del tutto attendere alla promessa, del mento di questa donna, e delle orecchie, il che fatto, fornita si troverebbe la testa di lei, ma non veggendo io farsi menzione da scrittore niuno di queste due parti, isforzerommi di pagare il debito col dire che elle devono esser simili a quelle, delle quali infinora se n'ha ragionato assai, cioè riguardevolissime e vaghissime in ogni modo.

Qui pose fine al suo ragionare il signor Pietro, e volle, non ricusando ciò il piacevolissimo e veramente gentile suo cognato, e meno noi altri per esser l'ora assai tarda, che fosse in piacere di tutti l'andarsi ognuno oggimai a riposare, che la sera poi seguente si tornerebbe alla intralasciata donna ed agli intralasciati ragionamenti di lei.

 

 

FINE DEL LIBRO PRIMO




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