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Gaspare Invrea (alias Remigio Zena)
Le Pellegrine

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Cari entusiasmi d'una volta! Se oramai, dopo tanti anni sono spenti, ancora viva ne è la memoria. Non si rinnovarono mai più per quanti sprazzi di luce l'arte letteraria abbia poscia gittato in Italia e fuori, e rammentandoli oggi, non rimpiango soltanto la  giovinezza fuggita via estenuata  attraverso le ore peccatrici, vilmente infeconda dopo i temerari propositi, ma assai più rimpiango la mia fede perduta di adolescente negli uomini e nelle loro opere. Pure non accusando soverchi disinganni e tanto meno inique molestie durante una vita che fu sempre ed è tuttavia ferialmente calma, anche sotto il sole dei climi esotici, ora che il vespro precipita non  trovo più nell'anima mia un vestigio dell'antica fiamma e non so se per tedio o per accidia, o piuttosto per la nostalgia d'altre comunioni spirituali, da gran tempo estraneo a cenacoli e congregazioni, non mi accosto ad alcuna chiesa d'arte e non ne partecipo alle indulgenze.

Cari entusiasmi d'una volta! Non si rinnovarono mai più. Anche voi, Giovanni Camerana, maestro mio e mio primo profeta, anche voi nella mesta pace del vostro silenzio, quando volgete la memoria verso le aurore

 

"Traversate dai cento cherubini

Della speranza"

 

vi sentite colto non solo da un'immensa tristezza, ma altresì da una noia infinita di quanto adesso si agita nel mondo dell'arte e che pure un tempo avrebbe scosso tutte le vostre fibre?

Nessuno più di voi aveva risposto sollecito alla vocazione e sentiva nell'anima il culto dell'ideale artistico. Fu ''per tema o per ristoro" che spegneste d'un tratto l'incendio divino e mutaste "il carbon d'oro in carbon negro", voi che sbigottito dalle prime battaglie infeconde — nel 1865! — foste allora soccorso dalla voce e dal vaticinio di Boito, e con lui e con Praga rimaneste a difendere in campo aperto il nuovissimo Credo di quella che il vulgo chiamava tra le risate pazze "arte dell'avvenire?" Per poco rimaneste: il demonio della fama non vi tentava, le giostre scolastiche dei vocaboli allineati vi parvero ludibri delle vere battaglie combattute nel nome d'un'idea rigeneratrice.

Cantava Arrigo:

 

Dio ci aiuti, o Giovanni; egli ci diede

Stretto orizzonte e sconfinate l'ali,

Ci diè povera fede

Ed immensi ideali

...........................................................

Lascia dunque che s'alzi e che s'esali

Questa nube di duol cotanto intenso,

Essa abbrucia i tuoi mali

Come grani d'incenso

...........................................................

Piangi, medita e vivi. Un dì lontano

Quando sarai del tuo futuro in vetta,

Questo fiero uragano

Ti parrà nuvoletta.

 

E secondo il vaticinio l'uragano si dileguò, venne la vittoria, finalmente, clamorosa, ma di tre uno solo raccolse la palma dopo una disfatta memoranda; di caduta in caduta, Emilio Praga si era rovesciato nella tomba, voi, Giovanni Camerana, nell'asilo d'una solitudine certosina, senza invidia e senza rimpianto meditavate il libro che non si scrive.

 

Il libro immortale perchè è il libro dell'anima; solo Colui che ha da venire, lo legge e lo giudicherà.

Mentre non so difendermi, debole e vano, dal richiamare ancora una volta nei silenzi della mia coscienza le voci fresche e le rime che tornano in folla, come un volo di colombe, a scandere le ore bianche dei cenacoli e delle palestre, mentre mi compiaccio memorare gli entusiasmi che salutarono la mia prima visione dell'arte nell'opera dei Tre appena uscito dell'aride scuole, aride e metodiche senza intelletto, e la bocca mi sa d'amarezza quasi soave, una suggestione pertinace mi assedia: anima, che attendi? quando nel tempo avrai vestito un'ombra, questa consegnerai a Colui che ha da venire, perchè la giudichi, e tu intanto sarai ignuda nell'eternità? Che cos'è l'arte se non il magistero di vestire le ombre? Essa è ingrata e non rimunera, è volubile e non mantiene, è crudele e uccide; pròvati a contar le sue vittime; ogni giorno piange sui sepolcri e ogni giorno scava delle fosse; se qualche volta rimunera d'oro e d'argento e di gloria, la sua rara mercede è sempre pesata dalla giustizia? E la gloria, la gloria, quanto dura?

Suggestione iconoclasta dell'uomo sepolto nella trappola, morto per sempre a tutte le cose visibili, assunto in ispirito nel cielo delle invisibili. Dopo avere anche lui bruciato gli aromi d'incenso appiedi dell'idolo e iniquamente non essere stato ripagato che collo scherno, pure di salvare un'anima sola nel cospetto di Dio si getterebbe coi vandali nella distruzione di quanti tesori d'arte sono cumulati sulla terra. — Altra volta l'ho conosciuto. Che giova rammentare il suo nome straniero? Altra volta l'ho conosciuto: a Roma, in via Sistina. Quante rose, quante rose su quel poggiuolo! A chi destinava quelle rose? Chi era l'Aspettata del suo cuore, la Desiderata quotidiana nella cappella non santa, magnifica d'arazzi e di conopei, e di pitture e di rose? Non mi chiedete perchè quel conopeo, oggi recato altrove, ha sulla seta degli spruzzi di sangue che non si cancellano. Alle Tre Fontane il frate bianco non ricorda più; nell'assolverlo, le mani indulgenti d'un altro frate uccisero la sua memoria. Un giorno, sotto gli eucalipti del convento, non mi ravvisò; un giorno il priore lo fece scendere in parlatorio, ma non l'abbracciai. Non gli dissi: ti ricordi? Gli dissi hai trovato la pace? Rispose: la grazia di Gesù Cristo; questa è la pace vera, tutto il resto è vanità.

Liberatemi! liberatemi da questa assidua visione d'uno spettro, vagante sotto gli eucalipti del deserto romano. Allora, quando mi parlò, non mi sorrise nemmeno collo sguardo, le sue parole, lente, erano fredde e crudeli come daghe, ma la sua immagine non mi ha mai abbandonato, sempre al mio fianco, non come l'ombra mia, come l'ombra d'un fratello ucciso che voglia trascinarmi a mutare strada perchè laggiù, in agguato, i suoi assassini mi aspettano. Quasi ho paura; nel mio turbamento dubito di me in quella guisa che dubito degli uomini. Credete che io mi illuda scrivendo queste pagine tormentate, anch'esse vane e tormentate come l'anima mia?

Francesco d'Assisi, Angelico da Fiesole, Guido d'Arezzo, voi liberatemi per la letizia dei simboli cristiani risuscitati, voi che non le ombre, bensì le anime, vestite di luce perpetua nell'epifania delle rime, dei colori delle musiche. Se non isdegnaste allora i fiori della terra per l'ornamento delle vostre nozze spirituali, voi gli estatici e i disumanati,e la loro vanità convertiste in un miracolo di laude e di preghiera, oggi i fiori della terra sono maledetti e non troveranno misericordia davanti a Colui che ha da venire? La mia fede langue nella lucerna; quante volte l'ho creduta estinta, quante volte fu ravvivata dal dolore e fu di nuovo moribonda! ed ora, se la coscienza parla, dirà che mi atterrisce il giudizio venturo d'un Solo, o piuttosto quello presente degli uomini? La mia fede è misera, non so leggere l'alfabeto degli angeli; la mia fede non illumina e l'invisibile eterno si confonde con l'abisso tenebroso; non chiedete alla carne ciò che la carne non può dare. Pochi elettissimi riparano sotto gli eucalipti, ma beati coloro che restando nel consorzio, hanno occhi per vedere sulla faccia della terra la processione dei simboli pellegrini verso Gesù Cristo, orecchie per ascoltarne le voci, intelletto per divinarne il mistero, e senza vergogna s'inginocchiano, e trionfano dell'arte perchè ne celebri la gloria.

 

Gloriosamente cristiana, primordiale, eppure moderna nelle forme e nei segni esteriori, quest'arte, che sarà la fruttifera, non esce dalle conventicole da lampi e strepiti di finte battaglie, viene poichè è l'ora sua, umile e sincera.

Sincera sopra tutto. Se la svegliarono dal sonno di morte apparente le evocazioni di un famoso Sinodo gallicano comparso ieri, non vive in comunione con esso, per quanto ne porti manifesto sulla fronte il crisma che imprime carattere. Cotesti nuovi sacerdoti, tutti vescovi e patriarchi, essenzialmente si professano mistici, ma nel loro misticismo ai riti e alle estasi cattoliche sposano con altrettanto zelo, con altrettanto ardore i riti e le estasi dei fakiri, qualche volta dei maghi, promulgano dogmi e catechismi in tutte le diocesi, ma con tanto rimbombo di fanfare da lasciar credere che si atteggino a profeti d'un'epoca imminente speculando sulla curiosità della folla; ogni loro libro è un apocalisse, scritto nell'unico intento di suscitare controversie clamorose, quasi sempre sibillino anche per gli iniziati. Mistico forse, non sincero il Sicambro, che la sua fede inalbera come un pennacchio di paladino errante ed esce in battaglia, eroicamente feroce, contro i nemici di Dio e della Chiesa, pei quali l'inferno non ha carboni che bastino, atterra col gesto, incendia colla parola, nell'ira santa della distruzione non perdona a vivi nè a morti, e davanti a una sola grandezza si arresta di botto, compreso da riverenza anzichè da terrore, e per poco non s'inginocchia: — davanti al diavolo; non sincero il Damasceno, che appiedi del Crocifisso piange tutte le lacrime degli occhi e del cuore, confessa le nere colpe, promette l'emendazione parlando a Gesù, come Santa Teresa, in un mirabile colloquio d'umiltà, d'amore, d'offerta, di speranza, e parallelamente si abbandona, come il marchese de Sade, al delirio di tutte quante le lussurie; non sincero il Caldeo, che nel suo apostolato contro la decadenza latina accozza religione e negromanzia, platonismo e sensualità, imprecando al tramonto della fede cattolica nelle coscienze moderne violentando i riti a cerimoniare colle turpitudini, sacrilegamente.

Tutte le scuole hanno ed avranno un'ora di trionfo man mano che si succedono, l'una sulle rovine dell'altra, dopo i grandi clamori chiamati battaglie, e tutte sono destinate a perire nell'evoluzione continua degli uomini e delle cose; tutte trapelano un barlume di verità e nessuna è la vera e la vera non sorgerà mai. L'arte desiderata può nascere da questa o da quella scuola, poco monta, ma presto rompe i legami, diventa libera e personale; ha il colore del tempo e del clima in cui si svolge, le forme transitorie dell'ambiente ond'è circondata, ma lo spirito che la vivifica è immortale se procede da Dio e ritorna a Dio, unica verità e unico fine. Questo io so e ripeto: vana l'arte che vuol bastare a sè stessa, paga d'ottenere dagli uomini mercede d'applausi e di salario, meritoria e fruttifera quella che nulla sperando dagli uomini, interpreta i segni visibili dell'universo come simboli d'un'altra vita al di là della tomba.

Ignoro quanti sieno gli artisti che così pensano, fedeli al vecchio catechismo dell'infanzia. Molti li deridono, e son quelli che non li comprendono; taluni li vituperano, in nome della scienza li chiamano degenerati, gridando alle plebi di non lasciarsi lusingare, e son quelli che li temono.

 

Decembre 1893.




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