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Vitaliano Ravagli -Wu Ming Asce di guerra IntraText CT - Lettura del testo |
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56 Da Riolo Terme a Urbino, 9 maggio 2000
L'avvocato è uno puntuale. L'ho capito subito, un ragazzo in gamba, preciso, gli dài un appuntamento e lui non sgarra, magari arriva con la faccia stropicciata di chi si è svegliato mezz'ora prima e ha guidato in coma profondo, ma stai sicuro che arriva, gli fai un caffè ed è subito come nuovo. Da quando ha scoperto che sono il "vietcong romagnolo", come dice lui, ci siamo visti già alcune volte, sempre con la scusa di una buona mangiata, perché per raccontare una storia, dall'inizio alla fine, non c'è miglior sottofondo del rumore di mascelle che masticano e inghiottono. E anche oggi, ci si può scommettere, andrà a finire che ci mettiamo a tavola in qualche bel posto, con tanti saluti alla dieta e ai chili di troppo, che ormai quando mi specchio nelle vetrine, in giro per Imola, vedo arrivare prima la pancia poi tutto il resto. Ma l'occasione, questa volta, non è soltanto gastronomica: è successo che Bruno Sartori e Lido Valdré, due miei amici professori, mi hanno invitato all'Università di Urbino. E' stato Luigi Alfieri, docente di antropologia, a sollecitarli per avere una testimonianza sulla guerra e, come dice il volantino, sulle "motivazioni psicologiche e culturali della violenza". Zani dovrebbe passarmi a prendere verso le nove. Alle nove e un minuto suona il campanello, mi affaccio alla finestra, è lui, si è messo addirittura la giacca, una camicina intonata e gli occhiali neri da sborone. «Ma guarda se è elegante il nostro avvocato! Fatti vedere bene, va là. Quand'è che vai un pochino al mare a prendere del sole? Sei pallido che sembri un morto. Devi dormire un po' di più, invece che andare sempre in discoteca a pasturare.» Sorride e scuote la testa, fa lo schivo, ma vuoi che non lo sappia? Con le nuvole che ci sono oggi, gli occhiali scuri servono a nascondere le occhiaie, mica pugnette. «E te Vitaliano, come andiamo, sei emozionato?» chiede con quel suo tono ironico, quasi sfottitorio. «Emozionato? No, emozionato no. Direi piuttosto eccitato, ecco, godo come una puttana. Pensa che io ho preso la licenza con le scuole serali e oggi vado a parlare all'università. Non è una bella rivincita?» Non risponde, schiacciato sul volante a studiarsi i cartelli della rotonda di Riolo. «Prendi di qui» indico col dito «verso la via Emilia, che poi così andiamo per l'autostrada. Però prima ci fermiamo a Cuffiano, che voglio farti vedere dove stavo durante la guerra e ci prendiamo anche un bel caffettino, che tu ne hai bisogno di sicuro.» D'accordo, mi fa, imbocca la Casolana e fila sul rettilineo verso la pianura. Quando gli dico di rallentare e fermarsi, fa una faccia strana. «Cuffiano è questa qui? Davvero?» «Certo, non hai letto il cartello?» «No, no, mi fido, è che ci siamo fermati qui anche con e Fatór, la volta che siamo andati a Castagno» e dicendo così fa una smorfia divertita, che non è per la coincidenza, figuriamoci, dev'essergli passato qualcos'altro per la testa. Parcheggia di fronte a una pila di mattoni, e scende di corsa, come se perdesse il treno. «Allora questa è Cuffiano, no? Devi farmi vedere tutto quanto: casa tua, la riva del Senio, dove stavano i tedeschi…tutto. Tanto un po' di tempo l'abbiamo, no? Bisogna essere là per le undici…» Lo osservo stupito. Non capisco cosa sia successo, si è svegliato di colpo, senza neanche bisogno del caffè. Sarà mica che prende di quelle pastiglie? Cuffiano è un paesino di dieci case, e il grosso è venuto giù coi bombardamenti. Ci si mette tre minuti a fare tutto il giro: c'è qualche muro con ancora i segni delle mitragliate, c'è la casa di contandini dove stava il cuoco Hans e il sentiero che porta giù al fiume, quello da cui passò Geppi, il giorno che con le mie pecore gli salvammo la vita. Resta il tempo per fare un salto anche giù, sulla riva del fiume, che da allora però è molto cambiata. Non potresti dire di preciso dove stava il nostro rifugio, perché qua è franato tutto, e prima invece andava su quasi dritto, a precipizio. Però mi ricordo bene il punto da cui sparavano i polacchi e i campi che abbiamo attraversato per passare le linee, quel giorno di febbraio. Sono lì, immerso nei pensieri, quando salta fuori un cane grosso e incazzato, che abbaia a denti scoperti, e se non fosse per il padrone che lo richiama e lo blocca, ci salterebbe alla gola volentieri. «Cosa state cercando qui? Non avete visto la rete? Questo è il mio posto, è proprietà privata.» «E dove sta scritto?» chiede pronto l'avvocato, con già le palle girate. «Su, sulla strada, c'è il cancello, la recinzione.» «Noi non abbiamo visto nessuna recinzione» ribadisco «su è tutto aperto, e il suo cane è piuttosto pericoloso.» «Pericoloso? Ha già morsicato mezzo paese!» L'avvocato vorrebbe ribattere, dev'essere deformazione professionale, ma io non ho voglia di litigare e lo precedo. Spiego come mai sono sceso fin lì, gli dico del rifugio e della guerra, e a quel punto ci farebbe anche passare, ma di là è tutto un groviglio di felci e rovi, e un sacco di bisce e vipere di sicuro. Così decidiamo di tornare verso la strada, armati di bastoni, perché nel frattempo ci viene incontro un montone dall'aria truce, mentre dietro c'è ancora il cane che abbaia. «Guarda bene ve'» commento col fiato grosso «è strana la vita, va a finire che mi sono salvato in Laos e vengo a morire qua sbranato da un cane e incornato da una capra, dove cinquant'anni fa sono scampato ai proiettili e alle granate di due eserciti.» Terminata l'avventura, ci infiliamo nel bar e ordiniamo i caffè. «Allora Vitaliano» attacca l'avvocato prosciugando la tazzina in un sorso «non mi hai mica risposto, l'ultima volta: pensi di scrivere un libro con le tue memorie oppure no?» «Eh, un libro. Non è mica facile. Per il momento sto facendo una specie di test. Racconto tutta la storia ad alcuni amici che non ne sapevano niente e vedo che faccia fanno. Perché, capisci, il problema è che di tutta la questione del Laos, non avevo mai parlato quasi a nessuno. Lo sapevano quei pochi che sanno tenere un segreto, e basta. Allora adesso bisogna andare con calma. C'è chi si interessa subito, come Bruno Sartori, ma c'è anche chi mi guarda come se mi fossi rincoglionito tutto d'un colpo.» «Insisto, il mio parere lo sai: è una storia troppo bella per non raccontarla anche fuori da Imola.» Ringrazio per l'affetto, pago i due caffè, con l'avvocato che fa la solita scena e io lo devo bloccare e rimettergli il portafoglio in tasca, che qui siamo a casa mia, eccetera. Arrivati alla macchina, invece di salire, si guarda intorno sospettoso, poi fa una smorfia di delusione, anzi, di disappunto, come di chi prende buca a un appuntamento. Si mette al volante, innesta la marcia, urta qualcosa col parafango e sgomma verso la statale.
Quando arriviamo alla Facoltà di Sociologia, gli altri sono già lì che aspettano, i tre professori più mio fratello Cico, che è sceso con loro e dovrebbe fare l'intervento subito prima di me. Guardo l'orologio e mi accorgo che siamo in leggero ritardo, presento Zani a tutta la banda e ci avviamo in fretta verso la Sala Lauree. Nell'atrio, intravedo due o tre manifesti che ricordano l'appuntamento. "Nell'ambito delle attività della Cattedra di Antropologia…sarà presente…presiede il prof…intervengono…si ritiene che possa avere interesse scientifico per quanto riguarda le motivazioni psicologiche e culturali della violenza…studenti e docenti sono invitati…" A quanto pare, le motivazioni psicologiche e culturali della violenza non sono argomento scientifico di grande richiamo. L'aula è troppo imponente, d'accordo, ma gli spettatori saranno sì e no una decina, compreso Zani. Ma dico io: non si poteva obbligarli a venire, ‘sti ragazzi? Cosa ci vuole: dài l'annuncio e dici che chi non viene sarà bocciato all'esame, vuoi vedere che riempi la sala? Il quarto d'ora accademico trascorre in fretta, bisogna cominciare. Parlano prima Alfieri e Sartori, poi mio fratello. Io per ultimo, gran finale a sorpresa. Cico fa un bel discorso, la mette giù bene, dice che la guerra sembra sempre lontana, come qualcosa che non ci riguarda, anche se l'abbiamo avuta sull'altra sponda dell'Adriatico fino a un anno fa. Invece, dice, non si può stare tranquilli, ci sono due miliardi di affamati che pretendono delle risposte, e se continuiamo a far finta di niente, presto se le cercheranno da soli e allora la guerra potrebbe essere molto, troppo vicina. Il pubblico applaude. Tocca a me. Racconto tutta la storia, condensandola il più possibile, in una ventina di minuti. Alla fine si alza un ragazzo sui trent'anni, tutto fighetto, che solo a guardarlo mi pare un patacca. Fa un intervento contorto, che a lui deve sembrare geniale, in realtà si capisce ben poco, una roba tra il cattolico e il pacifista, con citazione di studiosi sconosciuti e dulcis in fundo, domanda del cazzo: «Insomma, signor Ravagli, lei ha ucciso delle persone?» Complimenti per la perspicacia: «Certo, ne ho uccise parecchie.» «E non si sente un assassino?» Mi sistemo sulla sedia per prendere tempo. Cosa devo fare? O sto zitto, e allora sono venuto per niente, o rispondo e so già che mi incazzo. Tanto vale animare il dibattito. «Guarda, ti do del tu perché mi stai facendo incazzare e quando mi arrabbio non so dare del lei a nessuno. Devi sapere una cosa: in guerra non si gode. Non si gode a mettere a rischio la vita e non si gode nemmeno a uccidere, anche se tu pensi che siccome uno ammazza allora è un sadico di sicuro. Invece no, ammazzare le persone non è una cosa piacevole, eppure io ti dico che non ne ho fatti fuori abbastanza, di quelli là.» Il professor Bruno Sartori, quello che mi ha invitato, non appena tiro il fiato prova a metterci una pezza. «Ho l'impressione che lei non abbia ascoltato bene quello che ha detto Ravagli, perché se lo avesse fatto si sarebbe reso conto del rimorso che lui si porta dentro…» «No, no, no, quale rimorso? Io sono dispiaciuto che si debba uccidere per delle cose del genere, per difendere le proprie idee, ma questo non vuol dire che se tornassi indietro non lo rifarei, anzi, cercherei di fargli più male, gli sbullonerei il culo con la baionetta cinese, che è dritta e stretta come un cacciavite.» Butto uno sguardo sulla platea: un paio di studentesse fanno tanto d'occhi. Allora decido che è inutile metterci della vaselina, meglio venir giù duri e dire le cose come stanno, che almeno chi è venuto se ne ricordi per un pezzo. «Vedete» riprendo fissando una delle ragazze dritto negli occhi «io con i miei nemici ci ho fatto delle scatolette Simmenthal. Allora voi inorridite, pensate che sono un bruto, un assassino, un sadico. Ma io ho visto gente che violentava delle ragazzine di nove anni aprendogli la vagina con un coltello, su fino all'ombelico, per poter passare meglio. Dopo, quando metti le mani su uno così non ci stai tanto a pensare, a quanto è bella la pace e a quanto è brutta la guerra.» una ragazza si alza di scatto ed esce di corsa dalla sala. «Io voglio vedere cosa fareste voi…Tu per esempio, che fai quella faccia…adesso ti prendo e ti lascio dodici anni a fare la fame, in una casa che non ci terresti neanche il tuo cane, con i tuoi fratelli che stanno male, tua madre in ospedale, i bombardamenti sopra la testa. Oppure ti faccio trovare le tue sorelline violentate e squartate, ti metto in mano un kalashnikov, poi ti porto il responsabile. Voglio vedere cosa fai.» Non risponde. Ma non è mica una domanda retorica, voglio proprio che mi dica cosa farebbe, sentire con le mie orecchie se anche lei ha il coraggio di chiamarmi assassino. Allora insisto. «Dico con te, sì, proprio con te. Cosa faresti in quel caso? Eh? Dimmi un po'?» Diventa tutta rossa e sorride, quasi mi dispiace di fare lo stronzo, ma ‘sti ragazzi non possono mica vivere sempre nell'ovatta. Non gli stacco gli occhi di dosso, finché allarga le braccia e con un filo di voce dice: «Eh beh…» Gli faccio il verso, sempre più incattivito: «Eh beh … Ma guarda che basta anche meno: ti porto dai responsabili della strage di Marzabotto, il giorno dopo che è successo…» La faccia che sto fissando cambia d'improvviso. La fronte si increspa nello sforzo, gli occhi si fanno interrogativi. Un sospetto. « Marzabotto! Avete presente la strage di Marzabotto?» Silenzio. Occhiate storte attraversano la sala. I più spudorati alzano le sopracciglia e spalancano la bocca. Nessuno. L'avvocato si guarda intorno come se l'avessero trasportato su Marte a sua insaputa. Mi volto verso i professori, le labbra sempre sul microfono: «Ma cosa gli avete insegnato a questi? Un cazzo!» Poi mi rivolgo di nuovo agli studenti: «Ho una brutta notizia per voi: mi avete fatto incazzare davvero, dio boia, e adesso vi beccate la punizione. Sì, comincio anche a bestemmiare, perché a Imola, quando perdiamo la pazienza, le bestemmie ci servono da punteggiatura, e sistemano tutto.» Prendo fiato, mi sembra di correre i cento metri, la fronte suda: «Sono in pochi a parlarne, ma le vittime della guerra non sono stati solo i morti e i caduti, ci sono anche i bambini, quelli della mia generazione, che avevano sei anni quando è cominciata e dieci quando è finita. Voi mica ne avete idea, andate in crisi per una gomma forata, dio boia, o quando la mamma non vi dà i soldi per la discoteca. Io ho vissuto in una casa dove faceva freddo, che voi non sapete nemmeno cosa vuol dire, l'unico riscaldamento autonomo erano le scoregge. Mi sono beccato le Brigate Nere per la strada, le Brigate Nere, mica quelle Rosse, quelli in confronto erano dei patacca. Tanti ragazzini hanno vissuto tutto questo e voi nemmeno vi sforzate di capirci qualcosa, sono cose successe cinquant'anni fa, mica cinquecento. A Marzabotto hanno cancellato la popolazione di un paese, più di milleottocento persone, così, per rappresaglia. E se non sapete niente di Marzabotto di certo non sapete neanche del Pozzo Becca di Imola, e allora state studiando per niente, e avete fatto male a invitarmi, perché delle cose che dico non potete capirci un cazzo, e infatti, tanto vale che chiudiamo, così me ne vado e qua non ci metto più piede.» Può bastare, allontano il microfono e mi lascio andare sulla sedia. Applaudono, ma non capisco nemmeno perché, forse per andar dietro all'avvocato che ha cominciato per primo e ora viene verso di me a pugno chiuso, col solito ghigno ironico, per farmi i complimenti e stringermi la mano.
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