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Usciere, Emma e detti, poi Gennarino.
USCIERE (introducendo Emma): Favorisca, signora, s’accomodi.
EMMA: Grazie. (Siede vicino ad A malia, dopo aver salutato tutti senza parlare.)
GAETANO: (Uh! Emmuccia!). (Con molta passione.)
FELICE: (Mò more D. Gaetano!).
GAETANO (alzandosi): Avvocà, un’altra preghiera.
ANTONIO: Dite. (S’alza e viene avanti.)
GAETANO (sotto voce): (Questa qua, è quella tale giovine, alla quale io aveva scritta la lettera che mia moglie trovò).
ANTONIO: (Ah! questa qua?).
GAETANO: (Sissignore).
ANTONIO: (Bravissimo!). Te voglio accuncià io te voglio.
ANTONIO: (Eh! molto simpatica!). (Ritornano ai loro posti.) Signorina Emma, chi lo doveva dire che dovevamo vederci qui, in tribunale.
EMMA: Eh! Non c’è che fare, pazienza. Ecco, che cosa significa fidarsi troppo degli uomini.
ANTONIO: Degli uomini, va bene, ma voi adesso vi siete fidata dei mandrilli! (Ridendo.)
FELICE: D. Gaetà, l’ha con voi!... Uno quanno sente mandrillo, subito s’accorge che siete voi!
GAETANO: E quanno uno sente rangotango, subito capisce che siete voi!... Avvocà, e comme ve vene ncapo?
ANTONIO: Ma scusate, abbiate pazienza, io non sò come una donna si può innamorare di voi.
GAETANO: Eh! Ncasate la mano! (Felice ride.)
EMMA: Egli disse che voleva sposarmi, ed io, a questa lusinga, non guardai né l’uomo, né l’amante, nè il mandrillo, ma il marito.
ANTONIO: Il marito?... Ma guardaste il marito di una signora!
EMMA (forte ed alzandosi): Voi siete un imbecille!
ANTONIO: Ah! A me imbecille?! (S’alza e viene avanti.)
FELICE: Pss... non gridate. (Mettendosi in mezzo ai due, gridano contemporaneamente tutti e tre.)
USCIERE: Pss... signori... signori... vi prego, un poco di silenzio... lo presidente se sta cagnanno la cammisa.
FELICE: Chisto è n’ora che se la sta cagnanno!
ANTONIO: Va bene, questa parola me la pagherete.
EMMA: Ve la pagherò come vi pagano tutte le vostre parole. (Usciere via e poi torna.)
ANTONIO: Voi siete una donna, e non mi conviene mettermi con voi mandatemi qualche vostra persona e ce la vedremo. (Gaetano si sarà fermato col cappello in mano guardando Emma con molta passione.)
EMMA: E va bene, vi manderò mio fratello.
ANTONIO: Benissimo! (Ritorna al suo posto.)
FELICE (ad Emma): Va bene, mandatece pure la sorella. (Poi ad Antonio:) Avvocà, vuje invece de penzà a la causa mia... (Poi vedendo Gaetano si mette vicino a lui togliendosi il cappello.) Signurì... fate bene a nu povero cecato... aggio perzo lo meglio de la vita mia!... La vista de l’uocchie!
GAETANO: Ma voi siete n’affare serio... sapete?
FELICE: E vuje me parite nu pezzente, che cerca la lemmosena!
GAETANO: Che pezzente... io sto guardanno a chella... Io saccio quella quando se nfoca quanto è terribile! (Siedono tutti.)
USCIERE (introducendo Gennarino): Trase, trase, levete lo cappiello.
FELICE: Lo cafettiere. (Alzandosi.)
USCIERE: Assettate llà dereto. (Indica dietro la ruota.)
FELICE: Un momento, Usciè, perdonate... (A Gennarino:) Gennarì viene ccà, assettate vicino a me. (Lo piglia per la mano.)
USCIERE: Nonsignore, scusate, questo non può stare qua.
FELICE: Perché non può stare? Quello è testimone a carico...
FELICE (a l’usciere): E dunque lasciatelo discaricare. (Gennarino siede vicino a Gaetano.)
USCIERE: E se ne va abbascio la dugana a scaricà, qua non può stare. (Lo piglia per mano per farlo alzare.)
FELICE: Ma nonsignore, Usciè, quella è persona mia.
USCIERE: Ma scusate, chillo sta cumbinato de chella manera...
FELICE: E che vuoi dire? Mo lo testimone lo faccimmo venì in frak e cravatta bianca! Comme se trova, viene, sarebbe bella! Gennarì, assettate, nun te n’incaricà.
ANTONIO: Va bene, Usciè, lasciatelo stare. (Tutti siedono.)
GAETANO (pausa, guardando Gennarino e Felice): Oh! Ma insomma vuje mò che tenite ncapo, che stu lazzarone io vulite fa stà vicino a me?
FELICE: Lazzarone?!... D. Gaetà e che d’è sta parola? Sapisseve vuje chello che sape chisto.
GAETANO: Pecché è istruito, è istruito?
FELICE: Istruito? Chillo sape lo fatto de io schiaffo.
FELICE (appoggiandosi con Gennarino sulle gambe di Gaetano): Gennarì, tu haje da dicere co lo schiaffo fuje tanto forte, ca me nturzaje tutta la faccia.
GAETANO: Oh! ma vulisseve na colonnetta, na scanzia, nu cuscino... pe sapè almeno. (Poi a, Gennarino gridando:) E scostati... tu puzzi di cipolla che appesti!
USCIERE: Pss... pss... Signori miei, nu poco de silenzio. Vi ho pregato ca lo presidente se sta cagnanno...
GAETANO (pausa, s’alza e s’avvicina a l’usciere, mostrando Gennarino): Puzza di cipolla! (Siede.)
FELICE: Oh! Usciè, ma mò me pare che sia na mancanza de rispetto proprio a me. Vi ho detto ch’è persona mia, e qua deve stare.
USCIERE: Ma quello puzza di cipolla!
FELICE: E che vuol dire che puzza di cipolla, il signore questo ha fatto colezione. D. Gaetà, ma ched’è sta cosa? Puzza de cipolla, e non puzza de cipolla... ve voltate da questa parte, e non la sentite. Mò me disgustate nu testimone pecché puzza de cipolla!... Questo ha potuto, e questo ha fatto colezione! (A Gennarino:) Signore puzzate! (Siede. A destra lunga suonata di canipanello.)
USCIERE (annunziando): La Corte! (Tutti si alzano.)
GENNARINO (a Gaetano): Neh!... Io pure m’aggia sosere?
GAETANO: Susete, assettete, a chi l’assigne!... (Gennarino s’alza.)