37
Mentre riaccendo il registratore, Sole cerca
un punto da cui partire e attacca:
«Io credo che il trasferimento a Imola
della Brigata Nera fu un'azione concordata coi "liberatori", tramite il
commissario di Pubblica Sicurezza. Qualcosa che gli Alleati concessero al cln e ai partigiani, dopo che li
avevano fatti tanto patire.
La Guerra Fredda è cominciata ben prima
della fine del conflitto mondiale. Per gli americani il fronte italiano avrebbe
dovuto essere solo un diversivo, per tenere impegnate quante più truppe
tedesche era possibile. Lo sbarco sul continente era già previsto in Francia.
Churchill invece aveva paura che i comunisti si accaparrassero tutta l'Europa
orientale e balcanica e premeva per l'avanzata sul fronte meridionale, perché
voleva arrivare a Trieste e a Vienna prima degli jugoslavi e dell'Armata Rossa.
Questa differenza di vedute creò molti fraintendimenti, che si giocarono tutti
sulla pelle dei partigiani e della popolazione. Nell'autunno del '44 gli
Alleati fermano il fronte sull'Appennino e decidono di svernare lì e riprendere
l'avanzata in primavera. E questo dopo che le organizzazioni partigiane in
montagna e in pianura avevano speso energie, rischiato moltissimo, ed erano
pronte a entrare in azione per liberare la regione. Si ritrovarono senza
l'appoggio degli Alleati, ormai fermi, a dover superare un inverno di
rappresaglie, delazioni, sequestri. [Conta
sulle dita] Poi c'era il fatto che alle Brigate Garibaldi non vennero fatti
lanci di armi e munizioni, perché erano brigate comuniste. La Trentaseiesima in
particolare non era vista di buon occhio dagli anglo-americani e le armi che
riuscì a recuperare dai lanci erano destinate ad altre brigate. Non a caso,
nell'aprile del '45, il Comando alleato impedì a un reparto della
Trentaseiesima di scendere a liberare Imola. Nei loro piani Imola doveva essere
liberata dai polacchi, che avendo avuto il loro paese invaso per metà da
Stalin, odiavano i comunisti. Erano scelte politiche che prefiguravano la
Guerra Fredda. [sospira e indica le foto] Ma quando tirarono fuori i
corpi di quei sedici antifascisti e videro in che condizioni erano ridotti,
capirono che bisognava concedere qualcosa. La gente si vendicò di quello che
aveva dovuto subire sotto i fascisti. Di sedici brigatisti neri se ne salvarono
quattro, per l'intervento della scorta.»
«E quali sarebbero i punti oscuri?»
«[alza le spalle] Ci arrivi anche da solo
se ci pensi. Perché le fotografie del pozzo di Becca furono appese sulla
pubblica piazza? Perché quando il camion che trasportava la Brigata Nera arrivò
in città non c'era polizia militare in giro? Dov'erano i polacchi? Dov'erano i
carabinieri? E la polizia? E poi: era una pura coincidenza che su quel camion
ci fossero proprio sedici brigatisti neri, tanti quanti gli antifascisti
trucidati nel Pozzo di Becca? E il guasto al motore, che impedì al camion di
arrivare a Imola di notte, come era previsto, per non creare scompiglio? [scuote
la testa] Credo si fece in modo di farlo arrivare in città la mattina, e gli
Alleati, che pure controllavano tutto, fecero finta di non sapere.»
«Mirco mi ha detto che i partigiani di
scorta cercarono di tenere a bada la folla.»
«Certo. Non è mica detto che pensassero
di scatenare un linciaggio. Forse volevano solo far sfilare gli assassini
davanti alla popolazione che avevano vessato per anni. Ma la situazione gli è
sfuggita di mano. Della scorta sembra facesse parte anche Bob e nemmeno la sua
autorità bastò ad arginare la furia della gente che aveva avuto vittime. In
quegli stessi giorni, si è poi saputo, alcuni familiari di quei brigatisti
furono prelevati nel paese in cui s'erano rifugiati, in Veneto, e ritrovati
morti in un campo. Insomma era un clima esasperato, di vendetta. Ravaioli e la
sua squadra di sadici ne avevano fatte di brutte: torture, stupri, omicidi.
Agli antifascisti, prima di gettarli nel Pozzo di Becca, avevano bruciato i
testicoli, strappato le unghie…»
«E le vendette continuarono anche dopo la
fine della guerra?»
«Eh, questa è una storia su cui è
difficile sapere qualcosa di preciso. Nei giorni successivi alla Liberazione,
ci furono vendette nell'Imolese, ma anche delitti comuni. Il comandante alleato
della piazza di Imola dichiarò di essere a conoscenza di almeno 25 casi
accertati, più altrettanti probabili. Il clima era quello: le armi non
mancavano e nemmeno i conti da regolare. Ma non credere a tutte le polemiche
che hanno fatto su queste cose. Chi ha compiuto quelle azioni lo ha fatto di
sua iniziativa, non certo con l'appoggio del PCI, che fin da subito aveva
adottato una linea del tutto diversa. Certo, ci sono stati casi isolati di
piccole formazioni organizzate in questo senso, come la Volante Rossa a Milano,
o come qui da noi, dove un gruppetto di ex-partigiani occupò Savigno,
disarmando i carabinieri e svaligiando la banca del paese. Ci furono anche
omicidi nella zona di Conselice. Ma non era certo in quel modo che il partito
pensava di cambiare le cose.»
«Eppure l'amnistia di Togliatti deluse molta
gente…»
«Ah certo. Quasi tutti i fascisti vennero
fuori di galera!»
Circoscrivo l'argomento: «Probabilmente
furono parecchi quelli che non riuscirono ad adattarsi al nuovo stato di cose…
So che Teo e alcuni altri dovettero andare in Cecoslovacchia. Tu lo conoscevi?»
«[Annuisce] Solo di fama. Era
"l'eroe di Ca' di Guzzo", una famosa battaglia partigiana.
Resistettero in una cinquantina, assediati dentro la casa per due giorni,
circondati da cinquecento tedeschi. E Teo dal tetto tenne a bada le ss con un mitragliatore. Poi organizzò
la sortita che portò in salvo i pochi superstiti.»
«Quale ha detto che era il suo vero nome?»
«Orlando Rampolli. Ma nessuno l'ha mai
chiamato così.»
Con un cenno mi invita a seguirlo in
biblioteca. Spengo il registratore.
Fruga tra i volumi e alla fine trova quello
che stava cercando: una raccolta di testimonianze dalla viva voce dei
protagonisti della Resistenza bolognese.
C'è anche quella di Orlando Rampolli
"Teo", concessa nel ‘66.
Racconta che dopo la fuga dall'
"Albergo" di Cortecchio, incalzati dai fascisti, i partigiani si
sparpagliarono e lui si rifugiò presso un contadino che lo ospitò e lo rifornì
di munizioni. Poi, quando la neve si sciolse intraprese un'indagine privata:
«…così armato cominciai a girare per la zona
di monte Faggiola, alla caccia della spia che aveva guidato i fascisti nel
rastrellamento contro il nostro primo gruppo dell'Albergo.»
Quello che colpisce di più è il drastico
giudizio sulla battaglia di Ca' di Guzzo, di cui fu il protagonista principale.
Non si dilunga a raccontare i particolari dello scontro e non c'è traccia di
autocelebrazione, anzi. Teo non ha parole edificanti per l'iniziativa di
"Guerrino", il comandante della compagnia, che si assentò per andare
a cercare rinforzi, privando così i partigiani del suo ascendente personale.
«L'idea di Guerrino poteva essere giusta, ma l'esito non dipendeva dalla sua
volontà». Alle forze partigiane circostanti dedica una chiosa sprezzante:
quelli della 62a Brigata,
malgrado gli accordi, sui quali evidentemente Guerrino contava per un'azione
dall'esterno, pensarono ai fatti loro e ci abbandonarono al nostro destino.
La conclusione di Teo sull'episodio che lo
ha consacrato agli annali della Resistenza, è tutt'altro che conciliante:
La tragedia di Ca' di Guzzo
per me non è solo negli indimenticabili atti di eroismo, nel coraggio e nello
spirito di sacrificio di tanti giovani che hanno saputo dimostrare cosa sono i
partigiani, ma anche negli errori compiuti che hanno fatto di Ca' di Guzzo un
grande monumento del sacrificio, mentre avrebbe potuto essere uno dei più
importanti campi di vittoria della Resistenza.
«E' una testimonianza abbastanza polemica»
dico, dopo aver richiuso il volume e pigiato sui tasti play e rec:
«Teo era un tipo che non la mandava a
dire, un irrequieto. Era insofferente verso la disciplina imposta dall'alto e
consapevole di esserlo, tanto che non entrò nemmeno nel partito dopo la guerra.
Rimase per i fatti suoi. Questo non toglie che sia stato un partigiano in
gamba. E quello che ha fatto a Ca' di Guzzo lo dimostra. Anche Bob a modo suo
era un tipo così. Uno che non riuscì a trovare il suo posto dopo la fine della
guerra… e poi era già malato gravemente.»
«Teo e Bob erano amici?»
«Sì, anche se quello che è rimasto vicino
a Bob fino alla fine è stato ‘e Fatór', Orfeo Sabattani, che era molto
amico anche di Teo. [Prende dagli scaffali un opuscolo e me lo porge] Questo
è l'epitaffio che recitarono sulla tomba di Bob, quando è morto. Aveva appena
trentaquattro anni, sì, era il 1954.»
Le foto del funerale: la bara portata giù
dalle scale del palazzo comunale, i partigiani coi fazzoletti rossi o tricolori
al collo e la gente dietro a seguire il feretro.
Tutti hanno lo sguardo contrito e basso.
L'unico che guarda in macchina regge la cassa sulla spalla sinistra, in un
doppiopetto grigio, stazzonato. Lo sguardo fisso, di ghiaccio.
«Chi è?»
«Questo è Teo.»
Avrei potuto scommetterci. Un bell'uomo,
capelli neri pettinati all'indietro con la brillantina, la faccia lunga che non
tradisce emozioni.
«E quello lì è e Fatór.»
Un ragazzo basso, ma con la faccia da uomo,
regge la bara da dietro.
«Teo invece quando è morto?»
«Nel '67 mi pare. Si sparò un colpo al
cuore, perché aveva scoperto di avere un cancro. E siccome aveva visto la fine che
aveva fatto il Moro, che era morto della stessa malattia tra mille dolori,
preferì farla finita a modo suo. Tornò a casa dall'ospedale, e dopo aver
scritto una lettera alla moglie si distese sul letto e si sparò.»
Un finale in tono col personaggio.
«Qualche anno fa gli hanno conferito
anche un riconoscimento al valore militare per l'impresa di Ca' di Guzzo.
[fruga dentro alcune cartelle colorate e scova una rivista] Questo è il
settimanale di Imola, Sabato Sera. Mi ricordo che fecero un articolo… [sfoglia
un paio di numeri e alla fine lo trova] Eccolo!»
Croce al valor militare per il partigiano
Rampolli
Decorato per la
battaglia di Ca' di Guzzo
L'articolo informa che il 4 novembre 1997,
presso la Caserma Mameli di Bologna, si è tenuta una cerimonia durante la quale
è stata conferita la croce militare postuma a Teo.
«Beh, considerato che è passato alla storia
come l'eroe di Ca' di Guzzo ce ne hanno messo di tempo per dargli questa
medaglia!»
Sole alza le spalle con l'aria sconsolata.
Forse lo pensiamo entrambi, che il motivo di tanto ritardo è legato ai guai del
dopo-Liberazione e all'espatrio in Cecoslovacchia. Ma se l'idea che mi sono
fatto è giusta, a Teo di una medaglia non gliene sarebbe importato granché: la
testimonianza che ha lasciato sulla sua esperienza partigiana non è quella di
chi fa sconti a se stesso o agli altri o di chi aspira agli encomi.
Una domanda a bruciapelo: «Bob e Teo hanno
avuto figli?»
«No. Nessuno dei due. Teo però si
era sposato.»
Mi chiedo se avrà mai trovato i traditori
che cercava in quei mesi, da solo, sui monti.
Spero di sì.
|