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Vitaliano Ravagli -Wu Ming
Asce di guerra

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  • SECONDA PARTE
    • 44 Sentieri dell'odio (Laos centro-orientale, 1956)
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44

Sentieri dell'odio

(Laos centro-orientale, 1956)

 

 

Il chiarore dell'alba ridà forma allo scuro groviglio della giungla. Le cime degli alberi si stagliano nitide, trafitte dal sole nascente. Gli ultimi animali si affrettano nei rifugi, come avvertiti di un pericolo imminente.

Osservo la bellezza selvaggia di questi luoghi. Nuvole scure cariche di pioggia, muovono da ovest a sfiorare la vetta più alta. Stormi di uccelli di tutte le dimensioni e colori sfrecciano impazziti da ogni parte.

Poi, improvviso, un rumore di cosa strisciante, un grosso rettile impaurito, ci fa rabbrividire e alzare veloci.

La notte è trascorsa in un'atmosfera irreale. Al mattino del nuovo giorno avremmo dovuto combattere.

Ci siamo portati fin dal pomeriggio di ieri in una posizione adatta all'imboscata. I nostri informatori ci hanno avvertito che i reparti nemici scenderanno da nord, con l'obiettivo di sorprenderci sul fianco. Così stiamo pronti a riceverli.

Ci troviamo a nord del fiume Mat, nella provincia di Xiang Khuang, o almeno così credo, perché sono immerso nella foresta più folta che abbia mai visto e il senso d'orientamento è la prima cosa che ho perso.

Lontano, a settentrione, si staglia gigantesco il monte Pan, alto più di duemila metri, a sud-est del quale è acquartierato un contingente governativo di tutto rispetto, nella cittadina di Ban Huayxay. Da è partito il rastrellamento a tenaglia, fino a penetrare nelle strette valli, incassate fra le montagne.

L'attesa è snervante. Le avanguardie nemiche, avvistate ad alcuni chilometri di distanza, procedono con estrema cautela. Giunge la notizia che la loro direzione di marcia è più giù del nostro schieramento: dobbiamo spostarci in fretta. Scendiamo più a sud per alcuni chilometri, senza avere modo di scegliere i percorsi più sicuri. In fila indiana, ottanta ragazzi in corsa contro il tempo, carichi di armi e munizioni, il cuore che batte forte. Quando ci fermiamo non ho più fiato, l'umidità è spaventosa, sembra di respirare a vuoto. Ci appostiamo su un dirupo che domina la boscaglia.

Pochi attimi ancora, poi gli interrogativi avranno risposta. Mi passano davanti agli occhi gli amici lasciati a casa, i genitori e i fratelli. Immagino cosa ha provato Cito, a Ca' di Guzzo, quando è saltato fuori sparando all'impazzata gli ultimi colpi, per salvarsi la vita. Nemmeno in cent'anni troverei quel coraggio.

Le mani tremano. Il comandante Li se ne accorge, sa che sono al battesimo del fuoco. Fino ad ora abbiamo affrontato solo scaramucce: poche fucilate dalle due parti. Ma questa volta sarà diverso. Li avremo davanti, nel mirino dei fucili per abbatterli prima che reagiscano.

Si avvicina e col tono rassicurante dice: «No paura. Tu colpire, loro cadere

Anche loro sono di carne e ossa: una fucilata ben assestata e cadono a terra come tutti.

Un'attesa interminabile, ma alla fine eccoli. Avanzano cauti.

Li ha ordinato di aprire il fuoco solo quando saranno a portata delle armi più leggere, cinquanta-sessanta metri. Si apposta dietro di me e appena spuntano dal fitto della vegetazione indica una squadra di otto-dieci che avanza più veloce per piazzare una mitragliatrice con treppiede in posizione protetta. E' un'arma micidiale, se collocata bene, capace di falciare un lungo tratto di giungla.

Abbasso la testa di lato, alla sinistra del mitragliatore, la mano destra sulla cassa, premendo in basso con forza, perché non salti via, la sinistra stretta sull'impugnatura.

L'indice preme il grilletto e il fuoco investe gli uomini delle Forze Speciali mentre sono ancora in fila.

Almeno cinque barcollano, cadendo in vari punti.

Scarico la seconda raffica sui due addetti alla mitragliatrice, fino a esaurire il caricatore. Si accasciano tra le urla mentre intorno si scatena l'inferno.

Ho mirato al ventre, la parte molle del corpo, per prenderne più di uno con una raffica.

Il rumore degli spari mi assorda del tutto. I compagni muovono le labbra e solo dall'espressione dei volti intuisco ordini rabbiosi, accompagnati da colpi e gesti della mano verso il bersaglio da colpire.

Sdraiato al mio fianco l'aiutante mi passa i caricatori uno dietro l'altro. Proiettili traccianti, per orientare i colpi ad ogni tiro e migliorare la mira. Non vedo altro che lo stretto angolo davanti a me e sparo su tutto ciò che si muove.

Poi, improvviso, il silenzio.

Quanto tempo è trascorso? Un'ora, due?

Non possiamo essere certi del loro ripiegamento, può essere un trucco per farci uscire allo scoperto. Rimaniamo appostati alcune ore, pronti a far fuoco. Solo quando gli stormi di uccelli tornano a posarsi sugli alberi, abbiamo la conferma che si sono ritirati.

Ho perso la nozione del tempo, ma quando mi rialzo sono trascorse almeno otto ore da quando ho premuto il grilletto. Intorno a me un tappeto di bossoli.

Nel raggio di fuoco del mitragliatore giace una decina di ragazzi.

I cadaveri adagiati sull'erba, irrigiditi nelle pose più strane, perfino ridicole. Sul volto, lo stupore della morte improvvisa.

Sfinito, stordito. Sto per svenire e i timpani mi fanno un male d'inferno. Ma non c'è tempo da perdere. E' pericoloso restare qui. Una rapida ricognizione: abbiamo perso nove compagni e alcuni sono rimasti feriti. Per fortuna non sono gravi e possiamo trasportarli. Le perdite nemiche ammontano a più di trenta cadaveri, tra cui due istruttori occidentali. I loro feriti agonizzano a terra e si lamentano.

Li freddiamo sul posto, come ci hanno insegnato.

 

La marcia di ritorno al campo base è massacrante. Carichi delle armi dei morti e dei nemici, camminiamo tutta la notte, con brevi soste per riprendere fiato.

Quando arriviamo a destinazione siamo stravolti dalla fatica, ma fieri di noi stessi. Abbiamo impedito ai nemici di intercettare la colonna di rifornimenti che transitava a est della nostra posizione.

 





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