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Sentieri dell'odio
(Fuori dall'Europa)
Il primo passo verso l'Indocina fu un
viaggio a Milano.
C'era un'osteria, lungo i navigli, un covo
di compagni, dove bisognava presentarsi per parlare con la persona giusta.
Ero ansioso di sapere come comportarmi con
gli obblighi di leva: un disertore poteva mettere nei guai tutta la
famiglia. I compagni milanesi mi spiegarono che non appena mi fosse arrivata la
cartolina di precetto, dovevo mandare qualcuno da loro, per dire dove mi
avevano destinato. A quel punto avrei ricevuto tutte le istruzioni. Dovevo
comunque presentarmi in caserma per il giorno stabilito e preparare da subito
la fuga. Loro avrebbero garantito l'appoggio esterno. Se poi fossi
riuscito a tornare in Italia, avrei dovuto ripresentarmi alla stessa caserma
recitando la parte di chi ha perso la memoria, come aveva fatto Teo per coprire
l'espatrio clandestino. In quel modo, avrei subìto di certo provvedimenti
disciplinari ma avrei evitato il carcere militare di Gaeta.
Non feci altre domande, sapevo bene che in
queste cose non si deve mai essere curiosi e bisogna tenere la bocca chiusa
anche con le belle donne e gli amici più intimi.
La convocazione dei militari arrivò pochi
giorni dopo. Invece dei soliti due mesi di preavviso, mi intimavano di
presentarmi subito alla caserma del 9° CAR di Bari. Non so dire perché. Di
certo aveva a che vedere con i miei precedenti, o forse avevano intuito
qualcosa dei miei piani.
Teo mi consigliò di partire subito, come se
niente fosse. Appena arrivato, dovevo scrivere ai milanesi per indicare con
esattezza il luogo dove mi trovavo. Loro avrebbero pensato a tutto, non dovevo
preoccuparmi.
Arrivato a Bari scrissi subito la lettera e
dal primo momento mi preoccupai di costruire il personaggio dello
"smemorato". Bisognava trovare dei testimoni, gente che avrebbe
confermato con i superiori: «Ravagli? Eh, sì, fin da subito mi era parso
strano, parlava dei suoi vuoti di memoria…». Raccontai qualcosa di me ai
commilitoni, intercalando spesso con «Eh, però adesso non saprei
dire di preciso, m'è rimasta tanta di quella confusione in testa, non sono
sicuro, chissà cos'ho fatto in quel periodo, ho come un buco…». Avrei meritato
un Oscar per l'interpretazione.
La risposta che attendevo arrivò sotto forma
di lettera di mio padre. C'era il suo nome nello spazio del mittente, e la calligrafia
era davvero simile alla sua, con quegli svolazzi ottocenteschi che insegnavano
i maestri di un tempo. I milanesi ci sapevano fare.
Le indicazioni erano semplici. Dovevo raggiungere
una spiaggia deserta nei pressi di Fesca, dove si facevano le esercitazioni di
tiro del CAR. Lì avrei trovato dei pescatori con una barca, che mi avrebbero
riconosciuto dal fazzoletto rosso al collo.
La caserma si trovava fuori Bari, in aperta campagna,
su una strada popolata soltanto da prostitute. Molti soldati aspettavano il
buio per scavalcare il muro di cinta, piuttosto basso, e consolare la nostalgia
di mamme e fidanzate tra le gambe di quelle signore. Nel caso mi avessero
beccato, al momento della fuga, sarei stato uno dei tanti che andavano a
chiavare sotto gli ulivi.
Quando raggiunsi Fesca, dopo molto cammino,
mi imbattei subito nel gruppo di pescatori. Mi avvicinai.
«Tu sei di Imola?» domandò uno di loro.
«Sì» gli risposi.
«Allora vieni con noi.»
Mi caricarono su un barcone a motore e di lì
a poco ci lasciammo alle spalle le coste della Puglia. Io stavo malissimo, sono
uno che vomita a veder muoversi una foglia, figuriamoci in mare aperto.
«Mangia, compagno, mangia» mi invitavano i
contrabbandieri, offrendo pane, salame, provolone e vino. Finii per ubriacarmi,
il che di certo non fece bene al mio stomaco, ma almeno ero abbastanza stordito
da non patire troppo il primo viaggio per mare.
Ci vollero due giorni per raggiungere Chioggia,
la nostra destinazione, e dopo quella prima notte terribile, le acque si
calmarono un po' o forse fu lo stomaco ad abituarsi.
Il viaggio via terra fu altrettanto
sofferto. Lunghissime camminate si alternavano a percorsi di montagna a
bordo di un furgone militare. Fui accompagnato oltre confine da alcuni
frontalieri e quindi preso in consegna dai soldati sloveni che mi fecero
sostare in una baita, forse un avamposto militare di montagna. Dopo alcuni
giorni raggiungemmo una caserma che ospitava già una trentina di civili.
C'erano tedeschi, spagnoli, italiani. Un istruttore ci insegnò i rudimenti
nell'uso delle armi e nel combattimento.
I miei compagni d'avventura erano tutti disgraziati,
con storie molto tristi alle spalle: genitori uccisi, madri fuggite di casa,
persecuzioni personali. C'era anche uno delle mie parti, "Budrio",
brutto come la fame, e nemmeno tanto a posto con la testa. Però era quasi un
poeta, raccontava storie straordinarie, sempre in rima, con particolari
erotici incredibili. Diceva di essere fidanzato con una gran figa, ma ogni
volta che ne parlava c'era in lei qualcosa di diverso, e capimmo in fretta che
era una balla. D'altra parte, quasi nessuno aveva lasciato a casa una donna o
la famiglia.
Masticando qualche parola d'inglese e il
tedesco imparato a Cuffiano, riuscii a stringere un po' di rapporti e a
distrarmi di quando in quando dai molti pensieri che mi turbavano.
In quei giorni d'attesa un'immagine prendeva
forma nella mia mente. Mi raffiguravo il mondo che mi lasciavo alle spalle come
un prato verde, battuto dai venti. Pochi steli diritti resistevano alla
tempesta e gocce di rugiada li bagnavano appena: lacrime di uomini spenti.
Allora guardavo meglio e riconoscevo i volti, sentivo le voci spazzate dal
vento. Erano quelle di Pucci, di Bob, di Teo, del Moro e di tutti coloro
che, vivi o morti, non si erano arresi. Mi esortavano a non piegarmi, a
proseguire la lotta. La risposta era che non avevo fatto altro, ma ero
sempre troppo solo, e per quel motivo andavo a cercare altrove.
Pensieri confusi, esercitazioni militari e
discussioni poliglotte: la settimana passò, aspettando un aereo che sarebbe
atterrato da un momento all'altro. Non era dato sapere quando, ma il suo arrivo
era certo.
L'ordine di imbarco ci colse di sorpresa, a
notte fonda. Un vecchio quadrimotore Tupolev ci attendeva sulla pista.
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