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Vitaliano Ravagli -Wu Ming
Asce di guerra

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    • 36 Sentieri dell'odio (Lavorare e chiavare)
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36

Sentieri dell'odio

(Lavorare e chiavare)

 

 

Nel ‘52, durante la cena che offriva ogni anno ai "discepoli", Pippo Sangiorgi annunciò di dover chiudere l'azienda. La vecchiaia lo aveva indebolito, e il figlio Sergio non voleva seguire le sue orme. Fu un momento di grande commozione, perché non solo salutava i suoi migliori artigiani, ma abbandonava una tradizione ebanistica di cui era stato maestro indiscusso. In tutta Imola non c'era un laboratorio come il suo. Le necessità della ricostruzione avevano fatto crescere le richieste, ma si trattava sempre di lavori all'ingrosso, e per lavorare nelle aziende bastava ripetere sulla macchina gli stessi quattro o cinque movimenti. Il settore, comunque, era florido e il signor Pippo si era dato da fare per trovare un lavoro a tutti e aiutare col denaro chi voleva mettersi in proprio.

Rivolgendosi a me, con gli occhi lucidi disse: «E te, babì, at mét dai fré róss perché ‘tcé comunésta, aj'ò scórs cun Leonida, e diretór, c'ut cgnós e l'è feliz t'vàga in cuperativa.» [E te, bambino, ti metto dai Frati Rossi, perché sei comunista. Ho parlato con Leonida, il direttore, che ti conosce bene ed è felice che tu vada in cooperativa].

Lo ringraziai molto, e insieme a me tutti gli altri, commossi, perché il destino ci allontanava da quell'uomo severo, che avevamo amato per la sua generosità. Non credo che in tutta Imola ci fosse una persona come lui.

La cooperativa dei Fré Róss veniva chiamata in quel modo perché agli inizi del ‘900 la sua prima sede era stata in un convento di frati. I primi mesi di lavoro passarono piuttosto sereni. Mi ero inserito in fretta, grazie anche alla simpatia del direttore, che mi aveva presentato come uno dei migliori artigiani di Sangiorgi. Inoltre, ero felice di sentirmi tra gente che consideravo amica, perché ci univa la stessa fede politica. In un'epoca di forti contrasti, la cosa non poteva che farmi piacere. Ero convinto che avrei respirato aria di socialismo, immergendomi a capo fitto in un lavoro che amavo e ottenendo col tempo un posto di responsabilità. In realtà, anche in quell'ambiente, nato dalla solidarietà dei lavoratori, gli ultimi arrivati subivano la prepotenza dei più anziani.

Le mie relazioni sociali si guastarono in breve tempo.

In particolare, non sopportavo come trattavano Sgubbi Rolando, un vecchio antifascista che aveva vissuto al confino ed era incapace di tacere sulle ingiustizie. Veniva deriso e trattato a pesci in faccia, soprattutto perché era malato e non riusciva più a imporsi come un tempo. Era così depresso e avvilito che spesso scoppiava a piangere, e gli altri approfittavano ancora di più della sua debolezza.

All'ennesimo sgarbo, persi la pazienza e mi precipitai in ufficio: «Dite un po', cosa c'ha Rolando, che piange sempre?»

«Ah, non so io, si vede che ha dei problemi…»

«Ah sì? Sei sicuro che non li avete voi altri, i problemi

E dicendo quello gli piantai la pistola in faccia, e lo minacciai di usarla se da quel momento in poi Rolando si fosse preso anche solo un raffreddore per causa loro.

Da allora non lo lasciai mai solo, andavamo sempre a casa assieme e lui si sentiva più tranquillo. Un giorno mi prese da parte, con uno strano ghigno in faccia, e mi condusse nella soffitta dello stabile. Voleva mostrarmi un reperto d'eccezione. Una foto, scattata sotto il Municipio nel '36, ritraeva i dirigenti della cooperativa tutti impettiti, con fez e camicia nera, in occasione della visita di Mussolini a Imola. Scoppiammo a ridere come non ci capitava da tempo.

La prepotenza, in ogni caso, non era il solo problema di quella cooperativa. Il contratto dei lavoratori avventizi e le loro condizioni lavorative era un altro degli insulti alle idee socialiste che non potevo accettare. Venivano assunti con uno stipendio ridicolo, quando c'era abbondanza di lavoro, e licenziati nel giro di pochi giorni senza il minimo preavviso, quando le commesse diminuivano. Per protesta inventai un nuovo tipo di sciopero: il rifiuto del tradizionale panettone di Natale. Fu un successo: i pacchi vennero mandati indietro e ciascuno dichiarò di volere soltanto ciò che gli spettava.

A quella piccola vittoria, purtroppo, non ne seguirono altre, perché con ricatti e promesse i dirigenti riuscirono a mettermi contro tutti quanti. Decisi allora di ricorrere alle vie "istituzionali", informando il partito di quello che succedeva ai Fré Ross. Mi consigliarono di parlarne con Ezio Serantoni "Mezanòt", che era stato uno degli organizzatori della resistenza imolese e aveva passato quasi tutto il ventennio in carcere o al confino. Gli raccontai ogni cosa nei minimi dettagli e lui promise che sarebbe venuto a dare un'occhiata, per vedere cosa si poteva fare.

Mantenne la parola, e pochi giorni dopo ci trovammo faccia a faccia coi dirigenti della cooperativa. Fu una riunione patetica. Alla fine, Mezanòt mi chiese di accompagnarlo in sezione, e quando fummo da soli, mi spiegò con rammarico come la pensava:

«Vedi Vitaliano, forse noialtri abbiamo sofferto per nulla, tanto quel cretino di Mussolini, con le sue manie di grandezza, sarebbe caduto lo stesso. Noi lo sapevamo, ma pensavamo che bisognasse mantenere accesa la fiamma della disobbedienza al fascismo, anche a costo di rovinarci la vita. Adesso siamo poveri, lo sai bene, abbiamo tutti contro. Questi delle cooperative ci danno una mano, in qualche modo, ma solo in cambio di qualcos'altro: ignorare o sopportare le cose che tu hai messo a nudo. Non te lo perdoneranno mai. So che è una vergogna, ma bisogna turarsi il naso e sciacquare in casa i panni sporchi, anche se i nostri ragazzi morti si rivolteranno nella tomba…»

Terminò il monologo con gli occhi gonfi di pianto. Lo abbracciai e gli risposi che non avrei proseguito con le denunce, ma di a poco avrei chiesto il licenziamento.

A Imola i Fré Róss non erano un caso isolato. Il settore della ceramica era anche peggio. I dividendi dei soci erano così alti che molti avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di raggiungere quella posizione. Per essere assunti ci volevano le raccomandazioni e le regole per i nuovi arrivati non puntavano certo alla tutela dei lavoratori. Mia sorella Natalia, che era già tibicì, venne messa  ai forni. Un dirigente le fece capire che per farsi trasferire, doveva essere "carina" con lui. Lei lo mandò a cagare e non gli rivolse più la parola, ma di certo non tutte le operaie furono così decise.

Insomma, anche "i buoni" erano uguali agli altri. Appena stavano un po' meglio, cambiavano abitudini e convinzioni. Non la pensavano più come prima, lasciavano volentieri le lotte operaie ai poveracci e i problemi sociali diventavano l'ultima delle preoccupazioni. Finivano per temere loro stessi i cambiamenti che avevano sostenuto, perché adesso rischiavano di perderci qualcosa.

Questo succedeva un po' dappertutto, nelle cooperative come al mitico Bar Nicola. Fino agli anni Cinquanta eravamo un bel gruppo, tutti convinti, tutti comunisti. Poi arrivarono le prime lambrette, le prime gilera, i guzzini... Nel giro di quattro cinque anni anche le prime Seicento. Allora molti si scordarono del bar, perché col motore sotto al culo potevano andare più lontano, a spassarsela. Poi a parlare erano sempre bravi, veri rivoluzionari, tutti reduci di Ca' di Guzzo, e nelle manifestazioni di piazza non mancavano mai, ma il principale problema era dove andare a mangiare dopo.

Il risultato della mia insofferenza fu uno stipendio minimo, una qualifica bloccata al livello più basso e la domanda per diventare socio respinta con puntualità un anno dopo l'altro. Mi passarono davanti anche gli ultimi arrivati. Non mi ero piegato e mi punirono.

 

 

In quegli anni, lavoravo come un matto per mantenere i miei. Mio padre si ammazzava di lavoro, alla Cogne, ma non aveva il coraggio di chiedere niente a nessuno e anche se finiva per non mangiare, pur di darne a noi, avevamo fame. Io facevo dieci ore in cooperativa, sabato compreso, e la sera a lucidare comò. Dormivo tre ore per notte e mi restava ben poco tempo per vivere.

I miei amici, quando c'era bisogno, sparivano sempre. Erano solo dei pugnettari, amici da bar e basta: io l'amicizia gliel'avevo data, loro no. Era gente che se gli mettevi un dito in culo, quando lo cagavano si erano tenuti l'unghia.

L'attività politica, invece, si risolveva nell'andare ai cortei a prendere le bastonate. Sempre gli stessi. Tutti i giorni c'era l'occasione.

Il mio unico passatempo era chiavare, nient'altro mi dava lo stesso piacere e mi distraeva dalle disgrazie. In più, la Marisona mi dava sempre da mangiare, mi allungava qualche soldo di quando in quando, e anche ottimi consigli: «Devi concentrarti sulle più belle» mi diceva «perché alla fine tutti le vogliono ma nessuno ci prova. Non vedi a ballare, come succede? Le cagnone sono sempre in pista, le belle restano sedute. Gli uomini hanno paura di non essere all'altezza e di venir rifiutati, ma io ti assicuro che se riesci a sfondare con una, con tutto quello che ti ho insegnato, quella non potrà più farne a meno, spargerà la voce, e siccome le belle ragazze stanno in gruppo tra loro, saranno tutte ai tuoi piedi

La profezia si avverò nel giro di poco tempo e contribuì a isolarmi ancora di più: gli invidiosi e i cornuti crescevano insieme alla mia fama di "grande amatore". Dopo qualche mese, non c'era nemmeno più bisogno di cercare: le ragazzine mi presentavano le amiche, le signore bene mi raccomandavano alle vicine, le donne più anziane lodavano le mie doti di attore. Sì, perché almeno un paio di loro pretendevano che declamassi D'Annunzio o Shakespeare, mentre le chiavavo. Quando erano per venire, si lasciavano prendere dalla poesia del momento e mi rivolgevano frasi auliche: «Ecco, Vitaliano, sento avvicinarsi l'estasi erotica evocata dalla passione dei nostri corpi…». Poi, non appena la cosa si faceva più travolgente, passavano a un registro del tutto diverso: «Dai, babì, pompa, pompa, dio boia, dài…». Fu così che mi feci una certa cultura, imparando a memoria lunghi brani dei classici, dall'Iliade al Macbeth, dall'Odissea a Enrico V. Mi feci anche due braccia così, perché quelle signore pretendevano di vedermi bene in faccia, mentre recitavo, e per questo mi facevano stare su dritto, impettito, per tutto il tempo. E avrei messo da parte anche una discreta fortuna, se avessi pensato di farmi pagare per quelle prestazioni. Ma, come al solito, ero un ragazzo molto generoso e la cosa non mi passò nemmeno per la testa.

Poi feci l'errore d'innamorarmi. Era una delle prime che avevo puntato, bellissima e senza un cazzo nella testa. Non capiva niente, ma tra lei e Liz Taylor, non avrei avuto dubbi. Mi piaceva fin da quando eravamo ragazzini, ma appena le chiesi di fidanzarci disse che non se la sentiva, che sua madre non voleva, che al massimo potevamo continuare a vederci come quella mattina, che avevamo chiavato, ma niente di più. Fu un brutto colpo.

Mi resi conto che anche un'occupazione così piacevole aveva il rovescio della medaglia. Gli uomini mi disprezzavano, le donne mi usavano. Tenevo ritmi da catena di montaggio, e anche il pistolino ne risentiva, tanto che dovevo darci la Leocrema e in alcuni casi era più il dolore che il piacere. Non avevo una vita vera, non un momento per fare quel che tutti facevano. Gli altri giocavano a pallone, a carte, guardavano il calcio in televisione: io intanto lavoravo o mi chiavavo le loro donne. In certi momenti mi facevo schifo da solo, pensavo di essermi venduto, di aver perso interesse per qualsiasi cosa che non fosse la figa. Tutto quel darsi da fare mi appariva senza senso, solo un modo per stordirmi e non pensare ai guai.





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