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Bologna, 22 febbraio 2000
Due settimane a seguire le poche tracce
lasciate da un personaggio di cui non so nulla, in un percorso che potrebbe
condurmi a Est, in Vietnam, ma potrebbe anche lasciarmi col culo per terra, da
qualche parte nella nebbia della Bassa.
Una guerra coloniale di cinquant'anni fa.
Italiani nella Legione Straniera.
Italiani nel Vietminh.
Gente che magari si era affrontata
sull'Appennino dieci anni prima e si è di nuovo sparata addosso nella giungla o
sugli altopiani.
Un ex-legionario che ha combattuto in
Indocina si spara al cuore a mezzo metro da me, in una sala corse in cui mi
trovo per caso. Se credessi ai presagi...
Cos'ho in mano? Quasi niente: dicerie,
grappoli di nomi, ricordi di ottuagenari incazzati, latitanze dell'epoca della
Guerra Fredda.
In via Irnerio incontro Meco, maggiore
responsabile del mio coinvolgimento nell'affare Moukharbel, che mi ha lasciato
in bocca un perenne retrogusto di carciofo avariato. Sembra successo venti minuti
fa, e invece sono passati mesi. Meco telefona di prima mattina, la mia faccia
coperta di schiuma da barba: stanno sgomberando case occupate nella tal via,
casini vari, ci sarebbe bisogno di un avvocato, non afferro nemmeno bene il
motivo, tra l'altro Meco ha l'accento pordenonese, si mangia un po' di parole e
gli manca la "r".
Mi chiede se si hanno notizie di Said. Non
ne so niente, non ha nemmeno scritto a Kadisha.
Aperitivo in Piazza S. Martino, un prosecco
lui, una piñacolada io: «Come fai a bere quella roba lì? Non è
mica un aperitivo, è un pasto completo!»
Parlo malvolentieri del cpt di Trapani e della Convenzione di
Schengen, recepita in Italia dalla legge "Turco-Napolitano", che per la
destra è fin troppo morbida. La novità: a Milano una mobilitazione di centri
sociali e associazioni di volontariato ha portato alla chiusura del cpt di via Corelli. L'associazione di
cui fa parte anche Meco, "Ya Basta", ha avuto un ruolo fondamentale
nell'organizzare la lotta.
La buona notizia mi rallegra, ma la testa è
altrove, persa nelle giungle del Sud-est asiatico. Fausto Ferro, il vietcong
romagnolo, il Comandante: risuona lo sparo, le urla...
...e "l'odore di cordite", direbbe
l'io narrante di un romanzo di James Ellroy, ma io non so che odore abbia la
cordite, se uno mi chiedesse a bruciapelo cos'è, risponderei "una malattia
dell'apparato respiratorio". Meco mi chiede che cazzo c'ho.
«Ma niente. E' un periodo così. Mi tornano
su le cose, tipo adesso la storia di quello che si è suicidato alla sala
scommesse il mese scorso, hai presente? Io stavo in fila, lui era dietro di me.
E' una scena che te la ricordi...»
«Ah, quello là... Era un legionario,
ho letto. Uno che era stato in Indocina... Un fascistone, uno così. Eri
là?»
«Sì, e continuano a succedere cose che mi
portano da quelle parti. Storie di italiani che erano là a combattere, o anche
per altri motivi... A proposito, ho beccato la storia di uno delle tue parti,
cioè, più o meno, era di Monfalcone, si chiamava Fausto Ferro, è arrivato in
Vietnam clandestino su una nave, gliene sono capitate di tutti i colori, alla
fine è morto in Laos negli anni Ottanta.»
«Anch'io so di un friulano, ma del pordenonese,
di Spilimbergo, uno che aveva fatto il partigiano poi s'era
arruolato nella Legione, ha disertato ed è passato con Ho Chi
Minh. E' stato in Vietnam cinque-sei anni.»
Mi ravvivo e quasi gli salto addosso: «Dove
ne hai sentito parlare? Hai del materiale? E' ancora vivo?»
«Sì, sì, è ancora vivo, l'anno scorso
ho letto una sua intervista su una rivista di storia della
Resistenza. Zecchini, si chiama.»
Un altro del Friuli Venezia Giulia. Trovare
un friulano nel Vietnam degli anni ‘50 è tanto inverosimile quanto trovarci un
emiliano o un romagnolo. Trovarcene due è da miracolo probabilistico... Ma
questo ha combattuto davvero, corrisponderebbe al pur nebuloso
"identikit" che mi ha dato Vasquez.
Possibile che il mio amico nichilista si sia
sbagliato, che si ricordi male e sia questo Zecchini l'uomo che sto cercando?
Chiedo a Meco se può risalire a quella rivista, lui dice che come no, ce l'ha a
casa, può darmela anche subito se gli do un passaggio. Ho un dejà vu, ma
è soltanto un attimo.
"Cose nostre cose di tutti",
rivista dell'Istituto Provinciale per la storia del Movimento di Liberazione e
dell'Età Contemporanea, Pordenone. Fascicolo 5, marzo 1999.
L'intervista s'intitola "Derino
Zecchini: da garibaldino in Val Tramontina a partigiano con i Viet-minh nel
Vietnam".
Ho già due storie d'Indocina, e non
c'entrano niente il partito o supposte brigate internazionali.
A guerra finita, hai 19 anni, sei stato
garibaldino e gappista. Non trovando lavoro, tu e una trentina di
partigiani vi arruolate nell'esercito, a Udine. Da lì vi mandano a Venezia e
v'impiegano nel carico, scarico e trasporto di munizioni.
1946, non ti viene riconosciuto il periodo
della guerra partigiana, ti ordinano di presentarti a Caserta per fare il CAR
come i militari di leva. Scappi, con qualche altro partigiano. Ti condannano in
contumacia per diserzione, cinque anni di carcere con la condizionale. Non ti
arrestano perché nel frattempo espatri in Francia.
Lavori come fabbro in un'impresa edile. Un
giorno vedi un bando di arruolamento della Legione Straniera. Ti attrae.
Potresti girare il mondo, almeno il mondo coloniale francese. Da tempo
fantastichi di raggiungere l'Indocina, hai sentito dire che là c'è una grossa
lotta di liberazione, e sei curioso. Dall'Italia, hai portato con te una carta
geografica di quel paese, una bussola e la tua scheda di partigiano.
Lille, 20 settembre 1947. Ti arruoli.
Marsiglia, 25 settembre, vi equipaggiano e
vi sottopongono a un mese di addestramento.
8 novembre, vi imbarcate.
10 novembre, arrivate a Sidi Bellabes,
Algeria.
Comincia il vero addestramento alle armi,
alla disciplina di reparto, alle fatiche del legionario: «Ho cominciato a
capire come il soldato veniva spersonalizzato per diventare una rotellina della
macchina bellica, un robot che doveva muoversi in sincronia con gli ordini del
comando, senza pensare, senza tentennare, senza remore. Poi in Indocina ho
constatato che non bisognava avere nemmeno un senso di pietà, di giustizia, di
umanità.»
Resti in Algeria un anno e mezzo.
8 giugno 1949, partenza per l'Indocina.
Chissà se è la stessa nave da cui è sbarcato, clandestino, il tuo corregionale
Fausto Ferro. Chissà se il "Comandante" era un tuo compagno d'armi.
14 settembre, sbarco a Saigon e
trasferimento a Jep Oa in Cocincina, Vietnam del sud.
«Mi accorsi ben presto che nelle azioni
contro i villaggi in mano ai guerriglieri, la brutalità della Legione superava
quella delle ss tedesche contro
di noi, partigiani italiani nel 1944-45. Un giorno entrammo in un villaggio
segnalato come covo di guerriglieri. Pur essendo arrivati all'improvviso, non
ne trovammo traccia. L'ufficiale comandante fece allineare tutti gli abitanti,
uomini da un lato, donne dall'altro. Li passò in rassegna e tutti coloro che a
suo giudizio avevano una faccia truce da partigiano, li fece uscire dalla fila
e disporre a gruppi di cinque-sei. Ci obbligò a infilare loro nelle mani
(bucandole) un robusto filo di ferro, uno nella destra e il vicino nella
sinistra, in modo da legarli l'uno all'altro. Scortammo questi gruppi grondanti
sangue sino al molo, dove furono fatti salire su una zattera a motore. Ultimato
il carico, il comandante ordinò al capitano della zattera di raggiungere il
largo e di scaricarli in mare.» [...] «La brutalità e il terrore ingigantivano
il morale e la ostinazione di lotta della popolazione. Ma questo poteva capirlo
solo chi aveva già fatto il partigiano.»
Interrompo la lettura per mettere un cd.
La canzone dei Massimo Volume s'intitola
"Seychelles ‘81" e parla di un tentativo di golpe nel posto più improbabile
del mondo. A detta di Leo, i mercenari tenevano le armi nascoste nelle bocche
di gigantesche cernie. E' il sottofondo ideale, una sezione ritmica che è un
torrente in piena, clangori, sbattere di pietre focaie, e la voce di Mimì,
distorta quanto basta.
I dilemmi dell'avventuriero O'Hare assediato
nella torre di controllo dell'aeroporto:
Come faremo a uscire da
questo fiume di merda puliti e profumati?
Pagheremo il conto che c'è
da pagare?
Ma io non ho speranza, io
ho fede.
Lo stesso ufficiale ordina alla tua squadra
di prendere cinque contadini di un villaggio e ucciderli a colpi di piccone. Ti
rifiuti. L'ufficiale ti minaccia: «Con te farò i conti dopo.»
Cominci a meditare la diserzione.
Qualcuno tenta di fuggire, ma bisogna avere
un piano, essere sicuri al 100%. Se la Legione ti riprende, rimpiangerai di
essere nato.
Un olandese scappa, lo riprendono. In
caserma, spogliato davanti a tutti, appeso con le mani incrociate. Un
sottufficiale lo macella vivo, gli estrae i reni con il pugnale: «Così la
Legione tratta un traditore.»
Come faremo a uscire da
questo fiume di merda puliti e profumati?
Cavalcheremo le nostre
migliori intenzioni?
Pagheremo il conto che c'è
da pagare?
21 febbraio 1951, trasferimento nel
Tonchino, Vietnam del nord. Stavolta c'è un fronte. Di là, le zone libere
partigiane. Disertare è fattibile.
27 febbraio, durante la notte attraversi le
linee insieme al romano Tichetti, con armi e bagagli. Seguite le istruzioni dei
volantini Vietminh che invitano alla diserzione, e legate una pezza bianca alla
canna del mitra.
Indosseremo un parrucchino
e un paio di baffi posticci?
Ci faremo venire a prendere
e fuggiremo dentro una macchina dai finestrini fumés?
Una donna vi accompagna in una capanna di
contadini. Dentro, quattro o cinque vietminh, in divisa partigiana.
Per appurare le vostre intenzioni,
v'infilano in buche scavate davanti alle linee francesi. Col megafono, spiegate
i motivi della vostra diserzione. Due, tre notti di fila.
Al comando Vietminh vi interrogano,
verificano le informazioni che fornite... Domande trabocchetto sugli avamposti
fortificati... Dite quello che sapete. Alla fine, il comandante vi rivela di
conoscere bene i bunker e le casematte: ha lavorato come manovale per i
francesi, ha costruito le fortificazioni. Addirittura, si ricorda di te.
Vi portano in un centro di raccolta, in
mezzo alla foresta. Disertori di varie nazionalità. Corso di aggiornamento
politico. Ovunque, consulenti militari cinesi reduci della Lunga Marcia di Mao.
L'equipaggiamento: sandali fatti con
copertoni, l'amaca, la razione di riso. 750 grammi per gli europei e 350 per i
vietnamiti. La paga giornaliera di un soldato corrisposta in natura. Nelle
foreste impari a mangiare larve di baco da seta lessate o dolci di uova di
formiche rosse cotte con riso e melassa, e a bere zeo, liquore di riso.
Ti abitui al rumore delle cicale, e a usare le torce di bambù. Quando le
sanguisughe ti si attaccano alle gambe non devi mai staccarle, potrebbe venirti
un'infezione; invece, bruciale con la sigaretta.
Le peggiori atrocità le commettono le truppe
collaborazioniste locali, come i cattolici vietnamiti irregimentati nelle
cosiddette "Rondini del cielo". Attraversi villaggi colpiti dalle loro
incursioni. Le donne, terrorizzate, si cospargono il corpo di sterco per non
essere stuprate.
Ma non vi mandano a combattere contro la
Legione, l'esercito coloniale o le Rondini: siete esempi viventi di solidarietà
internazionalista, illustrazione del fatto che non tutti i bianchi sono contro
il Vietminh. Vi impiegano per la controinformazione nei villaggi montani, tra
le minoranze etniche, Suan, Hmong, Cheo-lan, tribù bersagliate dalla propaganda
francese che promette loro l'indipendenza dal Vietnam, divide et impera.
Puoi difenderti dal beri-beri
mangiando il midollo crudo di una palma che cresce nella foresta. Ma non puoi
nulla contro la malaria. Il 14 giugno 1954, ti ricoverano in un ospedale in
territorio cinese: «Vi trovai diversi conoscenti, tutti con la mia stessa
malattia. Ricordo Leoni Beniamino, bolzanese; Leo, svizzero; Capruzzi,
pugliese; Susan, sloveno; l'amico Tichetti, romano; Zozzi Attilio, emiliano...»
Squilla il telefono, ho un soprassalto. Che
ore sono? Le dieci e un quarto. Fuori è buio pesto. Il mio "pronto" è
un rantolo.
«Daniele, ma mi tiri il pacco?»
Manuela. L'avevo invitata a cena. Tempi di
reazione dilatatissimi.
«E' successo qualcosa? Dovevi passare a
prendermi alle dieci...»
«Cazzo, scusa, Manu, sono mortificato,
mi...» ultimamente, sono a corto di pretesti. Bella roba, per un avvocato.
Perché ti interessi all'Indocina? Ehm... Uh... Boh.Perché
non sei ancora passato a prendermi? Mi rassegno alla figura di merda: «...mi
ero appisolato, scusami, sono un coglione. E' un periodo strano, te l'ho detto,
ma arrivo subito, sul serio, ci tengo! » Intanto mi guardo allo specchio del
corridoio: capelli fuori posto, non mi sono ancora cambiato, dovrei almeno
lavarmi la faccia... da culo. Ronzìo, da qualche parte nella testa e nello stomaco.
«Manu, ascolta: sono un disastro, devo
ancora rinfrescarmi da stamattina... Me la dài mezz'ora?»
Ridacchia, con la sua vocina nasale: «OK,
anzi, ho già capito come butta, passo io da te.»
Manu è la migliore praticante arrivata allo
studio di Paperoga, oltre che la più carina. In questi giorni è la pietra
angolare del mio impegno professionale: mi assento per incontrare
ex-guerriglieri acciaccati, e lei riceve i clienti, prepara le difese.
Invitarla fuori a cena mi sembrava il minimo, ma anche il minimo è oltre la mia
portata, in questi giorni.
Eau de toilette, filo interdentale, pettine e una camicia irlandese senza
collo. Mi riprendo un attimo, e finalmente penso all'effetto doppler
dell'ultima frase letta. Riprendo in mano il giornalino:
«Ricordo Leoni Beniamino, bolzanese; Leo,
svizzero; Capruzzi, pugliese; Susan, sloveno; l'amico Tichetti, romano; Zozzi
Attilio, emiliano...»
Zozzi Attilio. Sei tu. Ti ho trovato.
Ti ho trovato?
Sei proprio tu?
No, non ti ho trovato per un cazzo. E non so
chi sei. All'appello risponde troppa gente. Quanti italiani c'erano nella
guerra d'Indocina? Tutti disertori della Legione, o c'erano anche altri canali?
Mi concentro su "Zozzi Attilio".
Ultimo avvistamento: un ospedale in Cina, la bellezza di quarantasei anni fa. Come
lo trovo? Mi metto a battere le biblioteche, con un riferimento tanto vago?
Telefono a tutti i "Zozzi" degli elenchi telefonici della regione?
Non so nemmeno se il cognome è quello giusto: Zecchini non è di queste parti:
dice "emiliano" e magari intende romagnolo, come io confondo friulani
e giuliani. Quando parla un romagnolo, orecchie forestiere non sanno
distinguere tra "s" e "z". Potrebbe anche essere
"Sossi", o "Sozzi"... Che faccio, li chiamo uno per uno e
chiedo: «Scusi, sono un avvocato, vorrei sapere se un suo parente è stato nella
Legione Straniera e/o ha combattuto in Indocina contro i francesi?»
Telefonare a Vasquez.
«Pronto, sono Daniele. Come va? Più o meno
bene? Senti, volevo sapere se poi l'hai trovato, quell'articolo sul romagnolo
in Vietnam...»
«Macché, ancora no.»
«Senti, ti dice qualcosa ‘sto nome,
"Attilio Zozzi"?»
«No, non mi sembra fosse quello. Perché, è
un altro che ha combattuto in Indocina?»
Non ho tempo di raccontargli di Zecchini.
Gli dico che ci vediamo domani, e riattacco.
Ho ancora in mano il giornalino. Mentre
aspetto, finirò la storia.
Resti convalescente fino all'1 luglio 1955.
Guarito, ti mandano nel Tonchino, a Nho Giang.
Nel frattempo c'è la conferenza di Ginevra, la
divisione del paese al 17° parallelo: Vietnam del Nord, comunista, capitale
Hanoi; Vietnam del Sud, capitalista, capitale Saigon.
Settembre 1955, decidi di rimanere in
Vietnam. Lavori a sud di Hanoi, nel cantiere di Nin Binh, come operaio nel
Genio pontieri.
Dopo qualche mese ti scrivono amici dalla
Francia: c'è stato il processo per diserzione, il secondo della tua vita: sei
condannato in contumacia a 18 anni di reclusione.
Nel 1957, chiedi il visto d'ingresso a Hong
Kong, dove ci sono legazioni e consolati di quasi tutti i paesi. Insieme a te,
altri due amici italiani: Gelso, napoletano e Mia, torinese.
Sembra un villaggio-vacanze. Rinuncio a
speculare su come tutti questi italiani siano arrivati in Vietnam.
2 settembre 1957: un telegramma da Hong Kong
ti avvisa che la domanda è stata accolta.
Scrivi a casa, a Spilimbergo. Avverti i tuoi
genitori della possibilità di rientrare in Italia, ma anche delle difficoltà
economiche. Tua madre scrive al Presidente della Repubblica Gronchi chiedendo
un suo intervento. La first lady s'interessa al tuo caso, contatta la
Croce Rossa Internazionale e i consolati italiani di Saigon e Hong Kong. Quelli
promettono che ti daranno assistenza e avvisano le polizie locali.
15 novembre 1957, sbarcate a Hong Kong. La
polizia britannica vi mette in contatto col consolato italiano, che manda un
funzionario a prelevarvi.
Ci faremo venire a prendere
e fuggiremo dentro una macchina dai finestrini fumés?
Nell'albergo in cui alloggiate arrivano giornalisti
a intervistarvi: vi credono ex-prigionieri, vorrebbero sentire racconti di
torture inflitte dai comunisti. Li deludete dicendo che avete collaborato col
Vietminh nello spirito di Garibaldi, che combatté per l'indipendenza dei popoli
latino-americani.
A Hong Kong c'è anche una troupe
cinematografica italiana, guidata dal regista Carlo Lizzani, che vi invita a
cena e si fa raccontare le vostre avventure.
Il consolato italiano vi prenota e paga il
viaggio di rientro in Italia. Partite il 27 novembre con la motonave
"Victoria" del Lloyd triestino.
Siete senza un soldo, ma quando il personale
della nave sa che eravate col Vietminh fa una colletta e vi assicura il vino a
tavola e le sigarette. Al bar, vi offrono da bere per solidarietà.
Il 20 dicembre sbarcate a Genova. Il natale
del '57 lo passi in famiglia.
Che storia, di quelle che ti lasciano
elettrizzato per diverse ore dopo averle lette, e influenzano l'umore del
giorno dopo. Certo, sono in un vicolo cieco. Non credo che
l'"indagine" possa proseguire di molto. Ma forse non è così
importante. Il bizzarro inseguimento di un fantasma mi ha fatto scoprire una
galleria di vicende e personaggi che sembrano sbucati fuori da romanzi
d'avventura. Scavando dentro le pieghe della storia ho trovato uomini come
Fausto Ferro, Derino Zecchini, Vittorio Caffeo... mio nonno, Teo e il
comandante Bob.
E come per tutte le storie avvincenti, ora
voglio saperne di più.
Una cosa è certa: sono più motivato e più
incazzato di quando ho iniziato la ricerca, con una consapevolezza che piano
piano si fa largo dentro di me.
Le storie sono asce di guerra da
disseppellire.
Quando Manu sale per strapparmi alle
fantasticherie, sono al computer e sto visitando un sito della Legione
Straniera, <http://www.info-france.org/fr/missions/ambass/legion/legion.htm>:
Ciascun legionario è tuo
fratello d'armi, qualunque sia la sua nazionalità, la sua razza, la sua
religione. Tu gli manifesterai sempre la stretta solidarietà che deve unire i
membri di una stessa famiglia.
In combattimento, tu agisci
senza passione né odio, rispetti i nemici che hai vinto, non abbandoni mai i
tuoi morti, né i feriti, né le armi.
«Ma che hai, sembri rincretinito!? Prendiamo
la tua macchina, però guido io, non si sa mai.»
A cena (ristorante eritreo) non posso
trattenermi dal raccontarle di Ferro e Zecchini. Parlo e al contempo temo di
annoiarla, ma non cerca di cambiare argomento, non guarda mai da un'altra
parte, anzi mi chiede più dettagli, delucidazioni, vuole il "riassunto
delle puntate precedenti": l'amnistia ai fascisti, l'epurazione e la
persecuzione dei partigiani...
Sono passato dall'afasia alla logorrea. A
fine serata, mi sembra di aver parlato troppo, mi fa un po' male la mandibola,
e forse sono stato troppo serioso. Ma, evidentemente, la pietra angolare del
mio impegno professionale non la pensa così, perché quando ci fermiamo sotto
casa sua mi guarda sorridendo e mi fa:
«Allora, sali da solo o devo spingerti su
per le scale in punta di baionetta?»
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