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Vitaliano Ravagli -Wu Ming
Asce di guerra

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  • PRIMA PARTE
    • 38 Sentieri dell'odio (La causa giusta)
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38

Sentieri dell'odio

(La causa giusta)

 

 

Quando mia madre tornò dal sanatorio la famiglia era sull'orlo del collasso. Per fortuna, era una donna piena d'iniziativa, nonostante fosse guarita da poco. Andò subito da "Piruleina", il macellaio, e si mise d'accordo per farsi dare a credito del cascame e le ossa da fare il brodo. Fu così che salvò gli altri miei fratelli dalla denutrizione che aggravava sempre più la malattia. Sono convinto che se avesse tardato un anno di più, per quelli di noi che erano tibicì non ci sarebbe stato scampo.

In quello stesso periodo, accadevano molte cose significative, in Italia e nel mondo: morirono Stalin, De Gasperi e il comandante Bob, Scelba divenne primo ministro, ci furono i disordini per la "legge truffa", l'America cominciò gli esperimenti atomici, la Cogne licenziò 153 dipendenti comunisti, e il Vietnam conquistò l'indipendenza con la battaglia di Dien Bien Phu

Quell'ultimo avvenimento mi fece molta impressione. Di a un anno, con la maggiore età, sarei dovuto partire per la leva. La divisa dell'esercito italiano non mi attirava per niente, ma sarei stato orgoglioso di combattere per la liberazione di qualche popolo oppresso. Avrei tanto voluto capire cosa si provava a sparare in faccia a un fascista, a viso aperto. Ero cresciuto con il mito della lotta partigiana e avrei dato chissà che per battermi anche io e provare quelle sensazioni.

 L'idea del militare mi disgustava, ero sicuro che avrei subito ancor più soprusi di quanti non ne avessi già sopportati. L'insofferenza per gli ordini e la disciplina, insieme ai precedenti sovversivi, mi avrebbero creato un sacco di problemi durante la naja.

Cosa c'era di buono in quella vita? Non avevo amici. Per quanto continuassi a darmi un gran da fare con l'uccello, ero reduce da una delusione amorosa. Sul lavoro avevo zero prospettive e col ritorno di mia madre la famiglia poteva sopravvivere anche senza il mio stipendio. Quest'ultimo argomento era decisivo: se non fossi stato determinante per il sostentamento dei miei, non ci avrei pensato due volte a lasciare Imola e l'Italia. Non avevo niente da perdere, solo una gran voglia di sfogarmi e ammazzare fascisti.

Dopo quasi dieci anni di lotte, l'Italia sembrava condannata a non cambiare mai. Non c'erano riusciti l'antifascismo, la sconfitta nella guerra, la lotta partigiana, l'occupazione delle fabbriche, l'attentato a TogliattiCos'altro ci voleva? Forse non aveva nemmeno senso chiederselo. Questo paese non meritava tanta sofferenza, tanto spreco di energie. Per molti anni avevo sperato in un futuro diverso. Ero convinto che i fascisti riverniciati avrebbero tirato troppo la corda, che un giorno anche gli incerti si sarebbero decisi e avremmo cambiato le sorti dell'Italia. Invece, il numero dei più battaglieri si era ridotto, rafforzando i miei dubbi e soffocando del tutto quel po' di iniziativa che mi era rimasto. Molti di quelli che aspiravano a una società più giusta pensavano di costruirla con il confronto democratico e il voto. Ma la democrazia mi sembrava un ideale troppo lontano per un paese dove la lotta politica si faceva a suon di scomuniche, manganellate, "comunisti che mangiano i bambini" e calunnie sulla Resistenza.

E mentre noi ci ostinavamo a rianimare un cadavere, nel resto del mondo nazioni ben più vitali prendevano in mano il proprio destino e combattevano, per scrollarsi di dosso decenni di oppressione.

Anche Teo rimase affascinato dalla vicenda indocinese. Disse che quelli come me, i giovani con del fegato, avrebbero dovuto fare esperienza nelle guerriglie coloniali per poi tornare in Italia e mettere in pratica quello che avevano imparato, sistemare le cose e fare giustizia. Una sorta di addestramento rivoluzionario.

Non afferrai subito il concetto, e pensai che il mio amico stesse sognando ad occhi aperti.

Invece faceva sul serio.

«Io stesso partirei » disse quel giorno con grande sincerità «ma ho già abbastanza nemici qui per non aver bisogno di cercarli da un'altra parte. Però conosco il modo per arrivare fin . Dovresti farci un pensiero, perché se resti qui, finisce che ti metti nei guai. Te devi ammazzare dei fascisti, se no scoppi. E allora devi andare dove c'è ancora da sparare…»

Non era il tipo da scherzare su certi argomenti.

Nei giorni successivi tornai all'attacco più volte, per chiedere nuovi dettagli e informarmi meglio sulle possibilità di quel viaggio. La proposta mi aveva folgorato. Lasciare l'Italia alle sue meschinità, rischiare la vita per una causa giusta come avevano fatto Bob, Teo e Pucci, sfogare tutto l'odio che mi era cresciuto dentro in quegli anni.

 

Qualche settimana dopo annunciai al mio datore di lavoro che presto me ne sarei andato e che cercasse qualcuno per sostituirmi.

Cercò di capire meglio le mie intenzioni ma non riuscì a cavarmi nulla. Dissi soltanto che di a poco aspettavo la cartolina dei militari, e in capo a due mesi sarei dovuto partire.

Non c'era tempo da perdere.

 





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