I
I passi
trascinando
Sul suolo
deleterio,
Si va a Taulud, sperando
Di trovar
refrigerio,
E ogni dì senza
fallo
All'ora di
compieta,
Il Ferro di
cavallo
È la costante meta.
Ben conosciam la strada
Che a man
sinistra obliqua,
Ma dovunque si
vada
Arde la sabbia
iniqua,
Scotta,
toccando il viso,
L'aria, come un
lenzuolo
Che Satanasso
ha intriso
In un mar di
vetriolo,
E a simular la
brezza
Neppur basta il ventaglio,
Non la negra
carezza
Errante nel
serraglio,
La carezza
abissina
Morbida ed
inesperta,
Assidua alla
rapina
Come pigra
all'offerta.
Suvvia,
cerchiamo a zonzo
Se alla caldura
e al tedio
Queste statue
di bronzo
Daran breve rimedio.
Lo sappiam, non da ieri,
Che il
disinganno è rude
E scritto, e
volentieri
Sempre più ci
si illude!
II
Laggiù dove si
avanza
L'isola, tra
due mari,
Cento sette
alveari
Son di Venere stanza,
Formanti in
semicerchio,
A un metro
d'intervallo,
Quel Ferro
di cavallo
Leggendario soverchio.
Poesia
d'oriente!
È un villaggio
tranquillo
Dove manca lo
strillo
Dei bimbi e il
diligente
Spazzino
mattutino,
E fin
l'inverecondia
Sorta dalla
facondia
Di scrittor
novellino.
Nella succinta
veste
Cucite tutte
quante
Dalla testa
alle piante,
Le educande
modeste
Presso il loro
stambugio,
Senza dar noia
altrui,
Attendono colui
Che domanda
rifugio.
Attendono. Se
spesso
Qua e là sotto
la luna
Un gruppetto
s'aduna,
Conversano
sommesso,
E un bisbiglio
assai mite
Appena si
distingue;
Non fanno
queste lingue
Nè gazzarra nè lite.
L'unghie sono
rapaci
Se si presenta
il destro,
Ma un colpo da
maestro
Rende assai più
dei baci.
Figliuola
d'Abissinia,
Negra, ma non
formosa,
Almeno qualche
cosa
T'imparò
l'ignominia.
III
Le braccia per
guanciale,
Stesa sull'angaréb,
Canta in mezzo
al piazzale
Amarésh del Marèb;
Canta selvaggia
e fosca,
Contemplando la
spiaggia,
Una nenia
selvaggia
Col ronzio
d'una mosca.
Non risponde al
saluto.
Scintillano i
monili
D'argento sul
velluto
Delle sue carni
vili.
Ai polsi e ai
piè, la striscia
Rossa del
bianco sciamma
Attorce in una
fiamma
Il suo corpo di
biscia.
Non ci guarda o
ci sprezza
L'occhio
immobile e tetro:
Avea tanta dolcezza,
Ed or sembra di
vetro! —
Non ve l'ho
detto ancora
Che Amarésh
nel collegio
Ha il grande privilegio
Di esser lei la signora,
A cui bacian la tunica
Le sorelle sue schiave,
L'unica bella, l'unica
Dallo sguardo soave,
Quella che una
vittoria
Conta in ogni sorriso,
Che al tenebror
del viso
Attinge maggior gloria?
Delle perle la
chiostra
Se schiude all'idioma,
Se, ignudo il petto, mostra
Le ancora acerbe poma,
E incurva
l'anca, e tende
Le magnifiche braccia,
Un brivido m'agghiaccia
E una fiamma m'accende!
Ladra forse, ma
bella,
Vile, ma bella, è lei,
Fra cento sette, quella
Forse che amato avrei,
Se romeo alla
fatua
Isola di Citera,
Della Venere nera
Potessi amar la statua,
Se non vedessi,
oscena,
Questa dea della plastica
Rigurgitar la cena,
Ubbriaca
di mastika.
|