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Gaspare Invrea (alias Remigio Zena) La bocca del lupo IntraText CT - Lettura del testo |
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XI
Altro che capire! Oggi una, domani un’altra, il signor Costante capí che l’osso era piú duro di quello che credeva. O prima o dopo avrebbe finito per rosicchiarlo l’osso, in quanto a questo non ci pensava neppure, ma ci voleva tempo e giudizio, e lui invece aveva fretta e Pellegra piú di lui. Essa alla fine dei conti cercava di aiutarsi come poteva e gli scrupoli li lasciava a casa sotto il letto, perché capiva bene che scrupoli o non scrupoli, all’inferno ci sarebbe andata lo stesso, e andarci per un motivo o per un altro, un poco piú su o un poco piú giú, era tutt’uno e tanto valeva non farsi del sangue marcio in questa vita. Cosa diceva il padre Fontanarosa, quello che predicava col mazzo di carte nascoste nella manica, e in convento si dava la disciplina picchiando forte, all’oscuro, sulla schiena degli altri frati? Diceva cosí: «per tribolare di qua e di là, cari fratelli, godiamocela di qua». Ma se da una parte la fretta non serviva e si andava al passo delle marcie funebri, dall’altra non si perdeva tempo; mentre Angela in casa e Giacomo all’ospedale, piano piano si tiravano su, Pellegra e il signor Costante, d’accordo come due muse, guadagnavano terreno colle Testette. Prendendole pel loro verso con buona maniera e interessandoci la Madre Superiora delle monache dell’ospedale, erano già riusciti a cambiarle dal giorno alla notte, però esse addirittura di sí non l’avevano ancora detto, ché dopo averla tenuta ai denti per tanto tempo e aver fatto andare avanti il loro punto, solo per la rabbia di non essersi ancora maritate, gli pareva di disonorarsi in faccia alla gente se avessero ceduto. In quanto al padre e al fratello grande, il signor Costante che li aveva conosciuti al letto di Giacomo e c’era entrato nelle grazie perché, volere o non volere, si vedeva subito la persona di mondo e il galantuomo, li aveva quasi messi nel sacco con qualche bicchiere di vino e colla parola d’onore di fare ammettere all’ospedaletto dei cronici la madre idropica da cinque anni, che tra medici, medicine e operazioni, costava da lei sola piú di tutti gli altri messi insieme. Non lo capivano, minchioni che erano, che se lui ci teneva a quel matrimonio, essi avevano tutto da guadagnare e niente da perdere? Negli affari privati delle persone lui non ci si mischiava, era il suo sistema, ma se ci si mischiava lo faceva pel gran desiderio di rendere dei servizi, e quando un affare gli passava per le mani, prima d’incamminarlo voleva vederci dentro, e se non era con tutti i sacramenti se ne liberava subito, e qui i sacramenti c’erano tutti sette, che li garantiva lui. La mattina di domenica grassa, la riccica che c’era già stata due volte con Pellegra, tornò dalla Madre Superiore dell’ospedale a raccomandarsi, e si portò Angela, che stava in piedi a forza di puntelli, perché la monaca vedesse com’era ridotta. Nel salire lo scalone di marmo, pensando che lí a quattro passi Giacomino era in un letto, colla gola tagliata, e lei non poteva parlargli e nemmeno vederlo, ché le Testette nelle ore di parlatorio non lo lasciavano mai, Angela aveva creduto di rotolar giù fino in fondo, tanto le si era oscurata la vista, sicché appena la Madre Superiora se la vide davanti pallida e tirata che pareva l’imagine della morte, per un momento credette che fosse un’inferma scappata fuori del letto. La riccica gliene aveva parlato, ma che fosse ridotta a quel segno non l’avrebbe creduto se non l’avesse vista! E le fece portare una tazza di caffè, che anzi Angela e sua madre erano mortificate di darle tanto disturbo, e stette a sentire i loro sfoghi con pazienza proprio da religiosa com’era, e all’ultimo si alzò risoluta: «bisogna che la finisca io!». Si vede che in quel momento il Signore le mandò una buona ispirazione perché chiamò subito una monaca e le disse di guardare se nella sala chirurgica Santa Caterina, vicino al numero 15, c’erano le due sorelle Tribuno, e se c’erano, di accompagnarle sopra subito. Quando dalla porta le Testette videro la riccica e Angela, diventarono bianche come la carta da scrivere, ma la Madre Superiora le fece entrare e senz’altro cominciò a ragionarle meglio d’un predicatore: che era, tempo di fare la pace e che lei non le lasciava piú sortire dalla sua stanza se non la facevano. Trovavano qualche cosa da dire sul conto di Angela? Parlassero pure; non era brava e timorata di Dio, soda e tutta di casa? Volevano per cognata una di quelle come ce n’è tante al mondo, piú del diavolo che della Madonna, che portano la rivoluzione in famiglia? Da una parte la madre della ragazza, dall’altra il padre e la madre del giovine erano contenti, ed esse che appartenevano alla congregazione delle Figlie di Maria, non dovevano resistere alla volontà del Signore e impedire che due anime abbracciassero quello stato al quale il Signore le chiamava in modo cosí chiaro. Vedevano bene la povera Angela a che punto era, un’ombra che camminava, e tutto per la loro ostinazione, suggerita dal demonio, dal mondo e dalla carne; volevano spedirla in paradiso prima del tempo? Presto fatto, bastava che tenessero duro, ma il rimorso d’averla ammazzata per un miserabile puntiglio, non lo contavano niente? E l’offesa al Signore? Dopo averle già visitate due volte, prima colla disgrazia della madre diventata idropica, poi con quella del fratello, che erano due croci venute dalla sua santa e benedetta mano, Domineddio le avrebbe castigate severamente in questa vita e nell’altra, perché, come dice lo Spirito Santo, chi uccide di spada muore di spada. Non si fermò mica qui la Madre Superiora, andò avanti per un pezzo e ragioni ne tirò fuori tante che ci vorrebbe un libro cosí grosso per mettercele tutte; la conclusione fu che essa parlava ancora e le quattro donne, una dopo l’altra, piangevano come quattro vitelli. Finita la predica, stette un poco in aspettativa d’una risposta, e siccome nessuno apriva la bocca e si nascondevano tutte il naso nel fazzoletto mandando certi sospiri che erano rimbombi d’organo, cominciò di nuovo essa: insomma, il pianto era bell’e buono, ma non bastava; le sorelle Tribuno promettevano davanti al crocifisso e all’imagine della Madonna Santissima Addolorata, che da parte loro non avrebbero fatto difficoltà al matrimonio d’Angela con Giacomino? Lo promettevano come se si fossero trovate al letto di morte davanti al confessore? E le Testette, sempre piangendo, promisero questo e dell’altro, allora la Madre Superiora s’inginocchiò per terra e intonò una Salve Regina di ringraziamento; una sola, per andare subito da Giacomino, dove c’erano il padre e il fratello grande, a portargli la buona notizia. E cosi, dopo tanto, quest’imbroglio era aggiustato. Fosse il signor Costante che pretendeva d’aver fatto tutto lui colla sua politica e coi denari del benefattore, fosse la Madre Superiora, fosse magari il padre del figlio di Zebedeo, era aggiustato e non parliamone piú. Nella Pece Greca nessuno voleva crederci, ma quando videro Angela in mezzo alle Testette, una per parte, e la riccica che dalla contentezza non stava nella pelle, quando seppero di sicuro che il matrimonio era fissato per Pentecoste alla piú lunga, la Bardiglia e la Rapallina mangiarono tutto il veleno che potevano mangiare. E di vederci la rabbia dipinta a fuoco sulla faccia, la riccica sempre piú contenta, ché avrebbe voluto sotterrarle vive, specialmente la Rapallina. Per coronare l’opera, la sera di domenica grassa non le aveva portato Marinetta al veglione del teatro Carlo Felice? Essa, Marinetta e la ballerina avevano fatto una combriccola, s’erano mascherate senza dir niente, e via, che per la riccica era stata una notte d’ansietà e di tormento da non augurarla nemmeno al vostro nemico piú grande che vi avesse strangolato padre, madre e figliuoli; tutta una notte in piedi, con quel freddo, a battere le suole sul lastrico e a metter la testa fuori della finestra! Quando il signor Costante lo seppe che Marinetta era andata al veglione, bestemmie ne tirò giú tante che oscuravano l’aria e maltrattò la riccica peggio d’una ladra, ché non era buona a far la guardia a sua figlia e a prendere a quattr’occhi in un canto quella galeotta della Rapallina. Se Marinetta avesse voluto divertirsi, bastava dirlo, e lui con Pellegra, s’intende, l’avrebbe accompagnata al teatro, al veglione, dappertutto, ma con quel riguardo che bisognava avere, invece chi sa cos’era successo! La riccica lo sapeva chi gliel’aveva pagato il vestito da mascherina a sua figlia, con chi aveva ballato e discorso tutta la notte, se era andata a cenare alla trattoria con qualcheduno? No, e lui neppure, ma lui se ne lavava le mani, ché era stanco di bruciarsi gli occhi colle cipolle degli altri e di trasandare i suoi affari come li trasandava; cosa si credevano? Che fuori di Marinetta e della riccica non ne avesse altre occupazioni? Volevano regolarsi al loro modo? Padronissime; Fatevobis andava vestito da vescovo! Se ne lavava le mani e nella Pece Greca non lo vedevano piú né vivo né morto, e quella persona milionaria, che l’aveva stanata lui e sarebbe stata una fortuna magnifica da far parlare tutta Genova, dopo il trattamento che aveva ricevuto si metteva le scarpe di ferro per correre piú lontano e non cedere alla tentazione di far educare Marinetta in un collegio e poi sposarsela. Questa volta fu di parola, come disse, cosí fece, e il sabato a ritirare le carte e i denari delle giuocate, venne un altro per lui. La riccica era nera come il carbone contro Marinetta, e siccome piove sempre sul bagnato, giusto allora ricevette una lettera da Manassola: grazie a Dio, stavano bene tutti, meno il nonno che era morto del suo catarro, e la nonna le faceva dire che venisse subito a pigliarsi Battistina, ché lei non poteva piú tenerla e andava a stare in Borlasca dal figlio secondogenito. Si, e la riccica dove se la metteva Battistina? Ci mancava essa per accomodare lo riccicaso e ci mancava proprio che il vecchio, che non era mai stato buono a niente, altro che a fumare la pipa e a dire il rosario e farlo dire agli altri, partisse pel mondo di là senza aspettare che in qualche maniera Battistina fosse a posto e si guadagnasse da vivere. E la suocera, che bisogno d’andare in Borlasca? E se voleva andare in Borlasca da quella pigna secca di suo figlio, perché non se la portava con sé sua nipote, che dopo tutto le aveva sempre fatto da serva? Stiamo a vedere che se non ci fosse andato nessuno a prenderla, lei l’avrebbe lasciata morire in mezzo di una strada? E la riccica non si scomodò, e dopo due giorni ne venne un’altra lettera da Manassola peggio della prima, e la riccica, fissa nella sua idea di lasciar cantare, non si mosse; se voleva perdere Bastiano che era lí né caldo né freddo, non le restava che caricarsi di un’altra figlia. Avrebbe fatto il sordo ancora un pezzo per vedere come andava a finire, ma quando le scrissero che il suocero aveva lasciato quel poco di riccic e un tocco d’orto da dividere coi cognati, partí sul momento, incaricando Pellegra di tenerle il lotto e il banchino di verdura. Angela era come se non ci fosse; aveva da andare all’ospedale di Pammatone a trovar Giacomino e portargli dei pacchi di caramelle, oppure in casa delle Testette a mettere dei vescicanti alla sua futura suocera che colla pancia alla gola, che pareva un tamburo, chiamava Angela tutto il santo giorno e non si lasciava più toccare che da essa. Il bello è che Marinetta s’impuntò e volle partire anche lei per Manassola. Volle partire perché dopo il veglione del Carlo Felice, a Genova non poteva piú vedercisi e le era saltata addosso una gran malinconia; quando le domandavano cosa aveva, rispondeva: «niente» e tagliava corto. Quel niente era troppo e troppo poco; la riccica, dai discorsi di Pellegra, pensava chi sa che roba, ma un colpo al cuore l’ebbe veramente una mattina, nei primi giorni di quaresima, che Marinetta tornò a casa cogli occhi fuor della testa. La ballerina era scappata con un signore e le aveva portato via circa cento franchi; colla scusa di tenerglieli in deposito, di mano in mano i guadagni se li faceva consegnare, che se Marinetta, da brava figlia, li avesse dati a sua madre, non li avrebbe piú visti lo stesso, ma almeno avrebbe fatto un’opera di carità a quella che sudava notte e giorno per mantenerla. Questa era una disgrazia peggio di tutte le altre, anche di quella che Pellegra imaginava vedendo Marinetta colla testa bassa e di poche parole, ché a tutti i guasti c’è sempre il suo rimedio, fuori che a quelli della borsa; e la colpa principale era della Rapallina, che a Marinetta le aveva detto: «daglieli pure» perché si trattava dei denari degli altri, e cosí teneva il sacco ai ladri in nome dell’amicizia; tanto vero che questa volta finalmente Marinetta, aperti gli occhi, la mandò a farsi benedire, e non le parlò piú.
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