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Sentieri dell'odio
(Merda!)
Una volta rientrati al campo mi accorgo di
essere fetido e bagnato. Non è la diarrea dei giorni scorsi, è stata la
paura: mi sono cagato addosso durante il combattimento.
Passo il giorno seguente a ripulirmi ed è
un'impresa ciclopica, perché mi si è seccato tutto nei pantaloni. Devo
scrostarli col pugnale e la sabbia e lavarli con l'acqua.
I compagni indicano un punto del
torrente sottovento, contorcendosi dalle risate. Rido anche più di loro. Ho
salvato la pelle, non è il caso di offendersi.
So che posso realizzare il proposito fatto
nella bottega di Toni e falgném. Sto facendo la mia parte, come promesso a quei
vecchi antifascisti.
Per alcuni giorni possiamo riposarci e ho
modo di ripensare a tutto quello che è successo.
Sono stato catapultato a 18.000 chilometri
da casa, nel cuore di una foresta vergine, nel bel mezzo di una guerra tra
governativi e gruppi comunisti.
Il ricordo del percorso che mi ha
scaraventato qui è ancora nitido. Il Tupolev sgangherato che mi ha sballottato
per migliaia di chilometri; la pista malmessa, di lamiere, residuato
dell'ultima battaglia francese nel Nord Vietnam, sulla quale siamo atterrati.
L'autocarro militare che ci ha portati per giorni su sentieri sconnessi, centinaia
di chilometri, fino a sud del fiume Luòng, al confine tra Vietnam e Laos
centrale. Un luogo selvaggio, ma servito da una rotabile che collega piccole
città immerse nella foresta. E poi la sensazione di impotenza, quando i
vietminh ci hanno consegnato ai partigiani dei gruppi estremisti, con a
capo l'istruttore cinese Chung Li. E ancora i soldati vietnamiti
che hanno abbandonato le divise per vestire l'abito scuro dei contadini
laotiani e inoltrarsi con noi su piste immerse nel verde.
Il comandante Li è un omino di un metro e sessanta,
ma da non sottovalutare. La lunga esperienza di combattente lo ha trasformato
in un discreto poliglotta e si arrangia con quasi tutte le lingue. E' un
veterano della Lunga Marcia di Mao Zedong e da allora non ha mai smesso di
combattere per il comunismo e la libertà dei popoli asiatici. Ma questa
esistenza lo ha provato. La sua faccia è segnata dalla guerra, il fisico minato
dalla malattia e dallo sforzo. Eppure è un personaggio magnetico, con lo strano
potere di tranquillizzarti anche davanti al pericolo più grande.
Prima che ci fossero consegnate le armi ci
ha spiegato che tipo di guerra avremmo affrontato.
Saremmo stati divisi in gruppi di
sessanta-ottanta uomini, armati ed equipaggiati per gli assalti nella giungla.
Noialtri pochi europei saremmo stati smistati in gruppi differenti, mescolati
ai laotiani. Il comandante Li non vuole che si crei uno spirito di corpo
separato, sulla base dell'etnia. Io però ho ottenuto di essere assegnato allo
stesso gruppo di "Budrio". Ho convinto il comandante Li a non
lasciarlo senza la presenza di un connazionale, spiegandogli che è un tipo un
po' tocco. Gli è stata assegnata la mansione di addetto alle munizioni:
ricaricare le armi e reggere i nastri dei proiettili durante gli scontri.
Il nostro compito è quello di scortare le
spedizioni di rifornimenti che dalla Cina, tramite il Vietnam del Nord, devono
raggiungere l'organizzazione clandestina nel Sud.
I rifornimenti vengono inoltrati nel
territorio laotiano attraverso il Napaē Pass e il Mu Già Pass. Da lì devono
scendere attraverso il Laos lungo il versante occidentale della catena
Annamitica, superare il 17° parallelo, quindi valicare di nuovo le
montagne per entrare nel Vietnam del Sud. Il Laos è un passaggio obbligato per
sostenere la guerra in tutta l'Indocina meridionale.
Il transito di uomini, materiali e
medicinali dura sei, sette settimane, se non ci sono scontri (cosa quasi
impossibile sulle piste del Laos). Per farli giungere fino al delta del Mekong,
attraverso la Cambogia, possono occorrere fino a tre mesi.
Ora però siamo nel pieno della stagione
umida e quindi gli spostamenti saranno limitati. Piove quasi tutto il
giorno, il terreno diventa un pantano, si sprofonda fino al ginocchio ed è
impossibile marciare. Saremo più che altro impegnati a mantenere
"libera" quest'area dalle forze governative, affinché il canale col
Vietnam del Nord rimanga aperto.
Chung Li ci ha parlato anche dei nostri
nemici. Avremo contro l'esercito governativo laotiano, ma soprattutto
le tribù Hmong armate e addestrate dai veterani della Legione Straniera e
dalla cia. Per distinguersi da
loro, i Hmong che stanno dalla nostra parte li chiamano "meo",
selvaggi. Sono guerrieri fieri e spietati, ferocissimi, abili combattenti nella
giungla. E non fanno prigionieri.
Siamo inquadrati in un gruppo comunista che
non dipende dal Pathēt Lao. Quello del Pathēt Lao è un
esercito contadino che tiene il possesso di alcune regioni, per coltivarle. La
loro è una guerra di posizione, molto diversa dalla nostra.
L'unica cosa certa è che non ci mancheranno
mai le armi, perché i rifornimenti cinesi e nord-vietnamiti sono abbondanti e
regolari.
Il comandante Li ci ha detto anche che
dovremo adeguarci al modo di combattere del nemico. Non dobbiamo fare
prigionieri. In una guerra senza regole, senza trattati e senza retrovie, non
servono a niente. E dovremo essere pronti anche a uccidere i nostri feriti più
gravi. In un terreno insidioso e selvaggio, soffrirebbero senza alcuna speranza
di salvezza. Inoltre, se cadessero nelle mani dei Meo, subirebbero torture
tremende, prima di morire.
I laotiani del mio gruppo sono ottimi
combattenti, piccoli e agili. Sono anche molto pudichi: nonostante si sia
luridi per la maggior parte del tempo, hanno vergogna di ogni rumore prodotto
dal corpo. Le mie scoregge sonore, che risuonano in queste valli, provocano
risate incredule e il momentaneo sbandamento della fila indiana. Ho scoperto
anche che non sanno sputare: i miei scaracchi li lasciano stupefatti. Anche se
riusciamo a scambiare appena poche parole, tra me e loro si è creato un buon
rapporto e so che posso fidarmi. Il pericolo rende fratelli.
Budrio continua a favoleggiare della sua
"gran figa", quella che avrebbe lasciato a casa. Io traduco i suoi
racconti nel mio inglese approssimato e tutti quanti ridono a crepapelle quando
si vanta di clamorose imprese erotiche. Sono gli unici momenti di quiete. Ho
deciso di restare vicino a lui perché mi ricorda i miei fratelli tisici. Non
può averne per molto. Però in combattimento ha dimostrato molto sangue freddo:
sembra che non abbia paura di morire. Forse è davvero venuto quaggiù per
trovare una morte dignitosa.
Non si lava mai, nemmeno quando è possibile
farlo. Dice che lo sporco protegge dalle malattie.
«Un mio amico che non aveva mai lavato il
motorino, quando dopo tanti anni l'ha pulito, ha scoperto che sotto lo sporco
era ancora nuovo!»
Trattengo le risate e lo guardo mentre si
aggira per il campo, magro e allampanato, le orecchie a sventola e l'aria
tonta, e penso a che razza di vita deve avere avuto. Ha detto che viveva in una
specie di capanna, in una zona insalubre, laggiù nella Bassa. E infatti, da
uomo di valle, è un abilissimo pescatore. Gli basta mettere le mani in acqua
per tirare su del pesce. I laotiani lo ammirano molto per questo.
Ogni tanto, quando montiamo di guardia e
rimaniamo a osservare la luce del crepuscolo che diminuisce pian piano, lo
scopro con lo sguardo perso nel vuoto, rapito dalle sue fantasie amorose. E nel
silenzio più assoluto lo sento mormorare: «Eh, la figa…»
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