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(Un esercito di bambini)
Giorni di relativa quiete al campo. Ci
riposiamo, oliamo le armi e le controlliamo più volte. Lubrifico una ad una le
pallottole, in modo che dal caricatore slittino veloci nella camera di scoppio.
Penso che finalmente sono arrivato dove volevo. Dove non c'è spazio per chiacchiere
e discorsi da bar, fra una briscola e un tresette, fatti da quelli che
si fanno passare per "duri" a guerra finita. Qui si può solo
combattere ed essere uccisi.
I compagni mi terrorizzano parlando di
serpenti e della morte atroce provocata dal loro morso. Ho più paura dei
serpenti che dei nemici, un terrore cieco, e se potessi scegliere, farei
volentieri a cambio. Quando devo cagare sono nel panico: anche solo l'idea di
calarmi i pantaloni ed esporre tutto quanto mi fa rabbrividire. Il morso di un
serpente nelle parti intime non è una fine granché dignitosa. Per fortuna i
torrenti non mancano e così mi arrangio, che si sia fermi o in movimento, la
faccio solo quando sono a mollo fino alla cintola. La faccio nei pantaloni e
poi ci pensa la corrente.
La puzza di merda che mi porto addosso ha
smesso di essere un problema dopo i primi giorni nella giungla. Non ci si fa
più caso, anzi, i compagni dicono che aiuta a confondere l'olfatto dei Meo.
La bestia più disgustosa invece è la sanguisuga.
Te le ritrovi appiccicate addosso dopo aver guadato i fiumi: ti succhiano il
sangue finché non diventano tonde e si lasciano cadere a terra,
lasciandoti una piaga sanguinolenta difficile da rimarginare e sempre a rischio
di infezione.
I compagni mi insegnano anche a riconoscere
i reparti nemici dalle torture che infliggono.
Le Forze Speciali usano per lo più i pugnali
arroventati, una firma indelebile del loro passaggio.
Le milizie sud-vietnamite che sconfinano,
preferiscono invece la tortura dell'acqua. Dopo aver legato il prigioniero mani
e piedi dietro la schiena, lo fanno sdraiare, gli legano un panno intorno alla
bocca in modo da tenergliela aperta e poi ci versano l'acqua dalle borracce,
fino a soffocarlo.
Lo stesso fanno alle ragazze che trovano con
le armi in pugno. Con la variante che mentre le soffocano, le violentano, in
modo che i loro contorcimenti provochino l'orgasmo al soldato che le possiede.
Il consiglio del comandante Li è chiaro come
il sole. Tenere sempre un paio di pallottole fuori dal caricatore. Piuttosto
che cadere prigionieri, è meglio spararsi alla testa.
L'ordine arriva improvviso. Correre
veloci verso sud. Uno dei nostri gruppi è stato attaccato da forze superiori, a
circa dodici chilometri da dove ci troviamo. Dobbiamo raggiungerli prima che
vengano annientati. Non c'è tempo da perdere: quelli che sono venuti a chiedere
aiuto ci guidano nella foresta.
Arriviamo sul luogo dello scontro
all'imbrunire. Il combattimento è in una fase di stallo. Anche i nemici hanno
bisogno di riposo. Il silenzio è interrotto da qualche raffica solitaria,
dall'una e dall'altra parte.
Prendiamo posizione assieme ai compagni allo
stremo delle forze. Hanno subito molte perdite e i feriti non si contano. Gli
illesi sono storditi dalla fatica e dalla tensione. La situazione è disperata.
Il comandante Li ordina di rilevarli, non
possono continuare a combattere, e gli intima di raggiungere la nostra base
provvisoria insieme ai portatori. Alcuni di loro piangono, abbracciando i
cadaveri dei compagni che non vogliono lasciare in pasto agli animali della
foresta. Mentre li strappiamo via a forza da quei corpi ho lo stomaco stretto
in una morsa.
La notte trascorre tranquilla, ma alle prime
luci dell'alba cominciano i tiri sulle nostre posizioni. Li ci ordina di
rispondere solo con qualche raffica e poche fucilate, per far credere ai nemici
di avere ancora di fronte la compagnia decimata del giorno prima. Ma quando il
sole si alza, il combattimento ha davvero inizio.
A piccoli balzi guadagnano terreno. Il sole
ci acceca. Il loro comandante non è uno sprovveduto: ha aspettato che avessimo
il sole negli occhi per attaccare.
Serve una contromossa. Li ordina a dieci dei
nostri di tenere la posizione, sparando senza tregua, per far credere
all'ufficiale nemico che si tratti dell'ultima difesa disperata, e a noi altri
di ritirarci di lato, su un rialzo del terreno che ha scelto ieri sera,
in modo da non avere più il sole davanti.
I compagni che li hanno tenuti impegnati
arrivano trafelati. Hanno resistito finché hanno potuto.
Improvvisiamo una linea di difesa,
appostandoci dietro ai grossi tronchi e negli anfratti del terreno.
Aspettiamo. Il cuore in gola. Se il trucco
di Li è riuscito i governativi dovrebbero credere che ci siamo sganciati e di
poter rastrellare il terreno senza grossi rischi.
Li vedo comparire come fantasmi dalla
giungla, silenziosi, stretti nelle tute mimetiche, e inoltrarsi
nell'avvallamento sotto di noi. Dobbiamo aspettare di averli tutti a tiro.
L'ufficiale che li guida si ferma a metà dell'avvallamento.
Guarda attorno, come se annusasse l'aria.
Buona parte dei suoi uomini è già allo
scoperto.
Forse intuisce qualcosa, perché dà l'ordine
di ripiegare.
In quell'istante apriamo il fuoco tutti
quanti.
Li bersagliamo con tutto quello che abbiamo,
li vedo correre terrorizzati in mezzo al fumo degli spari, abbandonano le armi,
e sento le urla. Ma non sono come le altre. Sono urla di bambini.
Li ordina subito di cessare il fuoco.
Il fumo si dirada, compaiono i cadaveri.
Quelli che a settanta metri sembravano
uomini sono ragazzini di non più di dodici anni che ora giacciono stesi nella
radura.
Rimango di pietra. Li dice di non sparare
più e di lasciare che i superstiti raccolgano i loro morti.
Non parliamo. Li osserviamo annichiliti
mentre si ritirano.
Dall'alto della collina opposta ci raggiunge
l'urlo del loro comandante. L'eco rimbalza nella gola incassata tra le
montagne. Lo vedo: braccia al cielo, il sole alle spalle che
proietta sulla valle l'ombra gigantesca. Chiedo ai compagni cosa sta gridando e
mi fanno capire che l'ufficiale ci ringrazia per l'umanità dimostrata verso i
suoi soldati.
Tutto il nostro gruppo si inchina in segno
di deferenza.
Io con loro. Lo stomaco contratto e gli
occhi gonfi di lacrime.
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