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Bologna, 18 marzo 2000
Bob. Teo. Eroi dimenticati, o piuttosto che
hanno scelto di farsi dimenticare. Forse l'una e l'altra cosa insieme.
Protagonisti per un momento, un momento cruciale, quando si trattava di vivere
o morire, e dopo sempre più fuori ruolo, incapaci di adattarsi. Alle direttive
del Partito Nuovo, come al ritorno alla vita "normale". Hanno
continuato a combattere, ognuno a modo suo: la fuga oltre cortina e una
misteriosa permanenza in Cecoslovacchia per Teo, la testa delle manifestazioni
per Bob.
Ma poi? Poi arrivano gli anni Cinquanta,
crinale difficile: scioperi e battaglie sociali combattute di strada in strada,
da un lato, normalizzazione e sangue freddo imposti dal partito, dall'altro. E
il boom economico dietro l'angolo, che avrebbe accomodato le borse e le
coscienze.
Negli anni Cinquanta chi aveva l'istruzione
o anche solo la voglia di trovare un proprio posto dentro le organizzazioni
della sinistra democratica non ha avuto problemi ad essere accontentato. C'era
bisogno di gente in gamba, giovani svegli e temprati dalla lotta. Gente come
Mirco e come Sole.
Quelli come Teo e Bob si sono fatti da
parte, senza chiedere niente a nessuno. Questione di carattere e stile di vita,
forse, prima che politica, perché comunisti lo sono sempre rimasti, fino alla
fine. Per Bob si è dipanato il bandolo di un'esistenza post-eroica che nessuno
potrebbe invidiare: un lento spegnimento, sputando sangue nel fazzoletto. Per
Teo il tentativo di costruirsi una vita privata, in disparte, una moglie da
amare. Forse Teo un proprio angolo l'aveva trovato, qualcosa che lo
riconciliasse con la delusione della rivoluzione mancata e l'avanzare dei tempi
nuovi. Resta comunque un personaggio sfuggente, a tratti oscuro.
Il mito della Resistenza acclude quelli come
Bob e Teo nell'agiografia leggendaria, ma non ne segue i percorsi negli anni a
venire.
Contadini e operai che scelsero di
riscattare vent'anni di sudditanza e - come santi su un calendario laico -
finirono col fornire la sponda a tutti quelli che non si erano mai ribellati.
Dopodiché sono tornati alla vita di prima, mandando giù il rospo, lasciandosi
la prospettiva del grande cambiamento sociale alle spalle. Sono tornati ad
essere operai e contadini.
Ripenso ai libri di Calvino e di Fenoglio
letti tanti anni fa, a scuola. Tra i pochi che hanno saputo rendere la portata
del trauma vissuto da molti. Il ritorno "a casa". Che in buona parte
è metafora del ritorno dell'Italia a se stessa, alla storia gattopardesca di
sempre, storia di pagine voltate, ma talmente trasparenti da lasciare
intravedere quello che c'è sotto, ancora tutto qui, ancora merdosamente
"nostro". La giustificata voglia di dimenticare il peggio porta con
sé la rimozione dell'orrore: i vent'anni di fascismo che stanno dietro, ma
anche i fascisti reintegrati nella vita pubblica, nella politica, uno stato
spudoratamente "etico", la stessa cultura giuridica, i comunisti
perseguitati, ostracizzati, i carabinieri, la Celere di Scelba. I
"favolosi" anni Cinquanta.
E se lo stato non è cambiato, è comunque
riuscito ad appropriarsi del mito popolare partigiano, a farne pilastro
portante di una rifondazione più apparente che reale, con una soluzione di
continuità troppo scarsa rispetto al passato. Quando la mitologia popolare
diventa Mitologia di Stato è già spacciata. Smette di essere patrimonio
collettivo e diventa materia per omelie istituzionali, diventa Memoria: una
triste religione laica, amministrata dai sacerdoti di turno. E' così che dietro
al "Mai più!" proclamato dai palchi e dalle tribune, si nasconde la
coazione a ripetere, la possibilità che tutto torni nelle forme nuove e assai
più moderne, "democratiche", del presente che ci viene consegnato.
Per capire qualcosa occorre sbriciolare il
mito come ci è stato tramandato e scavare fuori dalle macerie le storie vive.
Quelle che nessuno ha raccontato. Le asce da disseppellire. Come quella di Teo
e Bob, come quella del vietcong romagnolo.
Combattenti di un'altra epoca. Sembrano
passati secoli e invece alcuni di loro sono ancora tra noi, disposti a
raccontarci quella storia.
Una storia che si è voluta
"ripulire", per renderla inoffensiva. Per ricoprire la rabbia e la
frustrazione di tanti, con le medaglie e gli encomi. Scelte schiacciate tra le
calunnie di chi è rimasto a guardare, e la prosopopea delle istituzioni che da
quel coraggio hanno tratto ragione di essere.
Banditi e razziatori per gli uni, eroi senza
macchia per gli altri. Purché le contraddizioni reali rimanessero fuori dalla
porta.
E allora questa è la vicenda di una
rimozione collettiva, di un crimine consumato con le fanfare e le corone
d'alloro.
Chi aveva accettato per vent'anni le
condizioni del regime, ha scelto di osannare chi lo contrastò e di incolonnarsi
dietro quell'icona, per negare a se stesso di non aver agito. Di non aver
scelto mai. E chi invece in nome del "sacrificio degli eroi" ha
ottenuto la sua fetta di ragione, l'ha spesa come meglio credeva, accettando di
edulcorare il sacrificio stesso e farne un mito fondativo, ma senza più anima,
stigmatizzato e consegnato alla storia affinché ci si potesse dimenticare di
tutto il resto: della mancata epurazione come della rivoluzione che non è
venuta. E forse anche di vent'anni di fascismo.
Si volta pagina, passiamo oltre. Non è
successo niente.
Come ha detto Giorgio? «Sono vicende
terribili. Ma, cosa volete, sono stati anni duri, violenti.»
Ma già, c'era il fascismo, c'era la guerra…
erano altri tempi.
Mi tornano in mente le parole etiliche di
Vasquez: «Quanto indietro sei disposto ad andare? C'è l'abisso, dietro. Se ti
giri ti vengono le vertigini. Quanto indietro?»
Poi penso a Said, a Kadisha e a Nidal. Penso
al girone infernale di Trapani.
«Ma che c'entra? Sono leggi europee, il
trattato di Schengen…»
Già, che c'entra? Non c'entra mai. Non ci
sono scelte da fare, né dignità da difendere.
Non la propria, tanto meno quella degli
altri.
Le fondamenta scricchiolano. La puzza di
marcio si spande ovunque. Il brusio di sottofondo diventa frastornante.
E così la merda ricomincia da capo.
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