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Gaspare Invrea (alias Remigio Zena)
Le Pellegrine

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  • L'IDUMEA
    • IL "FERRO DI CAVALLO"
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IL "FERRO DI CAVALLO"

 

I

 

I passi trascinando

Sul suolo deleterio,

Si va a Taulud, sperando

Di trovar refrigerio,

 

E ogni senza fallo

All'ora di compieta,

Il Ferro di cavallo

È la costante meta.

 

Ben conosciam la strada

Che a man sinistra obliqua,

Ma dovunque si vada

Arde la sabbia iniqua,

 

Scotta, toccando il viso,

L'aria, come un lenzuolo

Che Satanasso ha intriso

In un mar di vetriolo,

 

E a simular la brezza

Neppur basta il ventaglio,

Non la negra carezza

Errante nel serraglio,

 

La carezza abissina

Morbida ed inesperta,

Assidua alla rapina

Come pigra all'offerta.

 

Suvvia, cerchiamo a zonzo

Se alla caldura e al tedio

Queste statue di bronzo

Daran breve rimedio.

 

Lo sappiam, non da ieri,

Che il disinganno è rude

E scritto, e volentieri

Sempre più ci si illude!

 

II

 

Laggiù dove si avanza

L'isola, tra due mari,

Cento sette alveari

Son di Venere stanza,

 

Formanti in semicerchio,

A un metro d'intervallo,

Quel Ferro di cavallo

Leggendario soverchio.

 

Poesia d'oriente!

È un villaggio tranquillo

Dove manca lo strillo

Dei bimbi e il diligente

 

Spazzino mattutino,

E fin l'inverecondia

Sorta dalla facondia

Di scrittor novellino.

 

Nella succinta veste

Cucite tutte quante

Dalla testa alle piante,

Le educande modeste

 

Presso il loro stambugio,

Senza dar noia altrui,

Attendono colui

Che domanda rifugio.

 

Attendono. Se spesso

Qua e sotto la luna

Un gruppetto s'aduna,

Conversano sommesso,

 

E un bisbiglio assai mite

Appena si distingue;

Non fanno queste lingue

gazzarra lite.

 

L'unghie sono rapaci

Se si presenta il destro,

Ma un colpo da maestro

Rende assai più dei baci.

 

Figliuola d'Abissinia,

Negra, ma non formosa,

Almeno qualche cosa

T'imparò l'ignominia.

 

III

 

Le braccia per guanciale,

Stesa sull'angaréb,

Canta in mezzo al piazzale

Amarésh del Marèb;

 

Canta selvaggia e fosca,

Contemplando la spiaggia,

Una nenia selvaggia

Col ronzio d'una mosca.

 

Non risponde al saluto.

Scintillano i monili

D'argento sul velluto

Delle sue carni vili.

 

Ai polsi e ai piè, la striscia

Rossa del bianco sciamma

Attorce in una fiamma

Il suo corpo di biscia.

 

Non ci guarda o ci sprezza

L'occhio immobile e tetro:

Avea tanta dolcezza,

Ed or sembra di vetro! —

 

Non ve l'ho detto ancora

Che Amarésh nel collegio

Ha il grande privilegio

Di esser lei la signora,

 

A cui bacian la tunica

Le sorelle sue schiave,

L'unica bella, l'unica

Dallo sguardo soave,

 

Quella che una vittoria

Conta in ogni sorriso,

Che al tenebror del viso

Attinge maggior gloria?

 

Delle perle la chiostra

Se schiude all'idioma,

Se, ignudo il petto, mostra

Le ancora acerbe poma,

 

E incurva l'anca, e tende

Le magnifiche braccia,

Un brivido m'agghiaccia

E una fiamma m'accende!

 

Ladra forse, ma bella,

Vile, ma bella, è lei,

Fra cento sette, quella

Forse che amato avrei,

 

Se romeo alla fatua

Isola di Citera,

Della Venere nera

Potessi amar la statua,

 

Se non vedessi, oscena,

Questa dea della plastica

Rigurgitar la cena,

Ubbriaca di mastika.




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