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Vitaliano Ravagli -Wu Ming Asce di guerra IntraText CT - Lettura del testo |
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42 Da Bologna a Imola, 11 aprile 2000
Piano piano, quasi vergognandosi, le cose cominceranno ad andare meglio e la depressione degli ultimi due mesi allenterà la presa. Arriverà addirittura il giorno giusto per sbrigare il cumulo di faccende arretrate, piccole incombenze che la pigrizia affida sempre a domani: riparare il rubinetto, montare la mensola in camera, comprare un paio di pantaloni, restituire i cd a Gandolfi, passare in banca, far sviluppare le foto dell'estate scorsa. Quando un rullino rimane troppo tempo in una macchina fotografica, non sai mai cosa può saltarne fuori, e non sempre i ricordi aiutano a decifrare tutto ciò che contiene. Nel caso in questione, una lunga sequenza di immagini newyorkesi culminerà con tre inquadrature di un anziano in posa di fronte a un rudere. Lo smarrimento durerà solo un attimo, necessario a spostare la mente nello spazio-tempo, per riconoscere e Fatór sullo sfondo della Crusazza. «La Crusazza! Se mi avessero detto che ci tornavo, prima di morire, non ci avrei creduto…». Le parole dell'ex-partigiano sbocceranno dalla memoria: una copia di quelle foto non potrà che fargli piacere. Nel disordine della scrivania, reso abnorme da un mese di stratificazione incontrollata, darò la caccia a un foglietto, scarabocchiato in un'era lontana col numero telefonico di Orfeo Sabattani "e Fatór". Lo troverò dopo un quarto d'ora, ancora leggibile, nonostante il recente utilizzo come sottobicchiere. Vagherò per la casa in cerca del cordless. Un tenue pigolio da batteria scarica me ne segnalerà la presenza tra il cuscino e lo schienale di una poltrona. La telefonata si concluderà con un appuntamento per le sei del giorno successivo, sotto il CIDRA, l'unico edificio di Imola che conosco bene.
Si presentano in due. «Questo è Gap, ti ricordi che te n'ho parlato? Quel ragazzo amico di Teo…Gli ho raccontato della gita al Castagno e m'ha chiesto se ti poteva incontrare. Conosceva anche Bob, e tutti gli altri.» Stringo una grossa mano e sorrido: sguardo sveglio, occhi chiari, l'aria più giovane rispetto a e Fatór, forse per via dei capelli tinti. «Mi perdoni la domanda, sa, ma e Fatòr mi ha detto che lei è avvocato, come mai si interessa dei partigiani di queste parti?» Cerco una spiegazione breve: «E' solo per curiosità personale. Mio nonno ha fatto il partigiano dalle parti di Castelfiorino e un suo vecchio amico mi ha fatto conoscere Mirco, Graziano Zappi, che mi ha parlato di Bob, di Teo, della Trentaseiesima. Tutte storie molto affascinanti…» Annuisce, il tono sconsolato: «Ah, Teo e Bob erano unici, glielo garantisco io. I più onesti, quelli che non si sono mai arresi. Sono morti poveri, tutti e due, non si sono messi sul piedistallo a fare gli eroi e nemmeno hanno voluto scendere a compromessi coi nemici di un tempo. Tutti gli altri, invece, si sono sistemati…» Scandisce le ultime parole come una condanna, accompagnata da un mezzo sorriso ironico. Poi allunga un braccio e indica un negozio di scarpe, sull'altro lato della strada. «Ecco, vede come sono cambiati i tempi? Cinquant'anni fa l'avremmo portata lì a bere qualcosa, vero Fatór? Al bar Nicola, il ritrovo dei comunisti, che i carabinieri chiamavano "Il Cremlino". Ma adesso c'è il negozio di Di Varese, e anche se ci fosse ancora il bar, non si troverebbero più i comunisti per riempirlo.» «Comunisti o no» interviene e Fatór «vediamo di trovarlo lo stesso, un bar, che ho voglia di mettermi seduto e vedere queste famose foto.» «Beh, non aspettarti troppo. Sono giusto tre o quattro e non sono neanche un granché…» «Fa niente, fa niente, l'importante è che si veda bene la Crusazza.» Arriviamo nella piazza del Municipio, col balcone "da cui nel '36 parlò Mussolini, e che il giorno della Liberazione era pieno delle bandiere degli Alleati, e sotto c'era un mare di gente, e molti erano gli stessi che erano andati a sentire il Duce". Ci infiliamo in un bar poco oltre. Tiro fuori le foto e le porgo a e Fatór, che le scorre rapido per passarle subito all'amico e descrivergli i particolari della nostra avventura a Monte Cece. Quindi se le fa restituire e le dispone a quadrato sul tavolo, per contemplarle con più calma. Ordiniamo tre aperitivi, e mentre e Fatór e Gap discutono su dove si collochi Ca' di Malanca rispetto a Castagno, decido di aggirare i ricordi della Brigata per farmi raccontare un po' del "dopo", su cui finora ho raccolto solo informazioni generiche. «Perché non mi raccontate un po' meglio che cos'hanno fatto Bob e Teo nel dopoguerra?» butto lì mentre sbrano una grossa oliva. E Fatór è ancora preso dalle foto, Gap invece si accende subito: «Qui a Imola Bob era un autorità e non era nessuno. Non è facile da spiegare, però non aveva una posizione nel partito, non si era neanche iscritto per non danneggiarlo ed essere libero di agire come gli pareva, faceva un lavoro umile, non aveva soldi, però nessuno si azzardava a contrastarlo apertamente, nemmeno la polizia. Una volta imparò dalla moglie di Nicola, il barista, che degli ex-repubblichini avevano organizzato un raduno in un albergo sopra Sestola. Bob era ospite in una casa da quelle parti, perché i dottori gli avevano detto di andare a prendere dell'aria buona, che aveva la tibicì. Lui non disse niente a nessuno, andò là e si mise a spaccare tutto: sedie, tavoli, buffet, vetrate. Da solo. Poi arrivarono i carabinieri e se lo portarono in caserma. Nicola intanto s'era messo a cercarlo, perché sapeva che la moglie gli aveva raccontato del raduno e voleva evitare che Bob si mettesse nei guai. Arrivò tardi, il locale era già sottosopra, devastato, e Bob era stato arrestato. Allora Nicola andò in caserma e disse "Guardate che questo è Bob, il comandante della Trentaseiesima. Se lo tenete dentro succede un casino che nemmeno ve lo immaginate." Poche ore dopo, Bob era di nuovo libero.» Sto per fare un'altra domanda ma Gap mi blocca con un gesto della mano: «Aspetta un attimo, fermo. Lo prendiamo un bel dolcino o stiamo qui a farci delle pugnette?» «Tu saresti a dieta, no? » lo rimprovera e Fatór «Eh, dio boia, c'hai ragione, ma sederci a tavola senza mangiare niente mi fa una tristezza…poi tanto‘stasera mangio giusto un brodino, un po' di verdura cotta.» Si rivolge a me afferrandomi il polso «Vedi, quando uno ha patito la fame da giovane, gli resta dentro questa voglia di vedere sempre la tavola imbandita, piena di meraviglie. Poi magari mangio due cosine appena, ma ho bisogno di abbondanza, capisci?» Alza la mano libera e attira l'attenzione del cameriere «Allora, giovane, mi dica, ce l'avete un bel dolce con della cioccolata? Io per la cioccolata farei delle follie…» Non c'è verso di tirarsi indietro: la mousse al cioccolato con panna montata viene ordinata in tre porzioni, più un secondo giro di aperitivo. «Oh, adesso cominciamo a ragionare. Cosa stavamo dicendo?» «Mi stavi raccontando di Bob, del fatto che era una specie di intoccabile…» «No, macché, allora non ci siamo capiti. Stavano attenti con lui, ma più di tutti era lui a dover stare attento. Altro che intoccabile, era un sorvegliato speciale. Non lo andavano certo a bastonare durante le manifestazioni, sarebbe successo il finimondo, però lui stava in campana, non poteva sgarrare, altroché. E tutti gli altri, i comunisti da bar, avevano paura di dargli contro, ma poi gliele dicevano alle spalle, lo consideravano un mezzo sbandato.» In poche cucchiaiate, ha spazzato via il dolce e cambiato espressione. «Teo invece? Come vi siete conosciuti?» «Beh, al bar Nicola, naturalmente, sarà stato il '52, '53.» «Ne avevo sentito parlare, ed era già il mio idolo, un vero eroe, però non l'avevo mai incontrato. Quando tornò ci trovammo subito in sintonia, si può dire che mi abbia quasi adottato, ed è stato l'unico vero amico che ho avuto in quel periodo. Lui era uno che se ti amava, faceva qualsiasi cosa per te, te lo dimostrava fino in fondo, però se ti odiava allora dovevi girargli a lato di un bel po', perché non te ne faceva passare una. Ce l'aveva soprattutto con quelli che si erano sistemati: gran rivoluzionari da giovani, e poi… Li odiava quasi più dei fascisti. Per questo si fece molti nemici.» «Vi ha mai raccontato di cosa faceva in Cecoslovacchia?» Interviene e Fatór: «No, pochissimo, c'erano delle cose che lui non raccontava a nessuno, e la Cecoslovacchia era di quelle. Penso non ne abbia parlato nemmeno con la moglie, se l'è portate nella tomba.» A due tavoli di distanza, un signore coi capelli bianchi sorride e fa un cenno di saluto verso di noi. Gap risponde quasi controvoglia: «Ecco, quello lì è uno dei miei amici di allora. Io non lo so, s'è ridotto così male. E' sempre stato un patacca, ma adesso… Va beh, meglio che non ci penso, stavamo dicendo di Teo. Neanche con me ha mai raccontato della Cecoslovacchia. Non credo che sia andato là a lavorare… comunque alla lunga non gli è piaciuto quello che gli facevano fare. Qui a Imola, quando uno ti chiede una cosa e tu vuoi sorvolare, se dici solo "Eh….", vuol dire che comunque la cosa è positiva. "Te la sei chiavata quella? Com'è andata?" "Eh…", vuol dire che è stata una gran scopata. Se invece non ne vuoi parlare perché la cosa è negativa, allora dici "Eh, dio boia…", e Teo mi disse proprio così, quando glielo chiesi "Ma là in Cecoslovacchia, cosa vi facevano fare?" "Eh, dio buiàz…"» Rido di gusto per l'analisi del dialetto imolese. Gap ha davvero il dono di saper raccontare una storia. Rallegrandomi per l'incontro, proseguo con le domande. «Da quello che mi ha detto e Fatór, Teo non se la passava bene nemmeno qui a Imola.» «No, perché anche lui non s'è mai adattato. Solo quando ha conosciuto Francesca, si è messo un po' più tranquillo, l'amava molto. Ma prima no, era temuto, perché non faceva tanti sconti a chi non rigava diritto. Per quello non riusciva a star buono, c'era soprattutto una cosa che lui sapeva fare bene: combattere e sparare. Insomma, se non c'era lui, là a Ca' di Guzzo, poteva andare molto peggio. Mi raccontò che dal tetto, dove si era appostato, sparò nel ventre a un tedesco ma non lo colpì a morte e quello urlava da far paura e lui decise di non dargli il colpo di grazia perché quelle urla spaventavano tutti gli altri nemici, gli toglievano coraggio. A Teo dispiaceva, perché anche quel ragazzo aveva una mamma e in fin dei conti era anche lui una vittima del nazismo, ma erano in gioco le vite dei compagni. Capito che tipo era? I giochini politici non facevano per lui.» E Fatór guarda l'orologio e raccoglie le foto dal tavolo: «Se volete restare, fate pure, ma sono già più delle sette e io devo tornare in collina a governare i cani.» «Eh, sì, hai ragione, che il nostro avvocato, qui, deve anche tornare a Bologna. Andiamo, va bene.» Ci avviciniamo alla cassa e il braccio di Gap mi blocca nel momento di estrarre il portafoglio: «Lascia ben stare, che qua siamo a casa nostra e ci pensiamo noi.» Mentre la cassiera va a caccia di monete, soddisfo l'ultima curiosità: «Spiegami ancora una cosa, ti chiamano Gap perché hai fatto il partigiano in pianura?» Sgrana gli occhi, quasi spaventato, e alza le mani ad altezza faccia: «No, no, io il partigiano non l'ho mica fatto, mi chiamano così perché ho sempre avuto una grande ammirazione per tutti loro, ma non ero né in montagna né in pianura, io.» «Ma guarda, ero proprio convinto che e Fatór e tu aveste combattuto insieme.» «Eh, no, ciò, io nel '44 avevo dieci anni, non potevo mica andare in montagna! Però le schioppettate le ho fatte lo stesso, con gli interessi, te l'assicuro…» Si volta un attimo per raccogliere gli spicci dalla mano della cassiera. La mia faccia è già una domanda. «Sì, vedi, sono andato a combattere in Indocina. Ma non pensare mica a quelle cagate come Rambo…» «Ah, sei stato nella Legione Straniera!» Quasi scandalizzato: «Per carità! Io stavo coi gruppi comunisti, dalla parte di Ho Chi Minh. Però non ero in Vietnam, stavo in Laos… Ma cos'hai, non ti senti bene? Hai un giramento di testa, vuoi sederti un attimo?»
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