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Federico Luigini da Udine
Il libro della bella donna

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  • LIBRO TERZO
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LIBRO TERZO

 

Dubbio, e gran dubbio nel vero hanno avuto già i savi del mondo intorno alla difinizione dell'uomo, onorato monsignor mio. Perocchè alcuni vollon che l'anima sola, alcuni che il corpo solo fosse l'uomo, animal sovra tutti gli altri creato, e di tutti gli altri di grandissima lunga il più degno e il più meraviglioso ancora.

Quelli, difendendo l'opinione e il parer suo come buono, dicevano così: Siccome questa voce cavaliero propriamente favellando non viene a significare cavallo, ma solamente l'uomo, nè l'uomo ancora si chiama cavaliero s'egli non usa il cavallo, così l'anima sola dice essere l'uomo, ma non però s'ella non si trova ad essere nel corpo.

Questi per lo opposito, argomentano così: Siccome questa parola bicchiere solamente viene a significare il vaso, ma si però che alle volte uggia il vino dentro di sè, così il corpo è solamente l'uomo pure ch'egli tenga in sè l'anima serrata e chiusa.

Chiunque considera queste due opinioni tanto diverse, e lontana l'una dall'altra, trova alla fine che nè quelli nè questi hanno il suo intento. Perciocchè quelli quantunque dicano l'anima sola esser l'uomo, pure il corpo è non so che, poi che ve la rinchiudono dentro, e senza non possono fare. Questi parimenti mi pare che s'avviluppano il cervello e si contradicono, perciocchè volendo eglino che il corpo solo solo sia l'uomo, ma non però s'egli non ha l'anima in sè, egli è di necessario pure che l'anima sia qualche cosa anzi che no.

Platone, come recita ancor nell'Idea del teatro suo messer Giulio Camillo, induce Socrate nel dialogo intitolato Primo Alcibiade, ammettere la prima opinione. Perciocchè, dice il Camillo, siccome la testa che portiamo non è noi, ma cosa usata da noi, così il corpo, ancor che sia portato da noi non è noi, ma cosa usata da noi. Le quali parole ci danno ad intendere, che Socrate appresso Platone si faceva un poco meglio intendere, e voleva veramente che l'anima sola, o giunta o non giunta al corpo, fosse l'uomo. Poi che il Camillo paragona il corpo alle vesti, delle quali benchè l'uomo sia, privo e senza, nondimeno egli è pur quell'uomo che è con esse, e in esse.

Quinci è che il detto Platone, (il quale inducendo a parlare così Socrate suo maestro, non poteva aver per giudicio d'ognuno altro parere) usava di dire che non era l'uomo quello che si poteva mostrare col dito. Quinci è che Seneca chiamava il corpo casa dell'uomo. Laonde credo che uscisse perciò quel motto contro Galba imperatore gobbo, Galba non abita bene. Quinci è che Cicerone nel sogno del minore Scipione (il che toccò nella sua Africa il Petrarca, e in uno de' suoi dialoghi) volle che fosse il corpo quasi una rocca o torre, alla cui guardia stesse l'uomo. Nè ciò spiacque all'acuto Landino alla vigesimaquarta ode di Orazio. Quinci e che or ricetto, or gonna, or prigione, or velo, ora spoglia nel Petrarca e nel Bembo è chiamato il corpo. Quinci è finalmente che il santo e afflitto Giobbe diceva al Signore: Di pelle e di carne tu mi hai vestito, e d'ossa e nervi mi hai composto e fabbricato. Della seconda opinione parmi coloro essere stati fautori, che han detto che il corpo è solo nostro, e che con noi nasce e muore: e l'anima poi generale sì, che le più volte trapassi in altri corpi, e però non nostra.

Ma noi vegnamo, da che la vera definizione stacci ancora ascosa, a definire veramente l'uomo come si dee.

Dico adunque che nè l'anima sola, nè il corpo solo, ma l'uno e l'altro vengono a definire l'uomo, e crediamo fermamente che l'anima razionale e la carne insieme facciano un uomo, e che altramente egli non sia, e s'egli è, egli è mezzo e non intero in ogni modo. Ma dirò bene che la migliore e maggiore parte dell'uomo è l'anima, perocchè è durevole e sempiterna, dove l'altra è debole e mortale. Il che così essendo senza dubbio niuno, gran meraviglia mi viene alle volte pensando onde ciò nasca, che di piacere al corpo ci affatichiamo quanto per noi si può generalmente ciascuno; all'animo non così molti risguardano e, per dir meglio, pochissimi hanno cura e pensiero.

Ma chi non vede che quegli uomini, i quali nelle ardenti e sanguigne porpore, e nelle terse e lucide sete, e nell'oro stesso cotanto pregiato, curano di fasciare l'esteriore, e delle più rare gemme adornarlo, lasciando ignudo lo interiore uomo dalle vere e sode virtù, e non pure adombrato d'alcun velo o filo del buon costume, si ponno ragionevolmente pareggiare ai tempi d'Egitto, i quali, bellissimi di fuori e con meravigliosa arte dirizzan, aveano di dentro, invece di qualche simulacro di vino, o gatto, o aglio, o cipolla che pazzamente vi s'adorava? o pure a qualche sepolcro, il quale dentro essendo arido e incolto, di fuori mostra a' riguardanti belle imagini di marmo ad oro lavorate, e polite con grande spesa, e con non poco disdegno degli artefici?

Non furono tali, e non sono i gentiluomini, di cui abbondevolmente è stato ragionato negli antidetti libri, perciocchè, siccome eglino sono di virtute albergo, e pieni infino in colmo di bei costumi e di cortesia, e finalmente di tutte quelle parti che si convengono ad essi, così volendo ciò nella donna loro vedere (che altramente non la giudicherebbero con tutte le sue e tanto perfette bellezze esteriori bella) sursero secondo l'usanza, venuto che fu il mattino, e secondo l'usanza fatti, ma non indarno, volare i falconi, e tornati al veramente divino palagio, e ristorati al debito tempo per mezzo della superba e ricca cena, si fecero appresso il vicino e ardente foco, dove poi che assisi tutti si furono allegri quanto si potria dire il più e nella fronte e nel cuore, si misero un poco così vicendevolmente a pungersi, ma non fra l'unghie e la carne, e così poi a ridere dolcissimamente dopo la lieve e non dolente puntura.

Alla fine, veggendo eglino che quella dovea essere l'ultima notte, e che la donna dipinta e formata bellissima, quanto spetta alla parte di fuori, si dovea da loro dipingere e formare (perchè così venisse ad essere perfettissimamente bella sì che nulla le mancasse) ancora quanto spetta alla parte di dentro, vennero a dire che, ragionato alquanto per ischerzo in materia del belletto che usano, quelle donne, che sono sute malamente avvezzate di porsi sul viso, non sarebbe se non buono di cominciare la impresa, e non lasciare andarsene il tempo, che mai non torna indietro poi che una fiata se n'è fuggito e scorso.

Per la qual cosa fu dato l'assunto di fare il tutto al signor Ladislao, mio fedele Acate, sì perchè egli meno per l'addietro di tutti avea ragionato e perciò ne faceva istanza, sì perchè di spedita lingua e dolce parlare dotato, non poteva non sommamente a tutti piacere ed essere pienamente in grado, e sì ancora perchè mostrava di aver un fianco e una lena siffatta, che senza stancarsi mai avrebbe potuto la notte intera trapassare ragionando. Il perchè egli, egli senza usare gli increscevoli e cerimoniosi giri delle belle parole, dopo che ebbe tutti ringraziati e lodati per l'onorato incarico che gli avevano conceduto di dire, a così favellare incominciò tutto allegro:

Della stomacosa e piena di lezzo composizione del belletto, di cui si adornano, anzi sconciano delle donne assai così nella nostra come nelle altrui terre, io, signori, non mi voglio porre al rischio del parlare, che lordissima cosa e sozzissima essendo, come ognuno di noi può saper chiaramente, egli potrebbe di leggieri avvenire che me ne verrebbe tal fastidio e nausea, che non che quello, che nello stomaco ho di cibo preso, non appena gli spiriti riterrei nel petto; e poi io non vi avrei buoni ascoltatori, essendo simili e conformi a me voi, ai quali cerco che il mio ragionare piaccia, e non porga dispiacere, e talento di via fuggire e lasciarmi qui solo, come forse accadrebbe se io vi ragionassi di quello che non mi piace e non mi aggrada in modo niuno di ragionare. Parlerò io adunque più volentieri della spiacevolezza, della vergogna, e del danno doppio di quelle cotali, che per questa via e per questo mezzo procacciano di parere belle e colorite ai riguardanti, sendo tutte le simili a quelle maschere, che modanese s'addimandano, o a quei pomi (o vendetta di Dio chi te n'obblia?) che Gomorra produce e crea; la spiacevolezza adunque è anzi grande che no, e io dirò questo di me, che non mi viene mai veduta (che pure me ne viene veduta alcuna) alcuna di queste cotali donne, ch'io non le fugga con maggiore prestezza, e più volentieri assai, che se senza questo fattibello andassero, per le calli, e per le contrade vieppiù brutte, che non fu mai, come dice il Boccaccio, il saracino della piazza, o qual si voglia de' Baronci. Elleno fanno come coloro, quali, volendo schivare la cariddi, s'intoppano nella Scilla, e, come dice il proverbio, cascano dalla padella nella brace, quella donna imitando, la quale essendo stata da una sua vicina chiamata fuori di casa, avendo ella allora il capo raso e senza capelli, venne, e ragionando con la vicina s'avvide che non avea per una cuffia in testa che le la appiattasse. Il perchè la si coperse con la veste, ma in quella vece scoperse e mostrò quelle parti, che non pur senza vergogna. si nominano.

— Ah, ah, gridarono qui quei gentiluomini, e il signor Ladislao passò oltra senza segno niuno di ridere, dicendo:

— Egli avviene ben così, che (io non vo' dire come alcuni che dicono niuna donna esser savia) delle donne assai ha, le quali per mancanza di buono avvedimento s'attaccano al peggio, e fanno ridere la brigata con queste e simili loro operazioni in parte niuna lodevoli o buone. Ma che diremo noi di quelle che, essendo naturalmente belle e riguardevoli, amano meglio d'andare lisciate che no? hanno queste le traveggole? hanno queste date le cervella a rimpedulare? Non sanno elle dove elle sono? e non sono finalmente in buon senno? O Dio buono, dammi pazienza! Egli è volgare proverbio che una beltà naturale si fa sozza e deforme mediante il liscio; ma sapete che dicono queste che l'adoperano? dicono che ciò ch'è bello in loro per natura egli diviene più bello s'egli si adorna, e si pone cura di abbellirlo ancor più. Oh savie sibille che sono queste tali! Egli non è sempre vero, anzi falsissimo in loro, e in moltissime cose, ciò che esse dicono, alle quali cose belle per sè, se vi si aggiunge altro per più abbellirle, accade che, dove naturalmente erano in vago e ottimo stato, elleno si fanno e divengono men belle e men riguardevoli assai. Non si sa questo, che se una casa magnifica tutta di marmo sarà fatta in qualche luogo della nostra città di Udine, ella fie così bellissima e vaghissima? Ma se il padrone poi cercherà di dipingerla e d'inalzarla, non farà egli una pazzia di Grillo? Non farà questo, che dove ella si scorgeva da tutti riguardevole, di beltà ripiena, ella si scorgerà men vaga e men bella? Poi a cui non è chiaro quello che si legge di Alcibiade? il quale soleva dire, che delle orazioni vestite e tutte artificiate di quel Pericle, nelle labbia del quale, come si dice, sedeva la dea Pito che lo faceva tonare, folgorare e persuadere ogni impossibil cosa, niente vi si commoveva, ma sibbene per le parole ignude e semplici di Socrate. Io vorrei che conoscessero queste donne, che siccome sogliono il più delle volte gli alti e spaziosi alberi negli orridi monti della Natura prodotti più che le coltivate piante da dotte mani purgate negli adorni giardini a' riguardanti aggradare, e molto più per li soli boschi i selvatichi uccelli, sopra i verdi rami cantando a chi gli ascolta piacere, che per le piene cittadi dentro le vezzose e ornate gabbie non piacciono gli ammaestrati, così elleno vengono a piacere più, e sono nel vero più belle, quando, contentandosi della bellezza loro naturale, non curano di belletto, o di che che sia che le faccia andare più adorne e più leggiadre, se questa si fatta viene ad essere leggiadra. Il che non mi piace in modo niuno. Io vorrei che sapesser le medesime, che siccome l'edera per sè viene assai più bella, e più belli sono i fiori coloriti della terra senza altro lavoro, che vi si ponga e ispenda, così elle ci sono, ove non vaghe nè ghiotte di liscio vanno ornate della propria freschezza della carne del viso, e del proprio bello. Io vorrei finalmente che tenessero per fermo; che siccome alle umane menti aggradevole più è una fontana che naturalmente esca, dalle vive pietre attorniata di verdi erbette, che tutte le altre ad arte fatte di bianchissimi marmi risplendenti per molto oro, e i liti de 'loro nativi sassolini dipinti vieppiù dolcemente lucono e folgorano, così elle nè più nè meno ci sono in grado allora che, disprezzate le sozze vie di farsi vaghe, si danno a calcare e seguire quelle, che più essendo degne di loro, più degne e più nette e più polite le rendono anzi che no. Spiace certo ad occhio onesto in ogni donna il belletto, e massime nelle belle e ben create vergini, delle quali il proprio è la semplicità e purità colombina, che tanto piace e diletta in loro. E, oimè, come mai per mezzo dell'amato adoperato liscio ci ponno esse piacere cotanto, quando che infino alle mura affumicate, non che i visi loro ponendovi la biacca diventano bianche, e oltre a ciò colorite secondo che al dipintore di quelle piacerà di porre sopra il bianco? quando che infino per lo rimenare la pasta, che cosa è insensibile, non che le carni vive, gonfia, e dove mucida pareva divien rilevata?

Non così per mezzo di sì fatta spurcizia, che potrebbe far per la stomacaggine uscir le pietre de' muri, e voglia venir di recere l'anima a qual si voglia, accese tanti colei, che ha il titolo d'essere stata cotanto bella, Elena dico. Non così la bella Ippodamia, non Penelope. Non piacque così all'iracondo fiero e gagliardo Achille Polissena; non Iole e Onfale al possente e forte Ercole, e meno Deianira; non Ippolita e Fedra a Teseo crudele e perfido; non a Demofonte la sventurata Filli; non a Giasone Isfile; non a Paride la fedele Enone; non ad Oreste Ermione; non a Protesilao la infelicissima Laodomia; non a Bacco la derelitta Arianna; Dafne al biondo Apollo; Proserpina a Plutone; Venere a Marte, ad Anchise, a Mercurio e al suo caro Adone; Danae, Europa, Leda, e mille e mille a Giove. E per passare nel campo delle istorie, non piacque così al sollecito Iarba la castissima, (e taccia qui il volgo ignorante) e bellissima Didone; non così la modestissima Verginia a quel tiranno, che le fece usar forza. Non così Ersilia a Romulo; Sofonisba al buon re Massinissa; Stratonica ad Antioco. Non così la bella Rachele al paziente padre Giacob; Bersabea al re David; Tamar ad Amone; e la saggia, casta, forte e vaga Iudit al misero Oloferne. Non piacquero così le Sabine ai romani; Livia ad Augusto; e finalmente la famosa Lucrezia a Sesto Tarquinio, alla quale, e ad antidette assai, se la vera e non finta bellezza recò danno, non per altro fu, salvo perchè, come disse il Petrarca, la beltà talora è nociva.

La beltà dico, di cui queste donne poco scaltre e avvedute si mostrano di essere vaghe e desiose sì, che non potrebbero fare senza liscio e senza biacca, anzi, e dirò meglio, senza il suo disonore, che, passando alla vergogna che ne risulta loro, non è disonore questo e grande disonore? Nel vero sì; perciocchè le sfacciate meretrici usano di così ugnersi e colorirsi il viso, e fare intorno a sè quelle tutte cose, che il Boccaccio danna e biasma di cuore nella Vedova che di sopra abbiamo posta nel ragionar nostro. Alle damigelle di buon nome e di buona piega bastar puote l'andar monde da tutte parti, che certo la mondizia così conviene loro, come a noi la fatica non disconviene: oh come bene il Poliziano disse in una epistola scritta alla signora Cassandra di casa Fedele, ch'ella dipingeva la carta d'inchiostro e non il viso di liscio, il quale anch'esse sanno che loro di vergogna e di vituperio assai; e per segno e esempio di ciò, udite quel che io n'ho udito dire altrui buon tempo fa nella nostra terra.

Erasi maritato un gentilissimo e nobilissimo cavaliere lombardo in una sua pari e bellissima giovine, e volendosi celebrare e onorare, secondo che si conveniva al grado di lui e di lei, le nozze splendidamente, furono comprate mille confezioni, mille fagiani, starne, quaglie, capponi grossi, tordi grassi, tortorelle, colombi. Non vi mancò l'apparecchio di mille frutta. Non vi mancarono le loro zuppe, le lasagno maritate, le frittellette sanbucate, i migliacci bianchi, i bramangieri e il formaggio di Parma. Vi si trovaro poi tutti i colori di vini, il bianco, il giallo, il sanguigno, il nero, perocchè vi fu del greco, del corso, del sanseverino, del falerno, del fascignano, del roccese, dell'amabile, del brianfesco, del trebbiano, della vernaccia da Corniglia, e delle altre sorti assai, delle quali, per non parere un Cinciglione, mi taccio per ora; mi taccio i vari e bellissimi drappi, le ricamate e preziose vesti, e tutte quelle cose che spettano ad un paio d'onorevolissime nozze. Ora avvenne che in un superbo e sontuosissimo desinare, che vi si fece, vi si trovarono ad essere convenuti conti, cavalieri, e gentiluomini assai e donne pregiate, belle e ricche altresì, molte fra le quali, come accade, v'ebbe di quelle che lisciate e sbellettate comparvero. Per la qual cosa gran desio nacque a qualunque di loro, che di naturale bellezza andava ornata, di fare tutte le altre, che di artificiata vi si vedevano colorite e bianche, rimanere in mezzo di tanti signori beffate e schernite, perchè non avessero mai più di così abbellirsi e ornarsi voglia e talento. Il perchè fecero, di tante che erano, una la quale avesse ad incominciare qualche gioco, e tutte poi camminassono per le sue vestigia, e quel facessero che essa faceva. A questo accordo stettero ancora le bellettate, per cui, nol sapendo elle, vi si tesseva e ordiva una tal trama. Colei adunque, ch'era fatta loro presidente, surse, e fece che tutte sursero dopo il disnare allegre. Andò poi nel mezzo di esse in giro stantisi, e così lieta dopo d'aver fatto molte cose, nelle quali fu imitata e seguita da tutte le altre, che ciascuna, secondo la legge del giuoco, facea sempre quello, che ella primieramente incominciava a fare; finalmente, rivoltasi ad un'ancella, comandolle che le recasse un bacino d'acqua pieno, il quale venuto, ella il prese, e fermatolo su uno scanno, mise dentro l'una e l'altra mano e lavossi il viso, che venne di bello ancora quasi più bello; così fecero le sue compagne. Le altre, veggendosi quasi topolini dalla gatta presi, vollono tirarsi indietro e rifiutar di far questo; pure tremanti vi si posero a farlo, e furono conosciute con lor grande vergogna alla fine per grinze e crostate, e aventi il viso verde e qual piede d'astore, o bosso giallo, mal tinto, d'un colore di fumo pantano, e intanto contrarie a quel che parevano dianzi, che niuno l'avrebbe potuto credere che vedute non le avesse. Oh come sarebbe stato il meglio a queste di comparire con quella faccia che loro avea concessa la Natura, e non con biacca, con lisci, olj, con pezzuole, pelandosi, strisciandosi, e facendosi quel tutto intorno; che l'Ariosto nella Cassaria e in una satira accenna a chi attentamente la legge! Non sarebbono rimase sì vergognate no, perchè, siccome la sola virtù fa l'uomo e la donna gloriosi, così il solo vizio li fa andare infami e pieni di vergogna, e denigra loro la fama loro vieppiù che pece e corbo non è. Ma perchè oggidì la verità viene a partorire in alcuni uomini e in alcune donne piuttosto odio che amore, e disdegno che benevolenza, cosa buona sarà ch'io lasci assai di quello che avrei e mi resterebbe da dire intorno alla vergogna, che le lisciate donne hanno e sofferiscono di continuo, e valicherò brievemente ragionando al danno grave sì del corpo loro e della vita che abbelliscono, come dell'anima, che lasciano, oimè pure sconciamente, troppo deformarsi, e irrugginire a pieno.

— No, no, dissero qui i compagni tutti; seguite pure della vergogna di queste bellettate, e verrete poi al doppio danno, e poi ad altro che vi resta anco di dire al cospetto nostro, e non abbiate paura di rinnovare l'esempio antichissimo d'Orfeo.

— Chi mi assicura di voi, rispose loro il signor Ladislao, che non m'abbia a cader in sul capo qualche ruina? Io vi dico, soggiunse poi, che non valse nè la poesia, nè la cetera, nè l'archetto, nè Calliope, nè quanto ebbe di buono al già detto Orfeo contra il furore delle donne, che a brano a brano l'andaro stracciando. Non valse nulla a Tamira contro quello delle Muse che lo cecaro. E se non fosse stato savio Stesicoro che si mise a lodare Elena, dove l'avea dianzi, come di sopra tocco n'abbiamo, biasimata, vi so dir io che gli bisognava, quando stendeva la vita, o il bastone di Tiresia, o il fanciullo d'Asclepiade. E per conchiudere vi dico insomma che le donne non si tengono le mani, come si dice, a cintola quando sono mordute e sprezzate il perchè lasciatemi dire quel tanto che mi resta del danno, ch'io ve ne prego; e mi perdonate se il procedere del gambero non mi piace per ora. Il danno adunque che il liscio reca alle donne, di cui parliamo, è gravissimo, e se non fosse altra giunta per appresso, elleno doverebbono, se avessero del saggio e cauto Prometeo, e non dello stolto e incauto Epimeteo, fuggirlo come gru falcone, e come timida pastorella il serpe velenoso e crudo; perciocchè elle vengono innanzi tempo a fare il viso incavato a guisa d'incavate colonnelle, e a segnarlo di disdicevoli, e quali veggiamo nei vecchierelli antichi, solchi e falde assai; la bocca incomincia a corrompersi, a mandar fuori un fiato fetido, puzzolente, e quale n'esce o da quella della scaltra e maliziosa volpe, o da quella del generoso e terribile leone. E questi, che furono bei denti forse, poi si fanno negri, e pur bastasse ciò, ma non avviene così, perchè eglino vacillano, e dopo il vacillare cascano sì, che pochi armano la bocca, e que' pochi restano tali, che, come n'è dato a veder la fistola del dio Pane talora, o come sguardiamo le dita nostre, l'uno sendo lunghissimo, gli altri successivamente vanno abbreviando più e più. Ma di ciò ci può bastare quel che n'ha lasciato scritto nella prima sua di sopra allegata satira l'Ariosto, e io verrò all'altro danno maggiore ch'è dello spirito immortale, si privano della beatitudine eterna e del trionfo celeste altresì queste donne. Perciocchè ugnendosi col belletto la faccia che Dio ha lor dato, di non si contentare di lei, come ci disse ieri il signor Pietro, chiarissimamente dimostrano, e non si contentando offendono Colui, che meno di tutti dovrebbono offendere, io dico, l'artefice infinitamente buono, infinitamente giusto e infinitamente misericordioso, Iddio Ottimo Massimo. E perchè io non passi così senza provarlo, udite queste parole verissime di San Cipriano, che grida: L'opra e la fattura di Dio non si dee adulterare in modo niuno; nè con colore giallo nè con negra polvere, nè con rosso, nè con altra invenzione corrompente e guastante i nativi lineamenti, il che qualunque uomo, e qualunque donna fa, e vuol pure reformare e trasfigurare con ogni sforzo o industria il medesimo puntalmente fa, che s'egli li ponesse le mani addosso, e li dicesse: Sta saldo, tu non mi hai fatto secondo la volontà mia. Cosa pure a riferirla spaventosa, e possente ad arricciare tutti i capelli di chi ha qualche faviluzza almeno di religione, e di cognizione di Dio. E per conoscere un poco meglio quanta sia questa offesa ch'elle fanno all'altissima Divinità, presupponiate che vi fosse un prence sovra tutti i prenci, che avesse tant'oro quanto non ebbero mai, se raccolto fosse stato, nè Crasso, nè Creso, nè Mida, nè Lucullo, nè il Tago, nè il Pattolo, nè Ermo, e meno le cave e mine di tutto il mondo, a cui venisse voglia di dare in dono centomila scudi per uno a mille mendici, sventurati e tutti pieni di loto, e volesse poi in brieve farneli con un suo figlioletto eredi di tutti i suoi beni stabili e mobili, e che così li facesse venire dianzi a sè, ed annoverasse ad alcuni scudi in oro, ad alcuni in argento, e che questi, ricevuti gli scudi in argento, pigliassero con le mani il sul petto quel prence, e volessero ch'egli desse ancor loro gli scudi in oro; che vi parrebbe signori, allora? Non vi parrebbe ella la maggior ingratitudine del mondo? Non vi parrebbe che siffatti ingrati non sarebbono degni di ritrovarsi sopra la terra? Sì, certo. Similmente sono contro di Dio ingrate e sconoscenti tutte quelle donne che, non contentandosi della naturale faccia, adoprano il liscio. Perocchè il prence, che ha tanto oro, è Dio, in cui sono rinchiusi tutti i tesori. Il dono di centomila scudi egli è la vita, che hanno da lui tanto cortesemente. I mille mendici carichi di fango sono le donne nate e concette nel peccato originale, come noi, e come noi di limo create. I coeredi sono pur le istesse, le quali da Dio sono state formate a fine che con Gesù Cristo unico di Lui figliuolo abbiano eternamente a godere delle delizie del Paradiso. I mendici, che hanno gli scudi d'oro sono quelle donne che, oltre la vita, impetrano ancor la bellezza del sommo Iddio. Quelli che gli hanno d'argento sono quelle, che con la vita riportano tanto di bruttezza paragonate con le belle, quanto ne riporta l'argento agguagliato all'oro. Quegli ardiscono di porre la mano al suo benefattore addosso, e dire che vogliono anch'essi gli scudi d'oro e non d'argento, così quelle fanno, quando col belletto mostrano di volere bellezza appresso la vita concessa loro benignamente dal cortesissimo e prudentissimo governatore dell'universo. Grande è adunque il danno dell'anima di queste donne siffatte, e infino ch'esse non rappacificano col creatore sbandendo e rosso, e bianco, e moscate acque, e quel tutto che lo può offendere, che se ne dee sperare? Ma io pure spero, che veggendo esse senza queste cose, e pura qual colomba la donna nostra che mezza è formata (da che la integrità nostra consiste nell'anima e nel velo, che è questo corpo) si ravvederanno, e ravvedendosi quasi chi ha smarrita la strada e torna indietro, torneranno a miglior senno, e sforzerannosi ancora, non potendo l'infinita bellezza esteriore, d'imparare la interiore, che tosto le siamo per concedere e perfettamente donare. E perchè non debbo io sperar questo? Sono pur le donne tanto pronte e gagliarde al bene quanto al male, pure in loro si mostra un ardentissimo desio di salvarsi, e se peccano peccano più per semplicità e ignoranza; nè sono, e so ben io che non erro, pigre e tarde a camminare per la via d'onore e di salute qualunque volta vengono avvisate ch'esse fanno il contrario. Pieno adunque di questa detta speranza, io condescendo a voglia vostra a dir della donna interiore, e delle parti che le si convengono a volerla vedere bella in perfezione, e sì che amabile divenga infino ai duri e insensati sassi, nonchè agli uomini generalmente, e alle donne.

Quivi, qual caduto nel corso veloce barberesco, non abbia interrotto l'arringo, stette, e seguì poi il signor Ladislao:

— Primieramente adunque le sarà in cura e in protezione vieppiù che cosa del mondo il suo onore e la sua castità, altissimo e singolarissimo pregio di ciascheduna donna, della quale qualunque per mala sua sorte priva resta, nè donna è più, nè viva, siccome ci avvisa Laura nel sonetto, Cara la vita, e la nutrice di Macario presso allo Sperone nella tragedia intitolata Canace, della quale castità qualunque riman senza, che può aver più di buono o di bello, come rispose la sfortunata Lucrezia al marito appresso Livio, e Angelica raffermò nel suo lamento appresso l'Ariosto? Ogni virtù, perduta la pudicizia, va per terra in una donna, la quale, mentre che salvo reca con seco il suo bel fiore verginale, è simile, come ben disse Catullo, e l'Ariosto in ciò sua scimia, alla rosa, che in bel giardino d'ogni intorno serrato e chiuso su la nativa spina riposandosi, e non avvicinandolesi greggia o pastore alcuno, è dall'aura dolce e soave, dall'alba rugiadosa, dall'acqua e dalla terra favorita in colmo, e giovani assai vaghi, e donne infinite innamorate e leggiadre desiano d'averla per ornare di lei e il seno e le tempie sue. Ma se quel fiore della castità è perduto subito, quella donna perde con esso lui tutto il favore e tutto l'amore, che le si voleva dal mondo a similitudine pure della rosa, la quale, rimossa dal materno stelo e verde ceppo, viene anco a rimovere da sè quel tanto di bene, di grazie e di bellezza, che dagli uomini e dal cielo aveva con tanta benignità, che vi si può aver inteso di sopra. Stando adunque nella salvezza di questa castità l'onore, e nella perdita il vituperio del sesso femminile, qual meraviglia è se di quelle, che veramente donne sono, molte se ne sono ritrovate che hanno a lei voluto posporre la propria vita? Io lascerò di dire quello che n'ha scritto di ciò il formator del Cortegiano, quel che si legge della casta Isabella appresso il Furioso, quel che si mostra appresso Livio intorno al fine del primo libro, appresso Ovidio intorno al fine del secondo de' suoi Fasti, appresso Dionisio al quarto, appresso Servio al Commentario ottavo sopra Virgilio, appresso il Petrarca nel sonetto, In tale stella, e in quell'altro, Cara la vita, e in mille altri luoghi della nomata poco dianzi e infelice Lucrezia. Io lascerò di dire delle tedesche, di cui Valerio Massimo al capo della pudicizia, ed il Petrarca in quello della castità m'hanno parlato, io lascerò di dire ancora d'Ippo femmina greca, di cui ai citati luoghi fanno menzione e Valerio e il Petrarca antidetti; e finalmente lascerò di dire di mille e mille, che piuttosto morire che perdere l'onestà hanno avuto in grado, e se non hanno potuto innanzi che fusse lor tolta (benchè contro la volontà tolta si può dire che non sia tolta, che la mente pecca e non il corpo) sono rimase morte dopo con la propria mano, come Lucrezia; si sono precipitate in qualche fiume per l'estremo dolore, come quella di cui l'esempio viverà in eterno nelle dotte carte dell'allegato pur mò formatore del Cortegiano. S'io non dirò adunque nulla di tante e tante, non dirò io d'alcune nostre vicine e meno antiche sì bene, or udite.

Presa da Attila la città d'Aquileia, la quale si potè ben tre anni da lui gagliardissimamente difendere, vi fu dentro una donna nomata Dugna, ricca di bellezza e possente di ricchezza, la quale, come le vennero veduti i nemici licenziosamente e crudelmente usanti la vittoria, perchè non le avvenisse di perdere la pudicizia, salì sovra una torre, che giunta era alla casa sua e riguardava sopra la Natissa, fiume vicino scorrente, e involtosi il capo in che che si fusse, vi si gettò precipitosamente.

Nella medesima presa, ruina, uccisione e disfacimento d'Aquileia trovossi un'altra bella e pudica donna chiamata per nome Onoria, la quale, mentre che si menasse via rapita da' fieri e orgogliosi soldati, si venne a caso ad incontrare nel sepolcro, ove giaceva il marito di lei. Quivi fermatasi, e quello con lamenti abbracciato, e l'amato nome del marito spessi fiate chiamando, non si potè mai d'indi staccare infino che da un empio e crudelissimo di quei soldati, che rapita l'aveano, non fu colla spada dall'uno all'altro lato trafitta, e miseramente morta.

Mi resta ancora un altro esempio di dire, il quale è che, sendo stata la perfida Rosmunda, quella che potè tradire e dare la città di Cividale in mano di Catanno re degli ungari, di cui ella n'era invaghita, in su un palo affissa poi, che di lei fu fatto ogni scherno, restarono due sue figlie, il cui nome era Appa e Giala. Queste essendo già cresciute vergini, e così di rara beltà come d'onesto rossore dotate, trassero a sè gli occhi di tutti incontanente; ma dubitando elleno del suo onore, si posero in seno fra le mammelle (o potenza della laude e del pregio!) crudi pulcini, perchè putrefatti venissero a discacciare da loro qualunque si volesse appressare, col fetore e con lo estrano puzzo suo. Così diedero un memorabile nel vero esempio di conservare intatta e sincera la pudicizia alle verginelle, e più nostre che d'altrui.

Ora se per salvare l'onor suo non hanno avuto cura della vita queste e dell'altre infinite, qual di noi è che non abbia pianto appresso Ovidio al sesto delle Trasformazioni con Filomena stuprata a forza dal crudele cognato? Qual di noi è che non abbia avuto compassione, e lagrimato con la sventurata Didone appresso Virgilio al quarto, dove nelle caldissime preghiere e chiusa per fare seco star Enea sì che non parta da lei, dice che per lui ha perduta la castità e quel bel nome, per cui solo n'andava a volo infino alle stelle? Ma queste sono favole. Qual di noi è che abbia tenuti gli occhi asciutti leggendo le amorose narrazioni di Plutarco, dove egli pone che, sendo per forza due sorelle svergognate da due, e stando esse oltramisura (come quelle che giudicavano di aver troppo perduto, avendo l'onore perduto) malinconiche e addolorate, furono alla fine dai corruttori in un pozzo per ciò precipitata e sepolte? Qual di noi è che leggendo appresso il Lando di quel suo molto intrinseco amico, che per opra d'un servidore, non potendo altrimenti, venne a godere delle rare bellezze d'una fanciulla padovana, che sempre gli era stata dura, non curando nè caldi prieghi nè larghe offerte, venne a godere, dico, al suo dispetto, non bestemmi a pieno lui, e della donzella non divenga tutto difensore, e non le aggia pietà e compassione? A cui poscia degna non parrà d'ogni laude la figliuola di Varrone, Marzia, la quale, essendo eccellente nella scultura e nella pittura; mai non si mise in animo di voler dipingere l'uomo, per non dipingere ancora le parti di sotto vergognose? A cui non parrà Zenobia, della quale di sopra è stato favellato, poi che pur con l'istesso marito non si congiungea se non per cagione di generare? A cui non parrà Baldacca abietta damigella peregrina, la quale ad Ottone imperadore promettentele (che povera era, e anzi bisognosa che no) monti, come si dice, e mari, non volse mai acconsentire? Ma della castità, della quale vogliamo che tanto la donna nostra sia di continuo guardinga, basti averne detto fin qui senza andare più oltra, e me e voi con soprabbondanti parole tediando. Ora le daremo un'altra bella parte e un'altra bella dote dell'animo, la quale fie l'onorata vergogna, nella giovinezza lodevolissima e tanto dicevole, che viene addimandata il colore della virtù, e la tintura della lode da' savi uomini. Il che Diogene affermò quando vide quel fanciullo tutto per rossore e vergogna nel viso divenuto vermiglio e colorito. E qual donna troverete voi di buon nome per gli scrittori, a cui non abbiano essi, come ottimo segno, conceduto la vergogna? Virgilio induce Lavinia vergognosa nel decimosecondo della sua Eneide; Aconzio appresso Ovidio Cidippe; il medesimo Ovidio al terzo delle sue Trasformazioni Diana; al quarto Andromeda; al sesto Filomena; al settimo Procri, Tibullo; ma lasciamolo ora. L'Ariosto induce Angelica legata allo ignudo scoglio, e là, dove l'eremita le pose arditamente le mani in seno, e poi Bradamante e Marfisa quando videro Ullania in terra sì male in arnese. Il Bembo appresso gli Asolani induce e Lisa e Sabinetta e madama Berenice e quella damigella che, concordando la voce sua al suono della viuola, cantò la vaga canzonetta, Amor la tua virtute. Il Sannazzaro induce Amaranta nell'Arcadia, dove la rossezza venutale nel volto chiamò donnesca, come Tibullo ancora virginea; però che invero, s'ella non si trova nelle vergini, vi si dee trovare ed essere con ragione almeno e con debito. Il perchè Apuleio nel primo del suo Asino d'oro anco chiamolla verginale. Io lascio di provare a voi che ai giovani altresì, conviene questa vergogna, vergogna non villanesca dico, perchè mi fo a credere che la prova sarebbe quale ho sentito d'alcuni uomini, i quali vannosi volentieri mescolando e avviluppando intorno alle cose chiarissime per sè, come in provare che il sole gira, e il vento spazia, e la fiamma monta e il rivo corre all'ingiù, e chi non sa questo? E chi non sa parimenti che i giovani bisogna che sieno vergognosi? Adunque non accade provarlo, e meno accade provare che questa vergogna e questo rossore momentaneo disdica, come piacque di dire ad Astotile nel quarto dell'Etica ai vecchi ed agli attempati, però ch'egli si sa bene, che in loro non è degna di lode, ma sì di biasimo e vitupero anzi che no. Sarà adunque, tornando alla donna, il che vuole pur l'antidetto Ariosto nella prima Satira, vergognosa, sarà modesta, sarà rispettosa, che il rispetto, oltre che conviene ad ogni pellegrino ingegno e bene allevato spirito, pure nelle donne vieppiù, che così ne vengono ad apparire in non so che modo, come accennò il medesimo Ariosto parlando delle donzelle d'Alcina, più belle, più vaghe e più colorite. Oltre a ciò non m'ha da spiacere il fuso, l'ago, la conocchia, l'arcolaio in lei, e se questo, ch'io non so altrimenti, parrà di sì fatta donna indegno alle signorie vostre, e cosa, nella quale di lei le belle e sovrane mani, non vi si debbano in modo alcuno tramettere e logorarsi, io spero che una cotale falsissima opinione e credenza di ciò s'annullerà, sottentrando la verissima mia in quella vece, quando intorno a materia tale d'un poco di tempo mi avranno con diligenza, il che la lor mercè fanno pur troppo, prestate orecchie. Così detto si mise a ridere. O che questo ch'io procaccio di dare alla donna, come proprio e convenevole a lei, è cosa appartenente all'uomo, o pure appartenente alla donna. Ch'ella sia cosa appartenente all'uomo niuno il mi dica, che la verità e l'esperienza contraddice.

Adunque segue che sia appartenente alla donna, ma voi mi direte: o ancora noi confermiamo questo; ma siamo discordanti in ciò che vogliamo, che l'ago, il fuso, e il rimanente che tu ci hai detto, sconvengono alla donna e alle sue pari, e convengono alle minute, vili, meccaniche e plebee femminelle, e io rispondo che, oltre che il nome vi poteva fare intendere ch'io intendeva delle magnanime e gentili, delle magnanime e gentili questo dovrebbe essere, caso che non sia, ufficio, non però negando ch'egli non appartenga a tutte le altre ancora. E perchè ci concordiamo, e di gareggiare prestamente cessiamo, utile cosa sarà vedere e produrre nel mezzo quello che gli antichi scrittori ci hanno intorno a ciò lasciato nelle lor carte. Io trovo che Cesare Augusto non usava così di leggieri di portare altra veste che quella, che per mezzo delle mani della mogliera, della sorella, della figlia e delle nepoti gli fusse stata fatta e compitamente ridutta al fine. Or ditemi qui: se un tanto principe, quanto fu Augusto, ebbe donne sì fatte che gli fecero le vestimenta, pure di necessità conviene che questo succeda, che elleno si dilettavano, quasi di suo ufficio, di cucire almeno. Qual donna adunque sdegnerassi delle nostre gentili di cucire con una moglie, figlia, sorella e nepoti d'un imperadore? Virgilio al settimo, parlando della virile e bellicosa Camilla, dice che ella non era avvezzata e usa alla conocchia e ai cesti di Minerva, dove si pongono gli strumenti femminili. Il che non è detto in favor vostro, ma bene in mio; perocchè il poeta volendo mostrare Camilla aver rivolto l'animo solo all'arme, e alle sanguinolenti e oscure battaglie, ci avvisa ch'essa aveva postergato quello, che delle pari di lei e del suo sesso è proprio. Il medesimo ci si scopre nel Furioso di Bradamante, che fu colta da Fiordespina con la spada, e non con la conocchia al lato. E qual di voi non ha sentito o letto poscia quello che fece Alessandro il Magno verso la madre dello sconfitto già e vinto re de' Persi Dario? non le offerse pur egli, secondo l'usanza macedonica, subito ch'essa li venne veduta, la conocchia? Didone la bella appresso Virgilio al quarto non diede in dono al troiano Enea una vesta d'ardente porpora fregiata d'oro, la quale ella con le sue mani aveva fatta? Onfale reina di Lidi, quando Ercole era il suo vago, no'l fece sedere appresso a sè, e con seco maneggiare il fuso e la lana? Ma che? Rammentiamoci un poco di lei, che sì sovente viene ad onorare i nostri ragionamenti. Io dico Lucrezia, la bella romana, di cui si legge che, essendo nata una gara tra Collatino suo caro marito e Sesto Tarquinio, e Arunte e altri della casa del re Tarquinio superbo al tempo ch'egli tenea l'assedio intorno Ardea, quale di loro avesse la più sollecita, onesta e buona moglie, e perciò saliti a cavallo e inviati verso Roma, e poi verso Collazio per chiarirsi, ella fu colta da loro non come dianzi le nuore reali fra canzoni, salti, banchetti e carole, ma sì (o anima veramente degna d'impero assai e di lode eterna!) dare opera con le sue ancelle, e forse a quest'ora o poco più tardi, alla lana e alla conocchia. Catullo nell'Argonautica mostra essere stata usanza della nutrice e balia della madre del feroce Achille, Tetide, di recarle ogni mattina il filo ch'essa la sera aveva filato, perchè seguisse e n'andasse dietro. E lasceremo Minerva noi pur detta la dea dell'armi, e famosa al pari d'ogni altra? Questa non vinse ogni ricamo, ogni lavoro per bellissimo ch'egli fusse? ma lo invilupparsi nelle favole io so che proprio è un torre la fede alla verità, e però lasciata Minerva, a cui (presupponendosi che vero non sia quanto si scrive) pure le si dà l'ago e la tela, come a lei convenevol cosa, passiamo alla conclusione di ciò, e diciamo che sconvenevolezza niuna no, ma sibbene onore e pregio l'ago, il fuso, la conocchia e l'arcolaio, potranno arrecare a questa donna in ogni tempo e in ogni etate.

Potè con queste parole e altre simili assai il signor Ladislao mutare di proposito tutti sì, che pur uno non fu che non li desse largo consenso; il perchè egli poi soggiunse arditamente, e tutto allegro in questa maniera:

— Quando ch'io leggo appresso Virgilio di Circe tessente, e di Penelope in mille luoghi per gli autori, come appresso Omero, Ovidio, Giuvenale, Properzio e il Bembo, io non posso non essere di parere tale, ch'io giudichi dovere apportare anzi laude il pettine della tela ancora a questa donna che no; e siccome la goffa e quasi mendica femmina, che si leva appresso Virgilio la notte a filare, e la vecchierella appresso il Petrarca, non hanno potuto oprare in voi sì, che per essere ufficio di loro questo, voi no'l lasciaste anco alla donna nostra, così io vi prego che avvenga che il tessere oggi sia arte delle bisognose per lo più, non però vi cada in animo di volere negarle questa giammai. Vi muova l'esempio delle due antidette e generose donne, e vagliavi contro ogni colpo di contraria volontà, che vi assalisce, il terzo ancora di Pallade. Alle quali famosissime e nobilissime tanto gli uomini saggi hanno giudicato convenirsi la testuru quant'è l'ago e il fuso, di cui n'abbiamo parlato pur ora, e arcolaio e la conocchia. Queste arti, dove utilità solo nelle poverelle apportano, solo onore (e che altro dee una gentilissima apprezzare; e di che altro le dee calere?) alle ricche, e nobili e belle donne usano di conferire e di arrecare. Oh che dolce cosa è l'udire d'una qualche generosa: Ella fa così, ella sa così, ella si diletta di sapere che ogni cosa che spetta alla perfezione del sesso femminile e donnesco, ella non vuole niuna di quelle sentire che potrebbe essere dannosa circa il pregio e l'onore. E poco dopo: Benedetta lei, benedetta chi tale l'ha allevata, chi ben le vuole, e chi ben le brama. Ritiriamoci un poco ora al suonare, al cantare, al ballare col nostro ragionamento, e se possibile è, che la nostra donna s'adorni, e se le accresca beltate alla sua beltate con tai mezzi altresì, altresì adorniamola, e abbelliamola a tutto nostro potere, il che quanto con più diligenza ci sforzeremo di fare, tanto più ci verrà fatto, come si dice, a filo, e siccome desideriamo, se il giudicio mio, che ciò mi va dettando, non erra e non esce di via. Io adunque tengo fermissimo la musica, dove le tre cose antidette intravvengono, tra l'oneste professioni potersi annoverare: e quinci è che Socrate già vecchio e antico volle impararla, e volle che i giovanetti bene allevati e di buona creanza in essa si ammaestrassero, non perchè avesse ad essere loro un solfanello di lasciva, no, il che può avvenire ai dissoluti, ma un freno, il quale i moti dell'anima reggesse, e sotto regola e ragione li tenesse. Perciocchè siccome non ogni voce, ma quella solo che ben consona viene alla melodia del suono aspettare, così non tutti i moti dell'anima, ma quelli solo che convengono con la ragione appartengono alla diritta armonia della vita. Volle Pericle ancora che il nipote Alcibiade si desse allo studio di cotale arte onestissima tanto appresso greci è apprezzata, che, oltre che la posero nel numero delle liberali, fecero che qualunque uomo di essa indotto e senza si trovava, era giudicato imperito e ignorante; il che, come scrive Marco Tullio, avvenne a Temistocle ateniese uomo chiarissimo, il quale ricusò in un pasto la lira; e Epaminonda Tebano schifò questa infamia cantando, anzi sonando divinissimamente con esso lei. La musica può acquetare gli animi furiosi, e le passioni tranquillare per grandi ch'elle si sieno, e levare noi da queste tenebre e folta aria alla lucidissima macchina distinta di tanti folgoranti e bellissimi lumi che ci sovrastano, e quasi falconiero col logoro ci chiamano e ci sgridano di continuo perchè a loro pervegnamo quasi alla nostra primiera origine e descendenza, quando che sia un giorno tolti al sonno gravissimo che ci chiude e opprime continuamente gli occhi di dentro. Ma a che stendermi io in lode della musica? Non sarebbe questo, avendo già mille preso l'assunto, un portare, com'è in proverbio, alberi alla selva, acqua al mare, foco a foco, vasi a Samo, nottole ad Atene, crocodili ad Egitto? Non sarebbe un volere ritessere la tela dell'antica Penelope? E che farebbono poi in servigio di lei centomila mie laudi, ch'io le dicessi di buon cuore? per giudicio mio, nulla; perocchè io mi fo a credere che essa (il che Simmaco appresso ia Macrobio di Virgilio parlando non tacque) siccome per maldicenza di chi si vuole non viene a scemare e a diminuire la sua gloria, così parimente per loda non viene in modo alcuno a farlasi maggiore e più ridondante di quella, ch'ella continuo vedesi avere in ogni luogo e in ogni stagione dell'anno appo, quasi ch'io non dissi, ogni persona e ogni condizione di stato e di grado. Voi averete pazienza a questa fiata, signor Ladislao, dissero, sendo egli qui giunto, i compagni; e perchè ei non lasciasse di dire alquanto in grazia e in onore, come aveva disegnato di fare, della tanto, ma brievemente, da lui commendata musica, incominciaro a dannarla come maligna e rea che si fosse, e non di buoni e casti, ma di perversi e impudichi effetti producitrice; e sovra ciò non pochi esempi, e autoritati per loro facenti allegati fecero ch'egli incominciò così: Voi dite che Alcibiade usava di dire, che gli strumenti posti alla bocca, perchè si sonasse, diformavano il musico, perciocchè gonfiando egli le guancie a pena vi si conosceva dagli amici non chè da altrui, e che esso per arrossito un giorno ruppe lo stormento offertogli dal maestro, e potè far sì (avvenga ch'egli fosse garzone) che allora con consenso di tutto il popolo l'uso di siffatti stormenti vi si lasciò in Atene. Voi mi dite che per la medesima cagione Pallade gittò nel flessuoso e indietro tornante Meandro la sua sonora tibia, la quale poi tolta dal male insuperbito satiro Marsia (ma tacete questo) fu cagione ch'egli provocò, come ben disse il Sannazzaro, Apollo agli suoi danni. Voi mi dite che Apollo antidetto strangolò un fistulaio, e che i Persi e Medi regi avevano i musici per parassiti, e che Filippo biasmò Alessandro suo figliuolo, perchè una volta fra le altre dolcemente l'aveva udito cantare, e che Antigono suo pedagogo, trovandosi esso intento pure al cantare, gli spezzò la cetera. Voi mi dite che gli Egizj, biasmando la musica come cosa inutile, dannosa e lasciva, la vietarono ai giovani, e che non per altro ella fu trovata, salvo per ingannare gli uomini, e che le Cicone femmine perseguirono Orfeo, perchè col suo canto dilettava i maschi, facendoneli raggioire, e che i cento lumi d'Argo furono per mezzo d'una sola fistola chiusi in sempiterno sonno. Voi mi dite, che Atanasio vescovo di Alessandria uomo di gran santità, e di profondo sapere, alla cui lezione San Girolamo instantissimamente ci esorta, la scacciò dalla chiesa, perchè troppo mollificava e inteneriva gli animi nostri, disponendoli alle lascivie, e a' vani piaceri, e che poi oltre, ch'ella aumenta la maninconia, se per avventura avviene che da quella prima assaliti siamo. Aurelio Agostino maestro di santa chiesa non l'approvò mai, e meno Aristotile quando disse che Giove non cantava nè sonava di cetera. Voi mi dite finalmente che alcuno si è trovato, il quale cantando vieppiù dolcemente del solito tra i sospiri del suono se n'è passata all'altra vita; e conchiudete per queste tutte autoritati, ragioni ed esempi (aggiungendo che Antistene filosofo, avendo udito dire che Ismenia era un ottimo ed eccellente citaredo, o pure sonatore di tibia, mandò fuori quelle parole: egli è un uomo goffo, rubaldo e da poco Ismenia che s'egli fosse uomo dabbene non si sarebbe dato a tale arte ed a tale mestiere) conchiudete, dico, che la musica è di sua natura tutta rea, tutta malvagia, e che si dee da tutti, non che dalla donna, a cui io procaccio di farla imprendere, fuggire e odiare a morte.

Ma ditemi qui, volete voi ch'io ribatta quanto avete detto or ora per burla, quanto ch'io mi creda, contra la musica, oppure evvi in grado e in piacere, ch'io senz'altro fare in prode dica?

— Che in prode diciate, risposero eglino, e quali ciò che avevano detto, avevano detto per udire della musicale lode favellar lui, il quale quasi che subitamente disse:

— La musica è arte di tanto eccellente grado, signori, che infino le fiere, gli augelli e i pesci è possente di raddolcire, infino i sassi può intenerire, infino lo inferno può far gioire. Il perchè Orfeo ben si dipinge, poichè egli potè per mezzo della sonante cetera oprare ciò, in mezzo degli uccelli degli orsi, tigri lupi e leoni; e non sarebbe fuori di proposito a dipingerlo ancora in mezzo dello inferno vinto col suo dolcissimo canto e giocondissimo suono. D'Anfione mi taccio per ora, che infino i calzolai, e i barbieri sanno quanto egli potè col soavissimo concento della cetera nell'edificazione della rocca tebana. Stupiscono i paurosi cervi col canto della tibia e più che cervi? tutti gli animali, come è su stato detto. E perchè pure di pesci pare meravigliosa cosa vieppiù, non v'incresca d'udire, una tale istoria appresso gli autori volgatissima e cantatissima. Fu Arone eccellentissimo citaredo, il quale, repatriando con alcuni, e veggendosi da loro congiurati contro a lui apparecchiarsi le insidie, mentre che fosse in mare e navigasse, per le ricchezze che seco ne recava a casa, presa la cetera sua, e in prima sonato un poco, si gittò in mezzo al mare, per lo cui canto vi si mosse un Delfino, il quale toltolo in su la schiena lo portò salvo al lido, dove egli a cavallo del pesce natante fu un immagine di bronzo intagliato per memoria di cotale avvenimento. Le acque sentono la forza della musica; laonde egli si legge, che in una certa regione ha una fonte, la quale al suono delle tibie non può fare che non salti e guazzi di subito e per dire di lei partitamente alquanto, che meraviglia è, (poichè le fiere de' boschi, gli augelli dell'aria, i pesci del mare, i sassi delle vie, le anime dannate dell'abisso, e le acque le stanno soggette) se l'anima nostra tanto viene a dilettare, che nulla più? l'anima nostra, dico, la quale dalle celestiali armonie discesa ne' nostri corpi, e di loro sempre desiderevole, di quest'altre a sapere di quelle s'invaga più gioia sentendone, che quasi non pare possibile, e chi ben mira, di cosa terrena doversi sentire. Benchè non sia terrena l'armonia, anzi pure in maniera con l'anima confacevole, che alcuni dissero già essa anima altro non essere che armonia. Per questa ella ad un santo e devoto piacere, e alle volte a pietose lagrimette si muove e vanne. Laonde certissimo sono che per ciò il buono e divinissimo Ambrogio non volle la musica dalla chiesa isbandire. E Agostino non tanto vi s'attaccò ad Atanasio, di cui voi n'avete sopra fatto menzione, quanto ad Ambrogio; perciocchè nelle sue confessioni dice l'una e l'altra averli piaciuto di queste due opinioni, e averli partorito gran dubbio nella mente sovra ciò. Che meraviglia è se i poeti ne' convivi e ne' pasti vollero che la musica intravvenisse, la quale venisse mirabilmente ad ingombrare i seni di tutti di allegrezza infinita? Omero (il perchè vero si può giudicare quel che disse Timagene, la musica essere antichissima) nel primo della Iliade induce nel convivio degli Dei a cantare le Muse con soavissima voce concorde al suono, come dice l'Ariosto, della cornuta cetra d'Apollo. Virgilio nel primo altresì della Eneida sua induce nel convivio reale di Didone il crinito Iopa sonante; così gli altri poeti di minor grido e dopo nati, ad esempio e similitudine fanno ne' finti loro conviti e banchetti onorati. Così fa Apuleio nel sesto del suo Asino d'oro nelle nozze di Cupidine e Psiche, dove delle muse due cantano, Apollo colle delicate e musiche sue mani tocca la cetera, e Venere bella va danzando e carolando intorno; e Aristotile, che è tenuto il maestro di coloro che sanno, nell'ottavo della Politica non biasma questa costuma, anzi poi che ci ha avvisato la musica doversi usare nelle cose allegre, soggiunge, allegando Omero, essere ben fatto che il citaredo suoni fra le delizie conviviali, il quale aggia tutti a rallegrare quelli che presenti sono al banchetto e al convivio. Che meraviglia è se comune opinione è in piedi sorta, che Platone (il quale nel secondo delle leggi - dice che i Dei, avendo compassione a noi di questa faticosa vita, instituiro le ricreazioni delle fatiche, e ci diero ancora le Muse, e Apollo loro duce, e Bacco, i quali con piacere c'inducono a ballare e saltare bene spesso) che Platone, dico, a cui non spiacquero i salti e balli, senza la musica, e massime nel Timeo non si può intendere? O musica sovra ogn'altra cosa dolcissima e vaga, io credo che senza te noi non potremmo vivere al mondo, siccome senza gli elementi non si può in vero in modo niuno; senza te non vivono le anime beate e gli angeli celesti, i quali con perpetue e dolcissime voci lodano quella prima ed eterna causa, ch'è Iddio Ottimo Massimo; senza te (se vera è quella dolce armonia, la quale ne' cieli pose e affermò con dotta persuasione il divino Pitagora) non si ruotano e girano le spere mai. Tu inanimivi e accendevi gli eserciti spartani. Tu non fosti isprezzata, ma commendata da Licurgo purissimo legislatore. Te Platone (il quale insieme con Aristotele comandò che primieramente fosti imparata, e ti giudicò non senza giudicio buona mezzana di comporre i costumi della repubblica) credette necessaria all'uomo civile e politico dover essere in ogni modo. Te senza dubbio gravi filosofi, e prudenti uomini, te le muse amano, per lo cui mezzo venisti in cognizione al mondo. Marica Iperbolo nulla per tuo mezzo diceva di aver apparato, salvo che le lettere. O guadagno inestimabile! Aristofane mostra che gli antiqui volevano che i suoi fanciulli apparassero te; il perchè si legge in Menandro di quel vecchio, il quale, dimandando che ciò che in allevazione del figliuolo aveva speso renduto gli fosse, dice che molti denari aveva dato a' musici e a' suoi seguaci. Orando Gracco, un suo amico gli stava dietro con la fistola sonante. Pitagora, veggendo certi giovani accesi, e disposti ad isforzare e combattere una pudica casa, con accennare e comandare ad un musico che sonasse il canto spondeo, gli venne a pacificare e chetare pur per te. Crisippo volle che le nutrici e balie avessino parte di te, perchè i bambini traessero al suo canto, e gli racchetassero qualora piangevano. Sarebbe una fatica da spaventare un Ercole a dir tutte le lodi tue; sarebbe un voler proprio ad una ad una annoverar le stelle, e in picciol vetro chiuder tutte le acque, come dice il Petrarca. Per la qual cosa, tornando io alla donna, raffermo che le ha da essere di non poco onore; se d'imparare a toccare o viuola, o liuto, (che questi due strumenti più mi piacciono) leggiadramente non si disdegnerà. Tenete certo che quelle vaghe damigelle appresso il Bembo sonanti l'una di liuto con maravigliosa maestria e l'altra, di viuola, grandissima laude appo la reina di Cipri, e altre gentildonne, e onorati signori convenuti in Asolo per onorare le nozze che si celebrarono così gaiamente, vennero anzi a riportare che no. Il medesimo Bembo nel secondo degli Asolani viene nelle giovani a commendare, quando sotto persona di Gismondo dice così: Oh con quanta soavità ci suole gli spiriti ricreare un vago canto delle nostre donne, e quello massimamente che è col suono d'alcuno concordevole stromento accompagnato, tocco delle loro delicate e musiche mani. Suonerà adunque la donna nostra alle volte a tempo e a luogo, ma sempre modestamente, ma sempre riverentemente, e non pur suonerà, ma canterà a danzerà ancora, come le si conviene e non più, cioè con rispetto grande e vergogna nel volto. Il che sempre le ha da essere dicevole e convenevole assai fra gli uomini. E se non fosse ch'io m'apparecchio a dire delle altre cose appartenenti alla donna, io mi occuperei a provare per gli autori, e non pur per l'uso buono che vi è, più diffusamente che le conviene il sonare, che le conviene il cantare, come ci ha mostro il Petrarca per mezzo di Laura nel sonetto, Dodici donne: Onde tolse Amor l'oro: Grazie, ch'a pochi il ciel: Amor m'ha posto: Quand'Amor i begli occhi, e che le conviene il danzare. Il che si cava dal sonetto, Real Natura, e forse da quello, Avventuroso più d'altro terreno, per passarmene via delle Grazie e delle Ninfe, le quali i poeti, come Orazio al quarto de' Carmi suoi all'ode settima, inducono carolanti e danzanti al tempo che ringiovinisce l'anno, e gli alberi si rivestono; ma ora io non posso senza mio e vostro gran disagio in ciò trattenermi, perciocchè, qui dimorando, e restandomi a favellare assai circa la donna, quando avrei io compito? E quando avemmo tempo di andarci a riposare? Meglio è adunque che quel poco di tempo che ho di poter qui ragionare con esso voi intorno alle cose appartenenti pure alla donna, io venga a partire in guisa e in maniera, che non in una solo, ma in tutte tutto io lo spenda, e, come si chiede, io lo sparta e il consumi. Il perchè dell'ostinazione, la quale suole essere alle volte difetto nelle belle donne non altrimenti che soglia essere ne' bei cavalli il restio, dirò così alla distesa quattro parole in prima ch'io mi volga ad altro. L'ostinazione, vizio pure abominevole, non voglio che vi si trovi in questa donna nostra per modo niuno. Perciocchè, siccome in un bellissimo e finissimo panno disdicevole è vieppiù, che in uno non così bello nè così fino, una macchia che suso vi segga e vi stia talora, così un vizio in un bel corpo e in uno non men bello animo stranamente viene più a bruttare e a deformare o uomo o donna che si sia, che s'egli in sozza persona e non dissimile animo si trovasse allogato, e ivi tenesse il suo nido, e dimorasse come in propria stanza. Il medesimo ci è dato a vedere della virtù, qualora accade di potere vederlo. Ma tornando all'ostinazione dico, che essa spetta alle mule spagnuole, e non alle belle donne, delle quali scarse del pregio e del suo onore non sarebbe se non loda il dimostrarsi a chiunque si fosse esorabili e arrendevoli quantunque volte loro vi si scoprisse l'agio e l'occasione di poterlo fare. E perchè mi sovviene una dilettevole facezia ora d'una femmina ostinata, anzi ostinatissima, anzi l'istessa, per quel ch'io mi creda, ostinazione, io, voglio che noi ridiamo un poco; ma uditemi prima s'egli non vi è discaro e in dispiacere l'udire. Era adunque una femmina, la quale maritatasi in non so chi (che il volgo, e bassa gente, come amendui erano, giace senza nome e senza fama) aveva detto a suo marito, qual che si fusse la cagione ch'egli era pidocchioso. Questi, salito in colera, volle allora allora ch'ella si disdicesse, e incominciolle a dare di buone pugna e di buoni calci; ma ciò era nulla con lei, e, come dice il proverbio, un pestare acqua in un mortaio, un parlare a sordi, e un volere imbianchire un Etiopo e lavare un mattone. Alla fine, veggendo egli che non solo non si voleva ritrattare essa in averlo chiamato pidocchioso, ma perseverava in tale villania, prese una fune, e legata con essa la moglie al traverso come vi si legano le some, a suo malgrado giù per un pozzo calolla, e non venendosi ella per ciò a pentire, ma pure all'usanza stando ostinata e salda nel suo proposito, fece che il marito la mise giù infino alla bocca, e così pian piano, non giovandole ciò punto, infino sopra la terra; il perchè, non potendo essa parlare e chiamarlo pidocchioso ancora, com'aveva voglia e sommamente desiderava, incominciò (oh ostinazione singolare e a niun'altra seconda!) a urtare le unghie una contro l'altra in quella guisa che ci è dato a vedere i furfanti fare, qualora (il che sia con vostra riverenza detto) i lividi, o negri che vogliamo dire, soldati pugliesi, o fiamminghi, s'hanno il filo della schiena nero, o levantini se sono del tutto bianchi, o quali portarono già i primi fondatori dell'Ordine Minore se sono d'uno schietto e vero bigio, vengono loro in mano e in pugno frettolosi di farneli andare alla morte.

Non poterono tenere qui le risa i gentiluomini sì per la novelletta in sè pur bella, si anco perchè nel fine vi si mostrò un poco anzi sfacciato che no il signor Ladislao, il quale, poscia che anch'egli con loro ebbe riso alquanto, si rimise a dire:

— Non superba, non maledica, non chiacchieriera, non accusatrice sarà la donna nostra; superba non sarà, perciocchè cosa niuna è di questa nè più odiosa e nemica spiacente al magno Iddio, il quale l'angelo da lui creato più bello volle che fusse per ciò relegato in parte oscura e cava senza mai potere più su ritornare, onde co' suoi maligni e perversi seguaci con perpetuo scorno venne a cader giù. La superbia è un principio, è un fonte onde i ruscelli d'ogni peccato spicciano, ed un ceppo onde i rami, cioè i delitti di ciascheduna sorte germogliano, e per lei Nabuccodonosor qual bue sett'anni andò pascendosi d'erba e di fieno, e quinci e quindi errando come selvatica bestia e animale irrazionale. Oimè, ch'io non so quale che sia quella cosa, per lo cui mezzo noi c'insuperbiamo! io non la trovo s'io bene la cerco; se forse non fusse questa (ah infelici e stolti noi) che siamo terra e cenere, oppressi dal fascio di mille peccati, soggetti a morire, esposti a mille sventure, miseri, come disse Omero, più di qualunque cosa che la terra nutrichi, ciechi fra le vane speranze e perpetue paure involti, del passato pieni di oblivione, del futuro e del presente pieni d'ignoranza, insidiati da' nemici, abbandonati per morte dalli amici, accompagnati da continua avversità, lasciati da fuggitiva prosperità. Il che, se madonna Cianghella (di cui dice il Landino sovra Dante essere stata tanta la superbia, che un giorno venuta ad udire la predica, e non le sendo dalle donne quell'onore fatto ch'essa averebbe voluto, molte ne prese per li capelli e per l'orecchie) avesse considerato un poco per minuto, io voglio ben credere che faccenda ad ogni bocca sopra gli fatti suoi ella non avrebbe dato giammai, e meno se l'avrebbe pensato di dare. Maledica non sarà, che (avvenga dica il proverbio essere ciò il quinto elemento) il dir mal d'altrui è vizio gravissimo, e chiunque dice che li pare e piace, quel che non li pare bene e li dispiace viene ad udire bene spesso poi, e non fusse peggio. Ma vi è peggio, che la vita si perde alle volte, e bene il seppe Dafita il grammatico, il quale, preso per avere infamati e morduti co' velenosi suoi denti regi, fu senza pietà e compassione niuna crocifisso in su'l monte Torace. Il perchè fece che n'usci fuori e ne nacque il proverbio con le male lingue, il quale è, Guardatevi dal monte Torace. Vedete Plutarco nel libricciuolo ch'egli fa dell'allevazione de' figliuoli, e troverete che un Sotade e un Teocrito filosofo divennero partecipi della mala sorte che hanno alle fine questi latranti cani. Considerate ch'è vero proverbio che si ha in bocca tuttodì, la lingua cioè non aver osso, ma ben farsi ella dare giù per lo dosso. Considerate che se Cicerone e Demostene avessero posto un freno alla strabocchevole e scapestrata lingua loro, eglino avrebbono vissuto forse più alla lunga, e meno crudelmnete sarebbono morti che non morirono. Niuna parte del corpo nostro, come ben disse il Petrarca ch'ebbe fior d'intelletto, è più pronta a nocere e più difficile a frenarsi che la lingua nostra, della quale soleva dire Esopo di Frigia, favoleggiatore eccelentissimo, niuna cosa ritrovarsi più buona, nè più cattiva. Il perchè io non mi meraviglio di Zenocrate se dimandato e chiesto da un di quei compagni maldicenti, co' quali esso si trovava ad essere, perchè anch'egli non pungesse e non dicesse male d'alcuno, rispose così: Io sono perciò tacito, che il maledire altrui m'ha fatto alcuna volta pentire; ma non già mai il tacere. Il che poi è da Probo ne' Carmi attribuiti a Catone, e dall'Ariosto, là dove dei giochi d'Alcina e de' secreti parla, leggiadramente stato imitato con dire,

 

Che raro fu a tener la labbra chete

Biasmo ad alcun, ma ben spesso virtute.

 

La maldicenza è tanto odiata dagli uomini che la fuggono, ch'io non lo vi potrei unqua agguagliare a parole. E se non fosse, che'l proverbio usato dal Petrarca ne' suoi dialoghi, cioè oggi essere meglio ferire Ercole, che pur un villano, mi tiene a freno, e mi dissuade, io mi andrei aggirando intorno gli esempi, non solo antichi, ma moderni, in provare quanti odj, e morti ella suscitati, e levati ha ne' nostri tempi, ma mi taccio. Chiacchieriera non sarà, perchè l'avere del parabolano, o cicalone chi è che dubiti, che più non disconvenga alla donna, che all'uomo? E tanto viene questa sconvenevolezza ad essere maggiore, quanto più sono pregiati, e orrevoli quella, e questi. Bisogna sapere, per potersi rattemperare nel parlar nostro, che l'alma e migliore Natura, ch'è Iddio, ci ha voluto dare due orecchie, e una bocca, e questo per scoprirci ella; che più le piacerebbe, e le sarebbe più in grado assai, vederci poco favellare, e udire più in servigio e utilità nostra; ma noi non avvertiamo a questi secreti, che sono in noi dal Cielo infusi, e così di berlingare, cinguettare, e ciarlare non facciamo mai fine, mai non molliamo, mai non finiamo, dalle, dalle, dalle, dalla mattina infino alla sera.

Il perchè, se vero è ciò che dicono questi fisici, che quel membro, il quale fra gli altri, l'animale bruto, l'uccello, e il pesce viene più ad esercitare, viene anco più a piacere al palato, come più saporito, e ad essere più sano allo stomaco, niuno boccone dee nel vero essere più piacevole, e ghiotto, nè migliore che la lingua nostra, anzi che la lingua delle donne, disse qui l'eccellente Dottore, e tacque poi, non avendo quasi interrotto un punto il signor Ladislao, il quale seguendo:

— Io so bene, rispose, come i partegiani degli uomini, e i nemici delle donne hanno favellato; ma io avrei avuto caro, che eglino avessero postergato la passione e l'odio che immeritevolmente hanno portato a questo sesso, e a questa schiera donnesca, che adorna e abbella pure a lor mal grado il mondo, e forse altro giudicio, e diverso molto oggidì vi si leggerebbe nelle carte loro, che non si legge. Io dico che le donne non sono tanto ciarlatrici, quanto per iscrittura vi si mostra, e siccome qui hanno gli scrittori errato, di leggieri ponno nell'altre cose aver fatto il simigliante anzi che no; deh guardiamoci un poco noi, e diciam poi di loro. Ma io torno al luogo, onde io mi partii, perchè alcuno non dica, che avendo io gittato in occhio altrui, ch'essi hanno fatto male per astio, odio ed invidia, a me starebbe bene, e converrebbe che mi si fosse gittato l'aver fatto bene per l'opposito, cioè amore e benevolenza ingannatrice, come usava di dire Platone, di veri giudicj. Il che se bene mi fie opposto, non mi curerò mai delle opposizioni, ch'io amo piuttosto di lasciarmi ingannare, il che non concedo, da amore che da odio, come questi malvagi e maldicenti si lasciano il più delle volte. Ma tornando pure, come di sopra ho detto, onde mi venni a partire, noi siamo, dico, troppo linguuti, il che non voglio che sia nella donna nostra, la quale ancora schiferà di tutto potere di non amare il vizio delle accuse, che queste tali sono fuggite dal mondo, come sono le croci dal diavolo, e più sono odiate, ch'egli non è da lui. Chi ha un cotal vizio è stranamente macchiato, e io non credo mai che sia caro al Cielo, dove, acciocchè salga, isforzare si dee ognuno per mezzo delle virtuti. Soleva dire Domiziano imperadore, che chi non castigava gli accusatori, gli veniva ad infiammare, e a farneli più, e più accusatori. Ma vegniamo ad altro oggimai. Della religione sarebbe da dire, ma non mi piace, che se mi avesse piaciuto, là dal principio, ch'io incominciai a descrivere interiormente qual essere dee questa donna, n'avrei ragionato alquanto. E se mi dimandassero vostre signorie perchè qui me ne passo col piede, come si dice, asciutto, io risponderei loro quel che già mille e mille anni a coloro che'l dimandarono, perchè egli non avesse posto nelle sue leggi la pena ed il supplicio che n'avesse a patire un occiditore del padre, rispose Solone; cioè, non mi poter persuadere, che v'abbia donna alcuna empia e irreligiosa, com'egli non potè credere, che v'avessero di quelli, che osassero con estrema malvagità di torre quello al padre o alla madre che essi avessino da loro avuto con grandissima cortesia, la vita dico. Come adunque ella si debba intorno al bere e al mangiare con regola, e misura a lei convenevole instruire, io ne dirò dieci parole or ora. Egli si sa da ognuno che Noè, sendo fuori dell'Arca uscito (come ci insegnano le sacre lettere), si mise diligentemente ad arare la terra, e con le proprie mani a piantare le viti, dalle quali s'avesse a produrre e generare l'almo liquore, che addimandiamo vino, il quale poi generato è stato per tutto il mondo, come veggiamo, diffuso. Ma non è piccola briga appo alcuni questa, s'egli meglio sarebbe stato, che non vi fusse mai nasciuto. Considerati gli effetti suoi buoni io, e con la volontà divina la cattiva e irregolata nostra umana, risolutamente dico, e assertivamente affermo, che meglio è stato, che senza lui non vivesse la generazione razionale, che l'uso, dove l'abuso è cattivo, è buono, e niente è da credere, che s'avesse posto a fare Noè, se l'altissimo Iddio non glielo avesse rivelato, e se la nostra ingordigia, per lo suo mezzo viene a cagionare molti e molti mali, non bisogna per ciò dire e conchiudere che non sia cosa buona il vino, e che beati noi se non l'avessimo. La colpa è nostra di quanti quinci scandali si levano, e mai si leveranno. Il vino (pure che non ci partiamo dalla giusta misura) maravigliosamente ci accresce le forze del corpo, ci accresce e ci aguzza lo ingegno, il che non spiace al divino Platone principe de' filosofi. Egli vale a potere allegrare i cuori nostri afflitti e sbattuti da lunghissimi travagli, e da lunghissime cure. Chi non ne bee, non è ben atto al generare, è privo o casso d'ardimento e di robustezza corporea, ha debole e inferma la virtù concottrice, e finalmente tosto viene a morire. Il vino raffrena il vomito, fa digerire, aita lo stomaco, e giova a' nervi. E s'io volessi annoverare tutto il bene, che ne viene all'uomo per mezzo di lui moderatamente bevuto, non è dubbio, che infino al dì non mi stendessi ragionando; ma perchè studio d'essere breve, e di non vi attediare lascerò questo, e narrerò gli sconci, che non per sua colpa, ma per la nostra può di leggieri cagionare, acciocchè poi la donna nostra, veduti gli effetti che dalla sobrietà risultano, e dal contrario di lei, con tutte le forze sue procacci di schifare l'ebbriachezza e ogni superfluità del bere, amando piuttosto d'essere detta sobria, che ebbriaca dal mondo. Dal vino adunque in sè buono, ove immoderatamente si bee, si cangia la mente, sorge il furore, si scoprono i secreti dell'animo. Egli non lascia guatare il sole nascente, fa prestamente morire; quinci'l pallore si genera, la imbecillità, la guerra, la sfacciataggine e l'ardire di commettere ogni delitto; quinci si fanno le gote pendenti, gli occhi infermi, le mani tremanti, i sogni furiosi, e il dormire inquieto; quinci sorge la lascivia, e pieni di fetori mattutini rutti, l'oblivione quasi di tutte le cose, e la morte della memoria. Avrà adunque riguardo la donna di non essere tanto vaga del vino che incorresse in sì fatti errori, ne' quali, o vergogna degli uomini! alcuni ben sovente si veggono incorrere tuttodì. Ella berrà con quella modestia, che le si conviene e le si dice, e mai non si allontanerà dalla non picciola, e poco lodevole virtù della mediocrità, la quale altresì ingegnerassi nel mangiare di tenere, perciocchè troppo e superfluo mangiare ci fa smemorati, e non ci lascia pervenire a quella grandezza di corpo, alla quale perverremmo attenendoci alla mediocrità. Quanto viene a spettare alla favella, di cui non abbiamo ancora favellato, e pure ne bisogna favellare, io voglio ch'ella sia onesta sempre, e sempre piena di onore, che se fosse inonesta e carca di disnore, tanto si converrebbe a lei, quanto ad un bellissimo fodero una spada di cattivissima tempra, o piuttosto ponderoso, e debole piombo. Qui mi pare non disconvenirsi quel che del Piovano Arlotto mi ricorda già d'aver letto e notato: Egli aveva veduto un giovane benissimo in arnese, il quale tanto sozzo nel parlar suo si mostrava, che nulla più; il perchè a lui rivolto: o tu, disseli, usa parole conformi alle vesti n'hai nel dosso, o veste conformi alle parole c'hai usato e tuttavia usi; oltre a ciò ella sarà (il che fu in Laura, come abbiamo nel sonetto, Quand'Amor i begli occhi) chiara, soave, angelica, divina e del potere che si vede nel sonetto, Oimè il bel viso, aver avuto pure quella dell'antedetta Laura.

A queste parole molte n'aggiunse dell'altre, e quasi infinite continenti, e insegnanti la perfezione della donna interiore, il signor Ladislao, tutto in ciò solo intento, e con la lingua, e con l'animo poco, o piuttosto niente segno di stanchezza, o di pausa dimostrante di volere ancora dare.

Alla fine scorgendo passata essere l'ora, nella quale egli, e gli altri nelle due precedenti notti solevano finire i ragionari, e dopo andarsene al letto, per ultima dote, che diede alla interiore donna, le diede di lettere, delle quali ci mostrò con esempi antichi e moderni, e con autoritati assai, e con ragioni più, s'io non erro, di mille, non altrimenti essere men capaci le donne, che gli uomini, anzi, s'io bene mi ricordo, ci fece vedere, che ancora più.

Appena aveva tocco la meta il signor Ladislao, che, lui, lasciato di sguardare, si rivolsero tutti a far vedere con ragioni vive uno dopo l'altro la sua Diva avvicinarsi più alla donna, e poi dirizzarono a me gli occhi, desiosi di conoscere quale delle amorose loro venisse da me per la più bella e per la più leggiadra, dopo tanto aspettare, e dopo tanta incresciosa dimora, risolutamente giudicata. Io qui pregai loro caldamente, che due parole (e ciò larghissimamente mi concessero) mi lasciassero innanzi ch'io scendessi al giudicio ch'aveva da fare, dire sole, e incominciai rivoltomi al signor Giacomo così:

— Tale donna, quale in questo vostro realissimo, e solo degno di voi altiero Palagio è stata e da voi e dai compagni formata, ha da venire col crescer degli anni suoi fanciulleschi ancora, signor mio caro, la vostra figlioletta, la quale è di voi e della vostra cara e orrevole mogliera solo bene, singolare piacere, unico conforto, speciale contentezza. Il perchè voi vi avete da rallegrare, e, ringraziando il cielo di sì fatto dono, di perpetuamente gioire, e di perpetuamente godervi in seno. Tacqui a tanto; e poi volendo incominciare a fornire il rimanente, ecco, appresso a questo lasciarmi, e via partirsi il sonno, nel quale, con mia non poca dolcezza e contento, aveva tutte le sovra dette cose ampiamente vedute, ed occhiate. M'increbbe, monsignore, ciò stranamente, perciocchè s'io avessi potuto anch'io un poco ragionare (come a me pare, che vi si chiedea) io so bene, che quantunque la signora Ortensia, perfettissima opra di natura, ov'ella sparse tutto il seme della vera bellezza e delle vero valore, a cui non si dee agguagliare in niuna dote dell'animo, o del corpo, niuna donna presente od antica (se non vi s'agguagliasse nella favella dolce vieppiù, che non è nè miele, nè zucchero, nè manna quella antica, e faconda tanto, di cui ella n'ha il nome) avesse avuto da me la sentenza, e il giudicio in favore, nondimeno l'altre le sarebbero sì state vicine nel pregio d'amendue le bellezze, che la differenza sarebbe stata anzi poca, che no fra loro. E per dire della mia tanto bella quanto onesta Toronda (delle tre restanti divine più nel vero, che mortali donne in apparenza non mi ponendo ora a favellare) quale altra in tutte quelle parti, che la donna perfettissima hanno stampata, le si potrebbe con ragione non dirò porre innanzi, ma pur appressare, non che anco pareggiare?

Ora restami a dire, Monsignore mio onorato, che se vi parrà in queste mie tre notti, in questo mio sogno, e, per dire quel che più mi piace, in questa mia bella donna quale ella si è, ch'io non aggia osservato il decoro in tutto, e ch'io aggia ben sovente replicato quella voce, signore, massime ne' primi dui libri, avendo potuto porre la prima lettera de' nomi de' gentiluomini in quella vece loro significante, e finalmente ch'io aggia qualche cosa per inavvertenza lasciato, e dormito un poco, non vogliate perciò meco isdegnarvi, e cessare di difendere l'onore mio contra qualunque li si venisse (il che non posso non temere) ad opporre, e farlisi allo 'ncontro, che quale mi è venuto di potere vederlo, tale mi ha piaciuto, nulla aggiugnendo, nulla diminuendo, e nulla cangiando, di mandare e di spiegare in carte, e poi a voi consacrare e dedicare questo mio giocondo e dilettevele sogno.

Addio.

 

FINE

 

INDICE

 

INTRODUZIONE

 

IL LIBRO DELLA BELLA DONNA

 

LIBRO PRIMO

LIBRO SECONDO

LIBRO TERZO

 




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