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Vitaliano Ravagli -Wu Ming Asce di guerra IntraText CT - Lettura del testo |
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39 Appennino tosco-romagnolo, 15 marzo 2000
Orfeo Sabattani, detto "e Fatór", è un settantenne minuto, carnagione scura e respiro pesante d'asma. Parla l'italiano come seconda lingua, e preferisce esprimersi nel romagnolo di queste parti. Non solo è stato amico del comandante Bob, ma a quindici anni ha partecipato ad alcune delle azioni più epiche della Trentaseiesima: il Castagno, Monte Battaglia, la prima linea a Borgo Tossignano. Nei libri che mi ha mostrato Sole, lunghe sezioni portano titoli come questi. Oggi ha la pensione minima, che arrotonda allevando cani da tartufo. Sono stato io a fare la proposta. Non ho dovuto insistere molto. Abbiamo scartato Monte Battaglia perché è fin troppo facile da raggiungere, con tutti i cartelli e i ruderi del castello sulla cima. Ritrovare il luogo esatto della battaglia del Castagno ci è parsa una sfida più allettante. Nemmeno e Fatór è convinto di arrivarci. Sono passati cinquantasei anni dall'ultima volta. Usciti da Imola infiliamo la statale Casolana e la prima sosta è una frazione a pochi chilometri da Riolo Terme, caffè e cappuccino prima di puntare verso le montagne. All'ingresso del bar, un enorme statua di legno, un vecchio di oltre cinque metri d'altezza, fiasco in una mano e bicchiere nell'altra, sembra salutare le auto che sfrecciano sulla strada. «Spiega un po'» chiedo mentre afferro una fagottino alla mela «come mai ti chiamano E Fatór, è il tuo nome di battaglia?» «No, in Brigata mi chiamavano "Piccolo", perché ero il più giovane di tutti quanti e il più piccolo dei miei fratelli, che eran tutti partigiani. Però quel nome mica m'è rimasto, come fai a chiamare così uno della mia età? "e Fatór" invece viene da quando ero bambino e aiutavo mio padre nel lavoro, al consorzio agrario.» Le tazze di cappuccio planano fumanti sulla superficie metallica del bancone. Chiedo la solita lacrima di latte e mi trattengo dal tuffare la pasta nel liquido caldo. «Perché non sei mai tornato nei posti dove hai combattuto? Brutti ricordi?» «T'ho pur detto: son stato a Monte Battaglia e a Ca' di Malanca, per una commemorazione dell'anpi, anche se io là non ci ho mica combattuto, ma adesso ci hanno fatto un più bel centro di documentazione, ci sono pure i letti, per chi vuol passarci qualche giorno e fare delle gite.» «E il Castagno?» «Una volta m'era venuto in mente di salire fin lassù. Ero con la famiglia a fare un giro, sulla strada che va a Molino Boldrino, il posto dove stava Bob con il comando della brigata. Stavamo raccogliendo le more ed è saltato fuori un signore, una specie di guardiano, a dire che dovevamo pagare un permesso. Va bene, dico, paghiamo pure, siamo in quattro, me ne faccia mò due. Poi, già che son lì, chiedo come si fa per andare alla Crusazza, che era dove stava la mia compagnia. Lui mi indica la strada e dice che ci vogliono un paio d'ore di cammino e che bisogna pagare un permesso. Un altro? Ascolta mò, gli ho detto, adesso non ho tempo di andare fin su, ma un'altra volta che torno, fai meglio a lasciarmi stare, che in vetta ci sono morti dei miei amici e se io voglio portare un mazzo di fiori non ho da chiedere il permesso a nessuno, chiaro?» Usciamo dal bar e ci dirigiamo verso l'auto. E Fatór mi mostra il muro di una vecchia casa, ancora bucherellato dai colpi d'artiglieria. «Qui sotto, vedi, proprio sul Senio, ci passava la prima linea. I tedeschi subito lì, sulla riva, che allora era molto ripida, e gli Alleati di fronte. Ci son rimaste in piedi sì e no quattro case.» Le urla di un energumeno dai capelli imbiancati mi distraggono dalla descrizione. «Allora, forza, andate via, non vedete che devo lavorare?!» Ce l'ha con noi. «Non potete stare qui, puténa d'na Madona, bisogna essere dei bei patacca a parcheggiare così, davanti ai miei mattoni.» E' un demente. Manteniamo la calma. «Ci scusi, eravamo un attimo al bar, ce ne andiamo subito, non avevamo visto.…» «Sì, sì, non avevamo visto, andate via adesso, poche scuse!» Lo stronzo riesce a farmi incazzare. «Ci metta un cartello, la prossima volta, no? Cosa ne so io dei suoi mattoni.» Continua a blaterare minacce e a darmi del furbetto. Dalla faccia che fa, sarebbe capace di spaccarmi la testa a sassate. Per quattro mattoni. Rinuncio a replicare e salgo in macchina. Ingrano la prima, lascio la frizione quel tanto che basta per urtare la pila e farla crollare. Sgommo in retromarcia e infilo la statale con una manovra criminale, mentre nello specchietto retrovisore lo stronzo si sbraccia e urla, cercando di raggiungerci con una manciata di ghiaia. La strada sale verso la Toscana, costeggiata da pareti di roccia stratificata, a picco sul fiume. Il cielo non promette bene, nuvole grige si addensano sulla valle. Superata Casola Valsenio di una decina di chilometri, lasciamo la provincia di Ravenna per quella di Firenze. Poco prima di Badia di Susinana, imbocchiamo una strada asfaltata che si inerpica a tornanti stretti verso un ristorante-agriturismo. Dal parcheggio per le auto un sentiero entra nel bosco. Prime gocce di pioggia. Raggiungiamo il versante di un canalone che degrada verso il fondovalle. Il punto è molto panoramico. E Fatór fa da cicerone. «Allora, vedi, quello laggiù, con la torre in vetta, è Monte Battaglia. La sterrata qui di fronte, invece, porta su a Cortecchio, e quella là è la cima della Faggiola. Le case là in fondo, sulla statale, sono quelle di Castagno. I tugnì e i fascisti sono venuti su da lì, per prendere il crinale qui sopra, tra Monte Cece e Monte Pianaccino. Se ci riuscivano, potevano controllare la valle del Sintria, dove s'era sistemata la brigata. All'alba i camion li hanno scaricati e loro hanno cominciato a salire, coperti dal tiro dei mortai e delle spandau. E' allora che mi mandano a chiamare Bob a Molino Boldrino. Lui era là con un attacco di malaria, steso nella greppia… Ma quando ha saputo che rischiavamo di perdere il crinale, è saltato su e si è messo a bestemmiare» ridacchia tra sé «poi ha preso il mitra e i caricatori e via, mi è venuto dietro… » un gesto vago con la mano « …il resto lo sai, te l'ho raccontato al telefono.» Purtroppo, il sentiero che dovrebbe portarci sul crinale è bloccato da una recinzione. Siamo costretti a tornare indietro. «Com'è che non siamo saliti da Molino Boldrino?» domando giusto per provocare «Avevi paura che ci chiedessero il permesso?» «Va là, va là, macché permesso, me lo dovrebbero chiedere loro a me, che ho più diritto di tutti a venire quassù. Il fatto è che m'han detto che ci si arriva meglio da quest'altra parte, che di là bisogna camminare parecchio e anche da Fornazzano, che è proprio lì vicino, non c'è nemmeno il sentiero. Te non preoccuparti, facciamo un altro tentativo. Hai visto quelle case, nel vallone di Castagno? Di sicuro c'è un modo per andare su.» Tornando verso la Casolana, proviamo a imboccare una sterrata sulla destra. La pioggia è sempre più fitta. La prospettiva di restare impantanato mitiga l'entusiasmo per la ricerca. Siamo da capo. La strada si interrompe all'altezza di una casa in costruzione. E Fatór scende giù per raccogliere informazioni da un giovane muratore. Abbasso il finestrino e afferro brandelli di dialogo. «La strada per andare in cima? Mi faccia pensare. Se volete vedere il panorama vi conviene salire da un'altra parte…» «No, non è per il panorama, è che siccome io ho fatto la guerra su in vetta, più di cinquant'anni fa…» Terzo tentativo. Nuove indicazioni ci portano su una mulattiera dalle parti di Misileo: un attentato alle sospensioni e alla coppa dell'olio. Ci inerpichiamo su una salita da Tour de France per finire la corsa sull'aia di una fattoria. L'accento degli indigeni è già sporcato di cadenze toscane. Il verso straziante di un animale sconosciuto non suona di buon auspicio. La pioggia ha smesso di cadere. Torniamo all'ultimo bivio e aggrediamo la strada che avevamo scartato. Dopo dieci minuti di rally, ci imbattiamo in un furgone pick-up che procede verso valle. Si ferma di lato per farci passare, ne approfittiamo per chiedere qualche coordinata in più. Il conducente riconosce subito e Fatór, dice di averlo visto a un raduno dell'anpi, e si rivela essere tal Paolino "del Capanno", partigiano ravennate della brigata di Bulow. Tra il dialetto, la voce rotta dall'emozione e la pronuncia sdentata, non è semplice capire quel che dice. Nel ricordare gli anni della lotta, gli occhi si inumidiscono, e l'amarezza per un presente poco glorioso sale alla gola. «Io l'anno scorso sono stato all'anpi e c'ho restituito la tessera, dopo tanti anni. Ho letto un articolo sul loro giornalino, diceva che gli americani facevano bene a bombardare il Kossovo. Mo dio boia, a me gli americani non piacciono mica e non mi sta bene che l'Italia va ad accoppare delle gente che nemmeno la conosco.» Scuote la testa sconsolato: «Noialtri partigiani non contiamo più niente…» Un incontro tra partigiani ultrasettantenni nel mezzo del nulla, sulla montagna imolese. Suppongo di avere una specie di calamita. O forse no. Questa zona è tra le più povere e sperdute dell'Appenino Tosco-emiliano. Non escludo che residenti e visitatori siano tutti reduci delle Brigate: una Repubblica partigiana di fatto, con sessant'anni di ritardo. Dopo qualche tornante, arriviamo al quadrivio dove Paolino ci ha consigliato di parcheggiare. La nostra mulattiera procede in piano, tra prati gialli di primule e vecchi castagni dal tronco contorto. Cerchiamo di orientarci. La statale Casolana è sulla destra, mentre a sinistra dovrebbe aprirsi da un momento all'altro la vallata del torrente Sintria, incassata tra quella del Senio e quella del Lamone. «Non è mica facile» si scusa e Fatór «A quei tempi non c'erano tutti 'sti alberi, la montagna era brulla, da quassù vedevi giù fino in fondo. » In effetti, un bosco giovane di faggi sottili impedisce la visuale. Tentiamo una puntata sul crinale sopra di noi. Dietro una curva, dopo il passaggio fulmineo di uno scoiattolo, le prime conferme. Due piccole frazioni, sul versante opposto di una vallata che ha tutta l'aria di essere quella giusta. «Quelli dovrebbero essere Fornazzano e Croce Daniele. Ci son stato a mangiare con l'anpi, in una casa di contadini che ci avevano ospitato durante la guerra, e mi ricordo che anche da là guardavamo in giro per capire dov'era la Crusazza, che non poteva essere molto lontana. Scruta dentro il binocolo come una vedetta in avanscoperta, e un attimo dopo me lo porge con un sorriso. «Guarda mò, dev'essere proprio quella laggiù, quella scoperchiata.» Fatico un po' per inquadrarla e metterla a fuoco, nel fitto di rami che trovo di fronte. «Ah, ecco, la vedo. Sembra che la mulattiera ci arrivi.» Infatti. Via via che ci avviciniamo, e Fatór riconosce i luoghi di un tempo. «Quest'abetaia mi par che ci fosse anche allora, che gli alberi son piccoli, ma per far crescere l'abete quassù ci vuole il suo tempo. Poi, ecco, in questo punto qui partiva un sentiero che andava fino in cima, ed era quello che prendevano le sentinelle per fare la guardia. Qui invece c'era sempre qualcuno a tenere d'occhio la mulattiera, nascosto dietro una quercia che dev'essere venuta giù. E lì sotto c'è la fonte dove andavamo a prendere l'acqua…» La sorgente c'è ancora, anche se piuttosto melmosa. Nel prato subito dietro si indovinano i filari disseccati di un frutteto, mezzi sommersi dai rampicanti, e uno spazio erboso piuttosto ampio che doveva essere un pascolo per cavalli. Un cartello avverte del pericolo di crollo. In effetti, gli edifici della Crusazza cascano in pezzi, assediati dalle ortiche. Ma si intuisce che doveva essere una bella costruzione, tutta in sasso, con le stalle, il magazzino e la casa principale. «Non mi sarei mai immaginato di tornare quassù, dopo cinquantasei anni» sorride e Fatór ripetendo la frase come un ritornello. Poi soddisfa le mie curiosità. «Siamo arrivati qua nell'agosto del '44, dopo il rastrellamento sul Carzolano. Fu un momento terribile per la brigata, e Bob dovette metterci del suo per dare coraggio ai più impauriti e recuperare gli sbandati. Con almeno una decina non ci fu niente da fare: volevano andarsene. Allora Bob si fece consegnare le armi e gli scarponi, che potevano servire a qualcun altro, e li rimandò a casa scalzi. Per lui erano come disertori, e avrebbe potuto anche fucilarli. Non lo fece, ma decise di umiliarli, per mostrare a tutti quanto li disprezzava.» Si interrompe un attimo, gira intorno lo sguardo alla ricerca di un noce di cui ricorda ancora i frutti, poi riprende a raccontare. «Noi dormivamo fuori, in mezzo agli alberi. Intanto perché non potevamo mica invadere la casa dei contadini, che erano già una famiglia numerosa. Poi perché in questo modo eravamo più sparpagliati e se ci sorprendevano di notte qualcuno poteva anche scappare. E poi per non compromettere troppo i proprietari, che rischiavano le rappresaglie. Tutte le mattine, alle quattro, partiva la pattuglia di guardia per andare sul crinale. Restavano là tutto il giorno. Poi c'erano sempre due sentinelle sulla mulattiera e una squadra di corvée per fare legna, portare acqua e dare una mano al cuoco.» la voce arrochita dall'emozione «La Crusazza! Ma se mi avessero detto che ci tornavo, prima di morire, non ci avrei creduto…» Ci aggiriamo ancora un po' tra ruderi e ricordi, scatto le ultime foto di un rullino estivo, poi prendiamo la via del ritorno. Una coppia di caprioli si infila nel bosco con un balzo non appena ci vede comparire sulla strada. Spunta anche il sole. Il prossimo obiettivo è un piatto di pasta, sono quasi le due e lo stomaco reclama. La ricerca dura il tempo di tornare sulla statale, dove ogni frazione di tre case ha la sua trattoria. Misileo non fa eccezione. Ci accomodiamo sotto lo sguardo truce di una testa di cinghiale, in attesa di sperimentare i tortelloni della casa. Nel tragitto dalla Crusazza fino a qui, e Fatór è rimasto quasi sempre zitto. In meno di mezz'ora deve aver rimuginato gli episodi più entusiasmanti della sua esperienza di partigiano. Ora è pronto per raccontare. L'antipasto di olio e pane toscano lo mette nell'umore più adatto.
«A dir la verità, poi, su alla Crusazza ci sono tornato, una volta, quasi subito però, verso la fine della guerra, a prendere una pistola che avevo lasciato là e poteva servire. Quando sono arrivato, i contadini avevano appena seppellito la figlia maggiore. L'avevano violentata e uccisa dei francesi, o dei marocchini, non ricordo bene. Gente terribile, comunque, i peggiori di tutti.» «Cos'è successo dopo la battaglia del Castagno, siete rimasti lì o vi siete spostati?» «Ce ne siamo andati subito, altroché! La battaglia era andata bene, però restare lì era pericoloso. Ci siamo trasferiti a sud, prima a Fontana Moneta e poi dalle parti di Ca' di Malanca.» «E poi come sei finito a Monte Battaglia?» «Dunque: il Castagno è stato verso metà settembre. A fine mese è arrivato l'ordine del cumer di scendere sulle città, perché pensavano che la campagna d'Italia era lì lì per finire. Volevano liberare Faenza, Imola e Bologna prima degli Alleati. Così la brigata si divise in quattro battaglioni di trecento uomini ciascuno. Due su Bologna, uno su Imola e uno su Faenza. A seconda della zona dov'eri nato, ti mettevano da una parte o dall'altra: io mi sono trovato a Monte Battaglia, altri a Ca' di Guzzo, altri ancora a Purocielo.» «Poi però l'offensiva alleata si è bloccata, la pianura è rimasta in mano ai tedeschi per tutto l'inverno e il generale Alexander ha proclamato la fine della campagna estiva… e vi hanno lasciati nella merda.» «Proprio così, da un giorno all'altro han deciso che l'Italia poteva aspettare, erano più importanti altre zone, e allora la conquista di Monte Battaglia, che c'è morta un sacco di gente, è servita a poco. Se solo avessero voluto, da lì a Imola si arrivava in giornata.» «Invece?» «Invece gli Alleati ci dissero bravi, si fecero consegnare le armi e ci spedirono a Firenze, nelle retrovie, in una specie di campo di concentramento, dove abbiamo fatto davvero la fame, per alcuni mesi. Poi, quando il fronte è entrato in Emilia, allora siamo tornati di qua e per prima cosa siamo saliti a Monte Battaglia per seppellire i nostri morti.» «Certo, e all'inizio del '45, insieme col Moro, cominciò a darsi da fare per arruolare i partigiani nell'esercito italiano, che doveva riformarsi per dare una mano agli Alleati. Anche lui finì a Cesano, vicino a Roma, nel centro di addestramento del famoso Gruppo di combattimento "Cremona".» «Tu invece non sei andato…» «No, cosa vuoi, ormai eravamo a Imola e io volevo restare dalle mie parti. Insieme con altri cento partigiani, e d'accordo con il Comando alleato, abbiamo occupato Borgo Tossignano, un comune della valle del Santerno che era rimasto terra di nessuno. Così, per un paio di mesi, a Borgo abbiamo comandato noi.» «E gli inglesi?» «Ci mandarono un ufficiale di collegamento, Vic, lo chiamavamo, non ricordo il nome, un uomo molto intelligente che stava dalla nostra parte e ci lasciò fare quel che volevamo. Diceva che dovevamo essere noialtri a liberare Imola e si dava un gran da fare per aiutarci. Quando ebbe l'incarico di farsi riconsegnare le armi e mandarle a Mestre, ci fece capire che se ne trovavamo altrettante, arrugginite o malfunzionanti, non importava, potevamo tenere quelle nuove. Sul foglio che gli avevano dato c'era scritto il numero dei pezzi, non in che condizioni erano. E' stata la prima e unica volta che un inglese ha passato delle armi a noi della Trentaseiesima!» «L'unica? Davvero? E i famosi aviolanci?» «Eh, gli aviolanci, magari ce ne avessero fatti! Ma sai, noi eravamo comunisti, mica potevano permettersi di armarci. Preferivano Corbari e il comandate Lupo della Stella Rossa, che non prendevano ordini da nessuno e stavano per conto loro. Però un paio di volte siamo riusciti a farli fessi, abbiamo intercettato i messaggi radio per le altre brigate e abbiamo acceso i fuochi di segnalazione al posto loro. Ma le uniche casse che ci hanno buttato, sono arrivate per sbaglio, e al mortaio mancava il puntatore, che solo Attila, in tutta la brigata, era capace di usarlo lo stesso. Hai capito gli aviolanci?» «Finisci il racconto di Borgo Tossignano…» «Ah, si fa presto a dire: a metà aprile i tedeschi cominciano a ritirarsi e noi decidiamo di scendere verso Imola. Quando siamo a Ponticelli, a sei chilometri dalla città, ci arriva l'ordine di tornare indietro perché stiamo andando a sbattere contro il settore della "Folgore". Noi dobbiamo obbedire, e il giorno dopo i polacchi e la "Friuli" entrano a Imola.» «Vi hanno fregati…» «Esatto, e da allora non hanno più smesso, ci hanno preso gusto! Solo con Ravaioli e la Brigata Nera siamo riusciti a fare a modo nostro, ma lì c'era stato il Pozzo di Becca…» «Conosco la storia, me l'hanno raccontata un po' tutti. In che senso si è fatto a modo vostro?» «Nel senso che è andata come volevamo noi. Io ero tra i partigiani della scorta, insieme a Bob e Umberto. Li siamo andati a prendere e quelli facevano gli sbruffoni, credevano di farla franca, di avere un processo, non sapevano che il massacro del Pozzo Becca era stato scoperto e tutti gli imolesi avevano visto le foto dei cadaveri. Allora abbiamo fatto in modo di fermarci a Castel San Pietro, apposta per arrivare in città di domenica mattina, con tutta la gente a spasso, e prima di entrare a Imola gliel'abbiamo detto con quelli, state per pagare il conto del Pozzo di Becca. Allora han capito cosa li aspettava e si sono messi a litigare, ad accusarsi a vicenda, i giovani contro i più vecchi. Poi è successo quel che è successo.» «E dopo la Liberazione cos'hai fatto?» «Cosa vuoi che abbia fatto, le solite cose, ho lavorato, ho fatto le manifestazioni, ho preso le botte…Ma quello della Brigata è stato il periodo più bello della mia vita. Non è un modo di dire, eravamo tutti fratelli, proprio così. Più di mille uomini pronti a dare la vita l'uno per l'altro, che se cadevi ferito rischiavano qualsiasi cosa pur di venirti a prendere. Davvero, una sensazione così non l'ho provata mai più.» «Beh, con qualcuno però sei rimasto amico.» «Sì, con Bob e Teo soprattutto, ma sono morti troppo presto…» «Ho visto la foto, al Museo della Resistenza di Imola, tu e Teo con la bara di Bob sulle spalle.» «Sì, era il '54, mi pare. E' morto per strada, così, da un momento all'altro, come un poveraccio, lui che era stato una leggenda e che non era più niente. Sai, Bob era tibicì, il partito gli aveva offerto di andare in Cecoslovacchia a curarsi, là erano all'avanguardia in quel campo, ma non ha mai voluto.» «Teo invece era tornato da poco, giusto?» «Sì, ma lui c'era stato per altri motivi, mica per la salute.» «Poi però è stato male anche lui.» «Sì, aveva il cancro e si è sparato. Viveva con niente, perché nessuno gli ha mai dato una mano e lui non era il tipo da chiederla. In questa cosa somigliava a Bob. Non aveva amici, tranne me e Gap, un ragazzo molto giovane con la passione per le armi. Si era preso un furgoncino e faceva dei trasporti per le cooperative, ma un posto fisso non gliel'hanno mai offerto. Poi al funerale sono venuti in tanti, come per Bob…» «E tu non hai avuto nessun problema con la giustizia del dopoguerra?» «Certamente, come tutti. Sono finito tre mesi a San Giovanni in Monte. Sai perché? Mi ero messo in mezzo in una litigata. Un caporeparto della Cogne aveva puntato la pistola contro un dipendente e io cercavo di calmarlo. Dopo mi hanno accusato di essermi messo col dipendente costringendo quell'altro a tirar fuori l'arma. Potevano incastrarmi tante di quelle volte, ma lo fecero nell'unica occasione che non c'entravo e non avevo fatto niente di male!»
Le domande sono finite, almeno per ora, e il pranzo anche. Spengo il registratore e faccio cenno al cameriere di portare il conto. Orfeo Sabattani "e Fatór" butta giù l'ultimo sorso di caffè, di nuovo immerso nei suoi pensieri. «Però, guarda, un mazzo di fiori avrei anche potuto portarlo… Ma non ero mica sicuro che ci saremmo arrivati, alla Crusazza, dopo cinquantasei anni! Mi sa tanto che prima di morire devo tornarci un'altra volta…
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