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(La causa giusta)
Quando mia madre tornò dal sanatorio la
famiglia era sull'orlo del collasso. Per fortuna, era una donna piena
d'iniziativa, nonostante fosse guarita da poco. Andò subito da
"Piruleina", il macellaio, e si mise d'accordo per farsi dare a
credito del cascame e le ossa da fare il brodo. Fu così che salvò gli altri
miei fratelli dalla denutrizione che aggravava sempre più la malattia. Sono
convinto che se avesse tardato un anno di più, per quelli di noi che erano
tibicì non ci sarebbe stato scampo.
In quello stesso periodo, accadevano molte
cose significative, in Italia e nel mondo: morirono Stalin, De Gasperi e il comandante
Bob, Scelba divenne primo ministro, ci furono i disordini per la "legge
truffa", l'America cominciò gli esperimenti atomici, la Cogne licenziò 153
dipendenti comunisti, e il Vietnam conquistò l'indipendenza con la battaglia di
Dien Bien Phu.
Quell'ultimo avvenimento mi fece molta
impressione. Di lì a un anno, con la maggiore età, sarei dovuto partire per la
leva. La divisa dell'esercito italiano non mi attirava per niente, ma sarei
stato orgoglioso di combattere per la liberazione di qualche popolo oppresso.
Avrei tanto voluto capire cosa si provava a sparare in faccia a un fascista, a
viso aperto. Ero cresciuto con il mito della lotta partigiana e avrei
dato chissà che per battermi anche io e provare quelle sensazioni.
L'idea del militare mi disgustava, ero
sicuro che avrei subito ancor più soprusi di quanti non ne avessi già
sopportati. L'insofferenza per gli ordini e la disciplina, insieme ai
precedenti sovversivi, mi avrebbero creato un sacco di problemi durante la
naja.
Cosa c'era di buono in quella vita? Non
avevo amici. Per quanto continuassi a darmi un gran da fare con l'uccello, ero
reduce da una delusione amorosa. Sul lavoro avevo zero prospettive e col
ritorno di mia madre la famiglia poteva sopravvivere anche senza il mio
stipendio. Quest'ultimo argomento era decisivo: se non fossi stato
determinante per il sostentamento dei miei, non ci avrei pensato due volte a
lasciare Imola e l'Italia. Non avevo niente da perdere, solo una gran voglia di
sfogarmi e ammazzare fascisti.
Dopo quasi dieci anni di lotte, l'Italia
sembrava condannata a non cambiare mai. Non c'erano riusciti l'antifascismo, la
sconfitta nella guerra, la lotta partigiana, l'occupazione delle fabbriche,
l'attentato a Togliatti…Cos'altro ci voleva? Forse non aveva nemmeno senso
chiederselo. Questo paese non meritava tanta sofferenza, tanto spreco di
energie. Per molti anni avevo sperato in un futuro diverso. Ero convinto che i
fascisti riverniciati avrebbero tirato troppo la corda, che un giorno anche gli
incerti si sarebbero decisi e avremmo cambiato le sorti dell'Italia. Invece, il
numero dei più battaglieri si era ridotto, rafforzando i miei dubbi e
soffocando del tutto quel po' di iniziativa che mi era rimasto. Molti di quelli
che aspiravano a una società più giusta pensavano di costruirla con il
confronto democratico e il voto. Ma la democrazia mi sembrava un ideale troppo
lontano per un paese dove la lotta politica si faceva a suon di scomuniche,
manganellate, "comunisti che mangiano i bambini" e calunnie sulla
Resistenza.
E mentre noi ci ostinavamo a rianimare un
cadavere, nel resto del mondo nazioni ben più vitali prendevano in mano
il proprio destino e combattevano, per scrollarsi di dosso decenni di
oppressione.
Anche Teo rimase affascinato dalla vicenda indocinese.
Disse che quelli come me, i giovani con del fegato, avrebbero dovuto
fare esperienza nelle guerriglie coloniali per poi tornare in Italia e mettere
in pratica quello che avevano imparato, sistemare le cose e fare giustizia. Una
sorta di addestramento rivoluzionario.
Non afferrai subito il concetto, e pensai
che il mio amico stesse sognando ad occhi aperti.
Invece faceva sul serio.
«Io stesso partirei » disse quel giorno con
grande sincerità «ma ho già abbastanza nemici qui per non aver bisogno di
cercarli da un'altra parte. Però conosco il modo per arrivare fin là. Dovresti
farci un pensiero, perché se resti qui, finisce che ti metti nei guai. Te devi
ammazzare dei fascisti, se no scoppi. E allora devi andare dove c'è ancora da
sparare…»
Non era il tipo da scherzare su certi
argomenti.
Nei giorni successivi tornai all'attacco più
volte, per chiedere nuovi dettagli e informarmi meglio sulle possibilità
di quel viaggio. La proposta mi aveva folgorato. Lasciare l'Italia alle sue
meschinità, rischiare la vita per una causa giusta come avevano fatto Bob, Teo
e Pucci, sfogare tutto l'odio che mi era cresciuto dentro in quegli
anni.
Qualche settimana dopo annunciai al mio
datore di lavoro che presto me ne sarei andato e che cercasse qualcuno per
sostituirmi.
Cercò di capire meglio le mie intenzioni ma
non riuscì a cavarmi nulla. Dissi soltanto che di lì a poco aspettavo la
cartolina dei militari, e in capo a due mesi sarei dovuto partire.
Non c'era tempo da perdere.
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