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(Cambio di strategia)
Dopo quei primi scontri, con perdite di
uomini e materiali, e visto l'approssimarsi della stagione secca, i reparti
governativi decisero di cambiare strategia.
Niente più rastrellamenti, che li esponevano
alle nostre imboscate. Crearono gruppi di incursori per azioni di guerriglia,
unità di combattimento "snelle", composte per la maggior parte da
indigeni Meo, agli ordini di ufficiali laotiani e mercenari della Legione
Straniera.
Alcuni degli indigeni combattevano ancora
con arco e frecce. Questo non li svantaggiava affatto. In una guerra
ravvicinata come è quella nella giungla, la precisione letale delle frecce
avvelenate non aveva niente da invidiare alle armi automatiche. Gli bastava
ferirti anche solo di striscio per metterti fuori combattimento: il veleno
paralizzava l'arto colpito e causava una morte lenta e orribile.
Quel cambio di strategia mise in crisi il
nostro comando. Con attacchi rapidi e mirati, potevano colpirci e scappare
senza darci tempo di reagire. Sarebbe stato uno stillicidio lento e
inarrestabile. Era necessario riorganizzare i reparti e adattarsi al nuovo tipo
di guerra.
La tattica adottata fu la stessa del
generale Giap contro giapponesi e francesi: piccole unità mobili disseminate
nella foresta e staffette con perfetta conoscenza del terreno.
Ognuno dei nostri gruppi fu diviso in tre
sottosquadre di venti uomini ciascuna, con eguale volume di fuoco, in grado di
dividersi e ricongiungersi in qualsiasi momento. Oltre alle armi in dotazione e
alle munizioni, dovevamo portare un maggior carico di bombe a mano, che fino a
quel momento non avevamo usato molto, dato che eravamo quasi sempre noi ad
attaccare a una distanza superiore a quella del lancio a mano. Le bombe non
erano molto sofisticate: un tubo di diciotto centimetri, diametro di sei,
imbottito di tritolo, con delle scanalature a quadretti sulla superficie. Al
momento dell'esplosione ogni quadretto diventava un proiettile scagliato in un raggio
di cento metri. Insomma, erano pericolose anche per chi le tirava.
Dovevamo abituarci a trasportare più
munizioni, perché avremmo passato molti giorni lontani dai campi base. Questo
implicava anche che non potevamo portarci dietro feriti. O eri in grado di
camminare da solo o restavi lì e all'ultimo della fila sarebbe toccato finirti.
La mia arma, la versione cinese del
mitragliatore Bren, pesava dieci chili e trecento grammi; i dodici caricatori
quattrocentotrenta grammi ciascuno. Nello zaino portavo munizioni e bombe a
mano per altri dieci e più chili e sempre poco cibo. Dopo dieci chilometri di
corsa, il mitragliatore non pesava più dieci, ma quindici chili, dopo quindici
chilometri ne pesava venticinque, più tutto il resto dell'equipaggiamento: canna
di riserva, pistola e pugnale, armi e munizioni tolte al nemico.
Avevamo il compito di colpire e ripiegare
veloci, pronti ad attaccare di nuovo e a trovare rifugio in luoghi
inaccessibili, sottraendoci alla rappresaglia con marce forzate, sempre di corsa,
per sfuggire ai Cobra.
La guerra di Corea, finita da poco, aveva
reso disponibili grandi quantità di aerei e di elicotteri da combattimento.
Tutto quell'arsenale era stato parcheggiato in Giappone, Thailandia, Vietnam
del Sud, Filippine, Birmania, in attesa di essere riutilizzato. Allo stesso
modo, molti veterani della Corea si trovavano ora in Laos e in Vietnam come
istruttori delle truppe governative. Dalle basi della Thailandia, oltre il
Mekong, partivano i raid sul Laos e questo rendeva gli spostamenti allo
scoperto estremamente rischiosi. Il rifornimento non poteva più essere
garantito solo con marce diurne, perché i portatori di giorno potevano muoversi
solo nei tratti di vegetazione più fitta.
I percorsi possibili verso sud, per i
rifornimenti, erano sostanzialmente due. I sentieri a mezza costa, sul versante
occidentale della catena Annamitica, molto facili da individuare e da battere
per l'aviazione nemica; oppure le piste a fondovalle, immerse nella vegetazione
e praticamente "invisibili" dall'alto. Erano però terreni insidiosi,
fitti di acquitrini fetidi e pieni di pericoli naturali. Quando scendevi là
dentro, dovevi raccomandarti l'anima a Tho Cong, la divinità che protegge da
belve e serpenti.
Il lavoro dei portatori riprendeva
all'imbrunire e durava tutta la notte. Il pattugliamento nemico del territorio
dove operavamo era affidato agli elicotteri da combattimento Cobra e ai caccia
biposto a elica, i T28, già usati dagli americani in Corea e concessi al
governo di Vientiane. Se notavano movimenti al di sotto della vegetazione, in
pochi minuti l'area veniva mitragliata e "trattata" con il napalm.
Dovevamo imparare ad abbattere gli
elicotteri con pochi tiri ben mirati, usando le pallottole traccianti ed esplosive.
Ma se da un lato le pallottole traccianti aiutavano a mirare meglio e
incendiavano facilmente gli elicotteri, dall'altro rendevano più facile per i
mitraglieri dei Cobra scoprire da dove gli stavamo sparando.
Dopo i primi Cobra abbattuti, stimarono più
prudente scorrazzare molto più alti e questo migliorò parecchio il nostro
morale. Era più che mai attuale il concetto espresso da Li alcune settimane
prima: «Tu colpire, loro cadere.»
Il percorso nella giungla non aveva niente a
che spartire con quello che avevo visto nei film di Tarzan. I sentieri, quando
c'erano e non eravamo costretti ad aprirli noi stessi coi machete, erano poco
più che spiragli in un muro di vegetazione compatto, alto trenta cinquanta
metri. Là sotto, in quelle "gallerie" verdi, non c'era luce. Di notte
la temperatura poteva avvicinarsi allo zero. Era freddo e buio. Un buio fitto,
in cui procedevamo con una visibilità di pochi metri e dal quale potevano
saltare fuori pericoli di ogni tipo: dalle centoventi specie di serpenti velenosi,
alle tigri, ai nemici in agguato. Quando il sole riusciva ad aprire uno
squarcio nel tetto di rami era abbagliante e causava un enorme sbalzo termico.
Per sopportare lo sforzo e la paura mi insegnarono a masticare le foglie di una
pianta particolare. Tenendone in bocca una pallina non sentivo più la fame, i
sensi si risvegliavano e la fatica era più sopportabile.
Gli scontri ravvicinati nella giungla erano
i più terrificanti, ma per fortuna anche i più brevi. Attaccavano in pochi, in
un punto qualsiasi della colonna, a volte in più punti nello stesso momento.
Sceglievano le loro vittime, colpivano solo quelle, poi scappavano nel
groviglio della foresta. A noi non rimaneva altro da fare che scaricare tutta
la potenza di fuoco di cui disponevamo sui due lati del sentiero e sperare di
colpirne qualcuno. Poi, riprendere inesorabilmente la marcia.
Ai nemici feriti potevi sperare di estorcere
informazioni sugli spostamenti dei loro gruppi e sui loro punti di
ricongiunzione. Quando le ottenevamo, ci spostavamo per intercettarli a nostra
volta e rendergli il servizio. Le controimboscate lasciavano campo libero
all'odio e alla vendetta più sanguinaria. Non avevamo pietà per nessuno di
loro.
Il comandante Li non voleva che torturassimo
i prigionieri. Dovevamo distinguerci dai nemici, e in certi casi risparmiavamo
i prigionieri che accettavano di collaborare e li integravamo nelle nostre
squadre dopo una rapida "rieducazione". Il trattamento consisteva
nell'esposizione paziente dei fatti storici che avevano trascinato il popolo
Lao alla guerra fratricida: il colonialismo e il dominio occidentale sulla
penisola che proseguiva anche dopo l'indipendenza. I francesi erano arrivati
quando i loro nonni erano giovani, settant'anni prima, si erano impossessati di
tutto, avevano devastato i santuari, offeso le tradizioni. Avevano ucciso gli
uomini più coraggiosi che li avevano contrastati. Avevano violentato madri e
sorelle e ingannato le più fragili, trascinandole nei bordelli di lusso, per i
signori d'Occidente e per i ruffiani locali. Avevano sconvolto il loro mondo.
Spesso questi discorsi facevano aprire loro
gli occhi, spazzando via la propaganda governativa filo-occidentale che ci
dipingeva come mostri sanguinari. Quando capivano di aver combattuto e ucciso
dei fratelli che lottavano per il loro paese, la reazione era disperata e
straziante. Ma da quel momento sapevamo che ci sarebbero rimasti fedeli per
riacquistare l'onore perduto.
Con i giovani Meo non funzionava quasi mai.
Preferivano la morte, piuttosto che tradire i loro signori e niente poteva
convincerli. Quando uno di loro cadeva nostro prigioniero sapevamo di non
potergli cavare nulla.
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