Eduardo Scarpetta
Tre pecore viziose

ATTO PRIMO

SCENA SETTIMA   Biase, poi Beatrice, Camillo, Fortunato e detti.

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SCENA SETTIMA

 

Biase, poi Beatrice, Camillo, Fortunato e detti.

 

BIASE (entrando): D. Felì, stanno venenno la signora, D. Fortunato e D. Camillo.

FELICE: Oh, avimmo fernuto! Mettetevi in linea... vide la vita che menammo cca.

BEATRICE (esce senza parlare).

FELICE: (La mamma de Lucrezia Borgia!).

FORTUNATO (esce senza parlare).

FELICE: (Fratello zuoppo!).

CAMILLO (esce senza parlare).

FELICE: (Lo guardaporte de lo vico de le campane!). (Fortunato vuol salutare Errico.)

BEATRICE: (Deve salutare primma lui a noi).

FORTUNATO: (Chillo non saluta, e nuje stammo ccà, comme tanta statue!).

BEATRICE: Il signore chi è?

ERRICO: Errico Passetiello, ai vostri comandi.

BEATRICE: Desiderate parlarmi?

ERRICO: Sì, tanto a voi quanto al signor Fortunato e al signor Camillo.

BEATRICE: D. Camillo e D. Fortunato dipendono da me! Tutto quello che voglio io, fanno loro.

FORTUNATO: (Che bell’onore!).

CAMILLO: (Nun ve ne ncarricate... Che avimma ?).

FORTUNATO: (È nu fatto! Quanto cchiù pe mazze de scopa simme trattate, meglio è!).

ERRICO: Allora parlerò con voi.

BEATRICE: Volete rimanere da solo a sola?

ERRICO: Non c’è bisogno. Ciò che debbo dirvi lo possono sentire tutti; non è un affare segreto.

BEATRICE: Benissimo... restate tutti!

FELICE: (E chi se sta muvenno?).

BEATRICE: Biase?

BIASE: Comandate?

BEATRICE: Sedie... (Numera le persone.) Sette sedie.

BIASE: (Sette guastiedde alla siciliana!) (Tutti seggono. Biase via.)

BEATRICE: Dunque, parlate.

ERRICO: Signora mia, mi sbrigo in due parole: vostra nipote mi piace e me la voglio sposare. Informatevi di me...

CONCETTELLA: A me m’è simpatico, me piace e me lo voglio spusà!

BEATRICE: Silenzio, voi! Che vuol dire questo rispondere in mezzo? Chi vi ha insegnato questa creanza? Nun lo ffà n’ata vota, che te metto a dovere! (A Camillo.) E non come voi, che siete il padre, non le dite niente.

CAMILLO (mettendosi con la sedia in mezzo): Concettella, un’altra volta che rispondete, vi faccio una brutta mortificazione! Statevi al posto vostro, perché se no...

BEATRICE: Va buono, sì troppo luongo. (Camillo si ritira al suo posto.)

FELICE: Ma quella la ragazza...

BEATRICE: Silenzio!

FELICE: (Ccà stammo a scola!).

BEATRICE: Signore, il vostro parlare non mi piace. Voi precipitate troppo il discorso. Parlate meglio.

ERRICO: (E comme aggia parlà?)... Un mese fa vidi vostra nipote alla , me ne innamorai e giurai di farla mia! Mi sono diretto a voi come sua zia, ed ero venuto anche a parlare con suo padre e suo zio. Ma na vota che non contano niente, che sono due esseri che, o ci sono o non ci sono, è l’istesso, così dico tutto a voi. Sono capo commesso della Casa Giusti e Compagni, e mi vengono duemila lire fra lucri e mesata. Domandate di me; sono un giovane onesto, di buona famiglia, e posso renderla felice.

BEATRICE (a Fortunato e a Camillo): (Che vulite ? Vulite parlà?).

FELICE: (D. Camì, che parlammo a ffà? Nuie avimmo fatto chella figura!).

CAMILLO: (Beatrì, parla tu).

BEATRICE: Sentite, signore... Oggi siamo in un’epoca che, per riguardo a matrimonio, bisogna spaparanzare tanto un paio di occhi... È vero D. Felì?

FELICE: Sicuro! (Ecco l’umiliazione!)

BEATRICE: Un giovane, quando si presenta, vi a credere tante bugie, tante falsità!... Non parlo già per voi, parlo al generale.

FELICE: (Parla co lo capotammurro!).

BEATRICE: Vi dice che tiene mille e tre, mille e quattro, mille e cinquecento lire al mese, che tiene, che possiede... e poi non è vero niente! Intanto, che succede! Che la giovane piglia una passione, i genitori, per non farla ammalare, la fanno contenta. Dopo il matrimonio mancano i mezzi, e i genitori sono costretti a pigliarseli in casa e dar loro da vivere... Non è vero, D. Felì?

FELICE: Sicuro!

VIRGINIA: (Sti pparole veneno a nuje!).

FELICE: (Mannaggia li maccarune co lo rragù!).

BEATRICE: Poi debbo dirvi, caro signore, che ciò che voi avete, anche se fosse vero, è troppo poco per mia nipote. Che cosa fate con duemila lire al mese? E anche se fossero duemilacinquecento, che cosa ne fareste? Mia nipote tiene una dote e, scusate se ve lo dico, non può sposare un capo commesso con duemila lire al mese... (Tutti si alzano.)

ERRICO: Ma io tengo uno zio ricchissimo che, a morte sua, lascia tutto a me.

BEATRICE: Ah, a morte sua? Ma mo è vivo ancora. Lasciate che more, e po’ ve la sposate.

CONCETTELLA: No, papà, io lo voglio!

BEATRICE: Silenzio!

CAMILLO: Zitta tu!

ERRICO: Sentite, signora, io non potevo mai credere che avreste agito così! Io mi sono regolato da gentiluomo, perché volevo bene a Concettella cchiù de qualunque cosa. E aggio ditto la verità, aggio ditto chello che tenevo, e credo che ogni madre, ogni padre, ogni zio, vedendo questo modo di pensare, acconsentirebbero a far felice una ragazza. Io non sono uno di quelli che avete detto voi, quelli che si presentano in una famiglia, raccontano mari e monti, ingannano una figliola, e, quanno se l’hanno sposata, s’abboccano dinto a la casa de li pariente de la mugliera, e mangiano, veveno e se spassano senza fare niente... Non è vero, D. Felice?

FELICE: Sicuro! ( accumencia chisto, !)

ERRICO: Io vi ho parlato da galantuomo e non credevo mai che mi avreste data questa risposta. Ma vi giuro, da quel giovane onesto che sono, che Concettella sarà mia a qualunque costo! (Via.)

CONCETTELLA: Vuje avite voglia de , avite voglia de dicere, che io a Errico m’aggia spusà! (Via seconda a sinistra.)

BEATRICE: T’haje da spusà chi dico io!

VIRGINIA: Ma zizì, nuje me pare che tenimmo ancora a papà!

BEATRICE: Papà non c’entra! Sono io la padrona della casa, sono io che comando!

VIRGINIA: Comandate, se capisce, pecché tutte avimmo bisogno de vuje, tutte quante avimma mangià, e voi ce date a mangià, pecché... nuje nun tenimmo niente... Papà se sta zitto, pecché è la posizione che nun lo parlà. Fortunato nun parla, pecché la sacca nun lo arapì la vocca, e fanno a vuje, dipendono da vuje. Pecché? Pecché s’ha da mangià! Ma si lloro se fidano de suffrì ancora, nuje tenimmo sango dinto a li vvene! proprio me vaco a piglià la rrobba mia e ce ne jammo da dinto a sta casa! Io mmaretata, e nisciuno me lo ppoimpedì, pecché la legge dice che la moglie deve seguire il marito. Accussì vuje ve levate lo fastidio e nuje fenimmo de suffrì! Pecché a essere rinfacciato ogni tanto nu muorzo de magnà che ce date, è troppo, è troppo! (Via prima a sinistra.)

FELICE (pausa): Troppe umiliazioni, troppe sofferenze. E ogne tanto na parola mazzecata, ogne tanto nu buttizzo! Ma sì, ce ne jammo, ce ne jammo, vi leviamo il fastidio!

 


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