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Gaspare Invrea (alias Remigio Zena)
La bocca del lupo

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XX

 

Venne da Manassola una lettera scritta dal canonico Marmo, nella quale, implorando la sua santa benedizione e domandandole perdono di tutti i dispiaceri che poteva averle procurato involontariamente, Battistina annunciava a sua madre che don Bosco non si era scordato di lei e l'aveva chiamata insieme a due altre ragazze del paese, al monastero delle Figlie di Maria Ausiliatrice in una città del Piemonte detta Mondoví. Era sul punto di partire, in obbedienza alla voce di Dio e dei suoi superiori, per cominciare il noviziato. Dopo quindici giorni ne venne un'altra lettera, col bollo di Mondoví, scritta da una mano nuova, con tanti geroglifici sottili e tanti filetti, che Angela stentava a capirla: e Battistina diceva che si trovava in ottimo stato di salute ed era molto felice, sempre piú contenta di avere abbracciato la vita religiosa, e non si meritava certo, povera peccatrice, una grazia cosí insigne, della quale, dopo Dio, ne era riconoscente fino alla morte al molto reverendo Giovanni Bosco, suo secondo padre e fondatore della casa che l'aveva accolta con tanta generosità. Prima di partire da Manassola sarebbe venuta volentieri a Genova ad abbracciare la sua madre amatissima e le sue dilette sorelle, ma sebbene gliene piangesse il cuore, aveva pensato di dover cominciare con un sacrifizio meritorio agli occhi di nostro Signore Gesù Cristo, il suo distacco dal mondo, privandosi di questa consolazione. — Ma il punto piú importante della lettera, eccolo qui: indegnamente, senza alcun merito, lei era stata ricevuta per carità, appena appena col vestito che aveva indosso al momento di partire; si trovava adunque sprovvista di tutto, massime d'oggetti indispensabili di biancheria, pure di scarpe, e per non obbligare fino da principio il monastero a una forte spesa, supplicava che le si mandasse al piú presto possibile o la roba in natura o una somma per procurarsela, tanto almeno da arrivare al giorno della vestizione religiosa. Malgrado le ristrettezze del monastero, la veneratissima Madre Superiora, non domandava cosa alcuna, era lei stessa, Battistina, di sua spontanea volontà, che desiderava non far meno delle due compagne venute con lei da Manassola, ché oltre qualche poco di denaro, esse avevano portato un corredo sufficiente, e quasi aveva rimorso d'essere troppo a carico dell'Istituto. Intanto, essendo in quei giorni vicina la festa della Beata Vergine del Carmine, mandava a sua madre un abitino benedetto, con molte indulgenze concesse dai sommi Pontefici, mandava pure alle sue sorelle diverse imaginette sacre, e si raccomandava alle loro preghiere, promettendo di non dimenticarle mai nelle sue.

La monaca che aveva scritto questa lettera per Battistina, era una monaca piemontese di sicuro, e con tutta la sua istruzione, si figurava che la «signora Carbone Francisca» fosse qualche proprietaria, piena zeppa di denari, oppure Battistina, a vivere in mezzo alle teste fasciate, aveva perso la memoria. Fra tutte due insieme, e la Superiora per giunta, ché il suo zampino doveva avercelo messo, domandavano una cosa da niente: il corredo o la somma necessaria per provvederselo, e avevano giusto scelto il momento buono!

Avevano scelto il momento che a tante disgrazie, una dopo l'altra, infilate in uno spago come le avemarie del rosario, si era aggiunta la rottura completa colle Testette per via degli orecchini di Giacomo impegnati e dei duecento franchi della Duchessa dati a Pellegra per far tacere le donne che avevano vinto quel traditore d'un ambo. Rottura definitiva senza speranza di accomodamento né con promesse né con preghiere né con pianti da intenerire gli scogli, e quel che è peggio rottura del matrimonio d'Angela, ché Giacomino le sue sorelle lo voltavano sempre piú e lo rivoltavano come una pasta, e lui, un giovinotto che a vederlo e sentirlo si sarebbe detto Spaccamontagna, lui taceva e quasi ci diventava grasso. Secondo certe persone bene informate, la macchina era montata già da lungo tempo, non si aspettava che un pretesto, e l'uomo, facendo da scemo per non pagar gabella, col gusto sulla lingua di qualche cosa di meglio che aveva in vista, era d'accordo pienamente colle Testette per voltar casacca e filare al primo momento favorevole. Se non fosse stato cosí, le Testette si sarebbero contentate di gridare al loro solito per un paio d'ore, poi si sarebbero addolcite, e se esse, matte com'erano e maligne, avessero voluto romperla ad ogni costo, quell'altro, per amore d'Angela, questa volta avrebbe tenuto forte, ché quando si vuol bene davvero a una povera giovine e per tanti mesi si è fatta stare in pena sulla lama di un rasoio, di punto in bianco non si abbandona senza ragione e non si fa la marmotta e non si cede ai capricci di due pettegole.

E che ragione aveva d'abbandonarla? perché non mettersi nei suoi panni e compatirla del sacrifizio fatto, che le aveva levato dieci anni di vita? ma avrebbe dovuto piuttosto baciare in terra dove lei metteva i piedi, perché quello era stato un sacrifizio generoso, un'opera di carità bagnata con lagrime di sangue per soccorrere sua madre e difenderne la riputazione. Era un uomo o una banderuola? aveva il cuore di carne, di ghisa o di cartapesta?

Chi non vuol crederlo non lo creda, ma Angela dopo aver pianto e supplicato inutilmente, quando vide ad un tratto volarsene via tutte le sue speranze, quelle che bruciandole il sangue la tenevano in piedi, quando si trovò abbandonata dall'uomo che aveva scelto perché le facesse compagnia tutta la vita, invece di darsi alla disperazione o buttarsi in terra per morta, chinò la testa, rassegnata. Le lagrime le aveva sparse prima, non ne versò piú: pareva che lo sapesse e si fosse preparata a ricevere il colpo. Solo, non volle restituire l'anello, non volle, e basta: Pellegra, sua madre e sua sorella, le donne del vicinato si misero a predicarle che secondo gli usi e secondo le regole non poteva piú tenerlo, anzi le avrebbe portato disgrazia, le Testette glielo fecero domandare diverse volte: niente; piuttosto si sarebbe lasciata tagliare il dito; se veniva lui in persona, Giacomino, se aveva il coraggio di venire a farsi dare l'anello, glielo dava, ma a lui in persona, a lui solo! — Questo dimostra che essa sperava ancora, dimostra principalmente che se aveva saputo sopportare con coraggio la botta terribile, non era riuscita, e forse non ne aveva avuto neppure la tentazione, a levarsi quel figliuolo dal nido del cuore. Nella sua malinconia dolce, gli voleva sempre piú bene e l'aspettava sempre, ma era il caso di recitarle l'antifona del Padre Fontanarosa: «amare e non essere amato, maestro, che tempo è? — tempo perso e filo sprecato!». Infatti, mentre lei perdeva le ore ad aspettarlo, figurandosi di vederselo un bel momento comparire davanti come prima, e in quest'idea trovava la forza di resistere al male che la rodeva, Giacomino s'era già voltato colla prua da un'altra parte.

Con chi gliene parlava, tanto lui come le Testette alzavano la cresta e di ragioni ne avevano un'abbondanza. Gli orecchini impegnati e il sussidio della Duchessa gettato in perdizione, non erano niente affatto un pretesto, e non lo erano perché una sposa, alla vigilia di dir di , non s'è mai visto che porti al Monte un regalo dello sposo, e se non si fa scrupolo di sbarazzarsene per pochi centesimi, vuol dire che il regalo e lo sposo li lega in un fascio, e se dell'uno non sa cosa farsene, dell'altro non gliene importa una pipa di tabacco; non erano un pretesto perché i denari avuti dalla Duchessa, li aveva avuti per il matrimonio non per nasconderli con tanti sotterfugi e poi buttarli in mare, cosí pel semplice capriccio di vederli fare il salto nell'acqua! Era nel suo diritto, forse, di sprecare a questo modo la grazia di Dio, essa che aveva sempre la paura in corpo che le sue future cognate volessero spogliarla? una volta maritata, che donna casalinga, che donna di giudizio e di economia, con questi istinti alla grande! altro che duchessa di Galliera!

Ma mettiamo pure che fossero tutti pretesti, mettiamo che sul processo della Bricicca e sul disonore della sua andata in prigione — ché non c'era barba d'avvocato da poterla salvare — ci si volesse passar sopra, chi si sentiva il coraggio di prendere e attaccarsi alle spalle un cataletto? Non c'era mica remissione, Angela, se non era tisica, poco olio aveva nella lanternetta, bastava guardarla, colore dell'acqua tiepida, sempre stanca, sempre colla tosse che le fracassava il petto, diventata una festuca di zolfanello da non riconoscerla piú da quando Giacomino l'aveva vista le prime volte e gli era piaciuta; addirittura un tracollo. Voler bene a una persona sana coll'intenzione di sposarla, è un conto; sposarla quando è già sulle ventitré e tre quarti, è un altro; colla salute non si scherza, e chi prende moglie la prende per altri motivi che per vivere in un ospedale tra i vescicanti e le inquietudini e tirarsi in casa medici, preti e beccamorti.

Purtroppo, per questo verso, una fetta di ragione l'avevano: Angela tirava davvero la vita coi denti e non sembrava che avesse in corpo lo stesso sangue di sua madre e di Marinetta, sempre di faccia prosperosa da qualunque parte soffiasse il vento. A rigore, dei dispiaceri e delle tribolazioni della famiglia, Marinetta, attaccata colla pece alla Rapallina, se ne dava poco fastidio, ma il contraccolpo bisognava che lo sentisse anche lei per forza, ché oramai cavurrini e franchi da sua madre non ne buscava piú, e se c'era un tempo che ne avesse necessità, era giusto quello; di giorno in giorno, crescendo i lussi e i capricci, crescevano le spese, mentre per la sua andata a Manassola aveva perso quasi tutte le poste e per rifarsele la stagione non era adattata e doveva aspettare ai primi dell'inverno, quando le signore tornano dalla campagna, vengono giù le forestiere, e coi teatri aperti, arrivano le ballerine e le commedianti. Di piccoli imprestiti in via d'amicizia, dalla Rapallina ne aveva avuto piú d'uno, ne aveva avuto perfino dalla Bardiglia e dalla Linda, ma è una fontana che diventa secca in un momento quella degli imprestiti, e amicizia o no, rimane sempre un brutto verme sul cuore di chi ha fatto i debiti e non trova mai l'ora di poterli pagare.

Vedendola ingrugnata un giorno e l'altro pure, il signor Costante cominciò a passeggiarle di nuovo intorno, a dirle la barzelletta simpatica per farla ridere, a tastarle il polso come ai fichi per sentire se sono maturi. Un dopopranzo, fosse caso o fosse appuntamento, l'incontrò sul ponte di Carignano, volle pagarle una bottiglia di gazosa nel giardinetto di una birreria, e seduti a tavolino, le parlò da amico, col cuore alla mano: perché non si era mai fidata di lui? perché si era cacciata corpo e anima nelle braccia della gente maligna che a torto e tortissimo lo detestava, invece di mettersi sotto la sua protezione? Valeva poco la sua protezione, ma valeva tanto, che lei a quest'ora avrebbe potuto far fuoco colle sue legna senza dipendere da nessuno, e qualche scudo in saccoccia se lo sarebbe sempre trovato! Lo sapeva bene il signor Costante quello che si diceva di lui nella Pece Greca, ch'era una canaglia, che mangiava a quattro ganascie sull'onore di questa o di quella, eccetera eccetera, ma in coscienza, a Marinetta le aveva mai proposte niente di male? la sera di domenica grassa, al veglione del Carlo Felice, l'aveva accompagnata lui? certamente, metteva una mano sul fuoco, non c'era stato tanto cosí da ridire, aveva ballato, s'era divertita e buon giorno, ma le male lingue che lo denigravano, Rapallina e compagnia, potevano accusarlo lui, anima di legno! se per disgrazia l'angelo custode s'era fatto rosso?

Chi si fece rossa, un peperone cardinale, fu Marinetta, che nascose il naso nel bicchiere senza rispondere, e sentendosi sulla faccia le occhiate calde del signor Costante, avrebbe voluto rintanarsi sotto terra. Questo bastò perché, dopo un piccolo intervallo, il discorso prendesse un altro giro: certi cantini si toccano appena, poi si cambia registro. Il signor Costante parlò ancora per due ore, tutto blando, tutto crema e vainiglia contro il suo solito, trovando la maniera di farsi capire a fondo, senza spiegarsi altro che col movimento degli occhi. Come diceva quello? «la lingua dai miei occhi è assai diversaintendetela sempre viceversa» e per sapere intendere viceversa, Marinetta non aveva piú bisogno d'andare a scuola a imparare il catechismo della malizia.

Coll'abilità speciale che il signor Costante possedeva di cambiar le carte, mettere sempre in prima riga il suo riverito nome e declamare il proprio panegirico su tutti i tòni, le signorine di Genova passate, presenti e future, quelle che hanno le piume sul cappello e la porta di casa col saliscendi, uccelli di passaggio e di gabbia, le fece passare come in una lanterna magica, tempestando scandalizzato contro il governo e la regia questura che le lasciavano passeggiare invece di metterle al fresco. Non ce n'erano molte a Genova, ma quelle che c'erano pareva che le conoscesse tutte, sapeva a memoria la loro vita, donde venivano, quanto guadagnavano andando la sera a divertirsi negli scanni del Politeama, quanto spendevano e spandevano in vestiti di seta, in guanti fino al gomito, in braccialetti d'oro; o torinesi o milanesi, non si sbagliava, per lo piú figlie di portinai o scolare di modiste, dal niente erano venute a galla pei meriti del loro fusto, trovavano sempre dei ricconi che ci consumavano intorno un capitale, e il bello era questo, che mentre la maggior parte a Milano e a Torino, dove ce ne sono piú che stelle in cielo, tiravano avanti digiunando anche le feste comandate, a Genova si rimpolpavano presto, salivano in grandi pretese e avevano l'abilità di tornarsene a casa con dei risparmi non tanto piccoli, provviste di ogni ben di Dio. — Marinetta, colle orecchie larghe, si sentiva in bocca l'acquolina. — Ecco chi assisteva la fortuna! e pensare che malgrado l'arenamento degli affari, con tanti disastri di Borsa, i signori pronti a rovinarsi per queste creature, nascevano sulla strada come funghi in campagna, e aumentavano sempre, giovani e vecchi, paolotti e liberali! bastava che una ragazza condizionata di corpo secondo le regole, dicesse: presente! perché piú di venti si bastonassero per averla.

Ma queste erano miserie umane e il meglio era lasciarle da parte. Per variare, il Costante raccontò dei fatterelli burleschi, un'insalata di preti, monache, trombettieri, vescovi e donnette allegre, roba dell'altro mondo, che dove se la fosse pescata non si sa, da fare venir rosso non solo l'angelo custode, ma un bosco di cipressi. Che male c'era, insomma? non si poteva piú ridere? stiamo attenti, ché Marinetta, colla sua innocenza, credeva ancora d'essere venuta fuori da un cavolo!

Nell'accompagnarla a casa sull'imbrunire, diventati buoni amici e discorrendo un'altra volta sul serio, le diede parola d'occuparsi subito di lei per trovarle qualche signora che pagasse bene. La stagione era morta, ma non voleva mica dire che signore in città non ce ne fossero o che andassero coi capelli giù per le spalle; cercando si sarebbe trovato, anzi le nominò fra le altre una certa signora Barbara, che di mettere a parte le pettinatrici, purché fossero abili, era la sua partita. Siccome venivano giú per via Fieschi, le fece vedere il numero della porta dove questa signora Barbara stava di casa.

Una porta a mano destra, bassa e stretta, sotto il lampione. — Quella notte, almanaccando nella sua testa i discorsi del signor Costante e molto piú di quello che aveva detto, quello che aveva lasciato capire, Marinetta dormí poco o niente: un gran bruciore di stomaco, una frenesia che le faceva gettare in aria i lenzuoli e rivoltare l'origliere ogni minuto per sentire il fresco, un va e viene davanti agli occhi, di capelli colle piume e ombrellini di seta. Comunque andasse, il signor Costante l'aveva persuasa, era decisa d'abbandonarsi nelle sue mani, se non altro per provare: tanto, fortuna o disgrazia, non aveva piú nulla da perdere, e giuocatosi con poco giudizio il Camillo Ramò, ché in quanto a lui oramai erano messe dette e vespri suonati, a sposare qualche povero diavolo della Pece Greca per tirare la carretta in due, non ci pensava di sicuro. Se un giorno o l'altro le capitava da maritarsi secondo la sua idea, anche con un vecchio decrepito, anche con quel signore antipatico che nell'inverno il Costante aveva voluto metterle alle spalle e si diceva che patisse di mal caducobene, ma il matrimonio era un dippiú, e intanto le bolliva nel sangue l'invidia, la smania del lusso e dei divertimenti, e se non poteva sfogarla, ci lasciava le ossa.

 

 




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