Eduardo Scarpetta
Li nipute de lu sinneco

ATTO PRIMO

SCENA TERZA   Di dentro si odono applausi e voci che gridano: «Evviva ’o sinneco!».

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SCENA TERZA

 

Di dentro si odono applausi e voci che gridano: «Evviva ’o sinneco!».

 

CICCIO (di dentro): Va bene, va bene, grazie! Salvatore, non venì nessuno appresso!

SALVATORE (di dentro): Va bene, Eccellenza. (Di dentro ancora applausi e voci che gridano: «Viva ’o sinneco!».)

CICCIO (entra seguito dal segretario Alfonso e la guardia municipale Salvatore): è n’affare serio, ! Nun pozzo cammenà! (Salvatore passeggia sul fondo, da guardia municipale.)

ALFONSO: Illustrissimo, questo vi deve far piacere, perché vuole dire che il popolo vi ama, e giustamente, perché voi lo meritate sotto tutti i rapporti. Un uomo come voi, qui non c’è mai stato!

CICCIO: Vi ringrazio tanto tanto.

ALFONSO: Ma che ringraziare, è la verità! Voi avete un cuore nobile, sentimenti nobili... L’altro sindaco, invece, si faceva odiare da tutti, appunto per il suo carattere superbo. Voi no, voi siete nobile e democratico!

CICCIO: Basta, segretà, grazie tanto. (A parte.) Chisto è nu poco seccante, la verità! (Ad Alfonso:) Quell’uomo, però, non se ci avete fatto riflessione, m’ha visto e s’è voltato dall’altra parte. Non m’ha dato proprio confidenza.

ALFONSO: Possibile! Ma forse non sa che voi siete il sindaco. Aspettate un momento.

CICCIO: No, non ve ne incaricate, segretà: io non ci tengo.

ALFONSO: Ma ci tengo io, però! (Si avvicina a Pasquale e lo guarda.) (Pasquale guarda lui con occhi stralunati; lazzi di paura, ma senza strafare.)

PASQUALE: M’avite dicere quacche cosa?

ALFONSO: No, vi volevo dire che quel signore è il nuovo sindaco...

PASQUALE: Lu sinneco nuovo? (Si leva la coppola e si avvicina a Ciccio:) Uh! Scusate, Eccellenza, non nce avevo badato pecché steva pensanno a cierte fatti de li mieje... e cierti fatti che voi, comme a sinneco, pure avisseve sapé... Ma non importa, ci penso io, io solo tengo lo coraggio de m’incarricà de sta cosa... pecché comme coce a me non coce a nessuno... E s’ha da perdere lo nommo de Pascale Guerra se pe tutt’oggi nun ne veco lo costrutto! (Soggetto, poi.) Bacio la mano a vostra Eccellenza. (Esce.)

CICCIO (ad Alfonso): Io v’avevo pregato che non ci tenevo... ma voi afforza l’avite vuluto sfruculià... Chi lo che gli sarà successo... si sarà contrastato co qualcheduno.

ALFONSO: Sono affari che non riguardano voi. Non ve n’incaricate. Dunque, Illustrissimo, stamattina voi volete proprio pranzare qui?

CICCIO: No, voi che dite: sono venuto per vedere questo sito che me ne parlavano tanto bene... dice che ci sta un buon bicchiere di vino. Assaggeremo qualche cosa, così, per colezione.

ALFONSO: Oh, guardate, io avevo fatto preparare il pranzo.

CICCIO: E avete fatto male, io non vi ho dato nessun ordine. Che pranzo! Vi pare, io oggi aspetto mio nipote Felice che viene da Milano: aggio fatto preparà certe squisitezze dal cuoco mio!

ALFONSO: Ah, bravo, avete un nipote?

CICCIO: Sicuro, tengo un nipote e una nipote. Se vi dico una cosa, voi non lo credete...

ALFONSO: Ma vi pare!

CICCIO: Tengo un nipote e una nipote, ma non li conosco, nessuno dei due, perché non l’aggio viste mai.

ALFONSO: Oh, questa è bella! E come, scusate? (Seggono.)

CICCIO: Ecco qua: mio fratello Ambrogio, buon’anima, da giovinotto s’innammuraje de na nzalatara.

ALFONSO (sconcertato): Nzalatara?

CICCIO: Sì, un’erbivendola... Io, figuratevi, da quel giorno non lo volli più vedere e siamo stati in urto per sette anni, durante i quali, mio fratello fece due figli co sta nzalatara: un maschio e una femmina. Arrivato co l’acqua alla gola venette da me dicendomi che voleva fare pace pecché, capite, steva disperato... Un momento che io me andai in camera mia a vestirmi, questo mio signore apre la scrivania e se piglia 40000 franchi, tutti titoli al latore.

ALFONSO: Possibile? Vostro fratello?

CICCIO: Mio fratello. Se pigliaje la nzalatara e se ne scappò. Io che potevo fare: si trattava di mio fratello, capite? Ma non lo vulette vedé cchiù, però. Seppi che tornò a Napoli, ma che poi se ne andò via n’ata vota pecché a Napoli morì la nzalatara.

ALFONSO: Ah, morì?

CICCIO Già a tre anne fa morì pure lui, a Milano.

ALFONSO: E i due figli dove sono morti?

CICCIO: I figli sono vivi! Se vi ho detto che oggi aspetto mio nipote...

ALFONSO: Già... Mi ero lasciato prendere dalla mortalità... Aspettate il nipote maschio, evvero?

CICCIO: Perfettamente. Lui restò a Milano per studiare, e vi dico che ha fatto profitto assai: conosce quattro lingue. Na vota m’ha scritto in francese, na vota in inglese... Na carta postale pure me la scrivette in milanese. Insomma, è istruito assaje.

ALFONSO: E la femmina?

CICCIO: La femmina? Seppi che il padre la lasciò nell’educandato che sta qui a Castellammare... ma quella non ci penso nemmeno, non la voglio vedere. Chi lo sa come hanno saputo che io le sozio e ogni tanto mi mandano lettere dicendomi che è insopportabile, che è disobbediente, che se ne ascì da llà dinto... Io non l’aggio manco risposto e si le vene ncapa de venì addò me, immediatamente le faccio taglià li capille, le faccio passà lo rasoio e la chiudo in un convento.

ALFONSO: Eppure io dico che se l’arrivate a vedere...

CICCIO: No, segretà, ve ne prego, non me ne parlate! Quella ha preso del sangue della madre: è na nzalaterella pur’essa. Appena arriva mio nipote Felice, lo metto in possesso di tutti i mie beni e a essa manco nu centesimo!

ALFONSO: Quello che fate voi sta ben fatto.

CICCIO: Chiamate sto padrone, va’.

ALFONSO: Ehi, padrone! Qualqueduno!

 


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