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Vitaliano Ravagli -Wu Ming
Asce di guerra

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  • SECONDA PARTE
    • 57 Sentieri dell'odio (Compagnia di disciplina)
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57

Sentieri dell'odio

(Compagnia di disciplina)

 

 

Tutto come previsto. Rientro clandestino in Italia, treno fino a Bari, recita dello smemorato nel presentarmi all'ufficiale, due o tre giorni in osservazione e provvedimento disciplinare. Non passai nemmeno da casa: se i carabinieri mi pescavano , era diserzione, cinque anni a Gaeta e tanti saluti. Invece, me la cavai. Di certo, contò l'essere finito in una caserma del meridione, dove quel genere di cose erano la norma: ragazzi che non si presentavano o scappavano nel giro di pochi giorni, per aiutare la famiglia, per proseguire i loro traffici o per l'antica abitudine di sottrarsi allo Stato.

Non avevano prove per incastrarmi, non ero nemmeno un po' abbronzato, avevo beccato la stagione delle piogge e nella giungla il sole arriva molto di rado. Ferite, non ne avevo nessuna. C'erano giusto delle stranezze, quelle sì,  ma roba da poco, come i frequenti attacchi di febbre, forse malarica, la grande stanchezza e la difficoltà a mangiare, che a forza di fare la fame mi si era ristretto lo stomaco. Comunque, nel giro di un paio di settimane ero di nuovo in perfetta forma.

Il provvedimento con cui mi punirono fu di assegnarmi a una delle ultime compagnie di disciplina, presso il 21° Genio Pontieri di Trani. In teoria, si trattava di un'istituzione che l'Esercito Italiano aveva abolito. Di fatto, ne esisteva ancora qualcuna: l'addestramento era duro, le esercitazioni pericolose, c'era poco da mangiare e gli ufficiali maltrattavano i sottoposti a ogni occasione.

Tornai a casa solo dopo nove mesi, con l'unica licenza a disposizione. Non rivedevo i miei da più di un anno. Fu una parentesi breve, dodici giorni appena, ma contribuì molto a rendere insopportabile l'ultimo periodo di ferma.

Ci fecero accampare tra Potenza e Benevento, in mezzo a boschi e montagne. La truppa sul fianco di un colle, in mezzo ai sassi e alle vipere, gli ufficiali belli comodi in un avvallamento più in basso.

Tutte le sere, dopo il silenzio, mi andavo a sedere su una grossa pietra, raccoglievo un bel mucchio di sassi e li lanciavo di sotto. Avevo calcolato che se tiravo tra due alberi, ad altezza della cima, ogni volta mi rispondeva l'urlo di qualche ufficiale addormentato. I commilitoni si divertivano un sacco, e anche il capitano l'aveva presa in ridere. Ma io non scherzavo affatto, per me non era il classico passatempo da caserma. Se ne accorse bene Lamberti Vittorio, che una sera mi sorprese con tre bombe a mano al posto delle solite pietre. Dopo tanto allenamento, ero deciso a fare sul serio. Le bombe erano pronte, e credo che l'avrei fatto, se Lamberti non mi avesse bloccato. Ero stufo di quella vita, stufo della prepotenza degli ufficiali, stufo di prendere ordini dal primo stronzo.

«Ravagli, che cazzo fai, sei impazzito? Lo sanno tutti che sei tu il "lanciatore", credi che non farebbero la spia

Mi afferrò per le spalle e mi fissò negli occhi.

Aveva ragione, ero fuori di testa: finché si lanciavano i sassi, pacche sulle spalle e cameratismo, ma per una cosa più grave non c'era da fidarsi. Altro che Gaeta, allora, mi avrebbero condannato a morte e buonanotte. Misi da parte le bombe, insieme alla voglia di vendetta e tornai a dormire.

 

Nei rari momenti liberi, passavo il tempo a suonare la tromba. Da piccolo non conoscevo modo migliore per sfogarmi e non pensare alle sfighe. Crescendo, avevo imparato anche un altro metodo, ma non c'era molto da fare, al di degli assolo, perché le prostitute facevano schifo, le pecore le lasciavo ai pastori e non volevo ridurmi a far cose da busone.

Mi mettevo da una parte e suonavo.

Si accorsero presto che ero bravo, e mi chiesero di fare una serata al circolo ufficiali. Accettai subito: era un'occasione per togliermi di , e sapevo che se avessi fatto bella figura, mi avrebbero richiamato altre volte. Preparai alla perfezione i miei cavalli di battaglia: "Estrellita" e "Oh, Lady be good!". Poi, senza chiedere il permesso a nessuno, mi infilai nelle docce per darmi una pulita e presentarmi al circolo in modo dignitoso.

Avevo appena finito di sciacquarmi e stavo dedicandomi ad altri passatempi, quando il capitano De Carlo Mario mi sorprese alle spalle.

«Geniere Ravagli, chi ti ha autorizzato a venire qui?»

«Capitanorisposi di scatto «devo suonare al circolo, questa sera, e volevo essere in ordine

«Rispondi alla domanda: chi ti ha dato il permesso

Dissi la verità, che il permesso me l'ero preso da solo, perché ero stanco, non ne potevo più di esercitazioni, avevo caldo e volevo farmi i fatti miei.

«Apprezzo la tua sincerità» commentò il capitano dopo un attimo di silenzio. «Bene, allora, sbrigati a finire quello che stavi facendo, per questa volta non ti punirò

Quello che stavo facendo, come detto, era una pugnetta. Terminai l'operazione e andai a vestirmi.

 

Il capitano De Carlo Mario aveva simpatia per me, sebbene fosse un gran fascista, entusiasta della vita militare e fanatico della disciplina. Aveva due medaglie: una d'argento al valor militare e una al valore civile, per avere salvato un ragazzino che stava annegando in un fiume. Non so da cosa nacque la nostra strana intesa, forse entrambi ammiravamo nell'altro l'onestà e la devozione a una causa, per quanto così diversa.

Il colonnello invece non stava simpatico a nessuno. Si era portato dietro tutta la famiglia: la moglie era una gran figa, ma il suo posto non era certo un accampamento di militari, visto che le piaceva andare in giro con poca roba addosso; il figlio invece era viziato come nessuno, faceva il capetto e aveva sì e no sedici anni.

Un giorno, mentre mi preparavo per il turno di guardia alla polveriera e stavo mangiando, questo stronzetto si mette a tirarmi dei sassi nella gavetta. Tic. Io raccolgo e butto fuori. Tic. Gli do una brutta occhiata e non reagisco, avevo tutta la compagnia intorno, dovevo trattenermi.

Tic.

«Adesso basta, eh? Se lo fai ancora finisce male

Lui si alza, viene verso di me, mi sputa addosso e nella gavetta. Bene, cazzo, chi se ne frega se mi guardano tutti, salto su e gli mollo un ceffone. Lui casca per terra, fa una gran scena, perché in realtà l'avevo appena colpito, raccoglie vicino un ramo spinoso e me lo in faccia, una frustata, vicino all'occhio, che per poco non mi acceca. Stavolta si prende un cazzotto bello forte e va giù davvero, mentre la madre, che ha visto tutto, sviene. La soccorre l'ufficiale medico, che, tra parentesi, se la chiavava.

Succede un gran casino, arriva il capitano, si fa spiegare cos'è successo e mi manda a medicare la faccia, che c'ho ancora le spine conficcate dentro.

Il colonnello è fuori di sé. Fa schierare tutto il battaglione, sull'attenti, viene verso di me e mi interroga. Io zitto: quando sei sull'attenti non devi rispondere, è la regola, una di quelle cose che al capitano De Carlo lo mandavano in orgasmo. Il colonnello ripete la domanda, ma io niente, resto impalato, di sasso. A quel punto interviene De Carlo, tutto ringalluzzito:

«Colonnello, se lei non gli il riposo, il geniere Ravagli non può risponderle

Mi danno il riposo: alé, incrocio le braccia sul fucile, voglio dire le cose fino in fondo, senza mezzi termini, altra cosa che piace molto a De Carlo.

«Signor colonnello, sono stato a lungo provocato da suo figlio, che mi tirava sassi nella gavetta. Gli ho detto di farla finita e come risposta lui mi ha sputato. Allora l'ho colpito, piano, a mano aperta, sulla faccia e lui mi ha quasi accecato con un bastone spinoso…»

Il figlio è che guarda e a questo punto si mette a piangere e a urlare che non è vero, pestando i piedi come un bambino.

«E' la sua parola contro quella di mio figlio. A chi devo credere, allora?»

Decido di buttarla sul patriottico: «Ci sono seicento testimoni che hanno assistito alla scena: lo chieda a loro a chi deve credere. Suo figlio mi ha sputato sulla divisa, un gesto che come italiano non posso accettare, ho dovuto difendere l'onore dell'Esercito Italiano e dare una lezione a quel ragazzino, come se si trattasse di un mio fratello minore. E questa è la dimostrazione che la sua famiglia non dovrebbe stare in un posto del genere, e in particolare sua moglie, in mezzo a tanti militari, vestita sempre in quel modo…»

Non ci vede più. Tenta di sfoderare la pistola, ma De Carlo gli blocca la mano, mentre io, un passo indietro, armo il moschetto e glielo punto addosso. Il capitano De Carlo sapeva che tipo ero, e avverte subito il colonnello di non fare cazzate: «Ma cosa fa? Guardi che Ravagli le spara

Poveretto. Ha fatto la figura del cornuto e del coglione davanti a tutti. No, non era un tipo simpatico, ma mi è dispiaciuto per lui, in fondo si comportava così più per colpa della moglie che sua.

Io poi non sono uno che porta rancore per molto tempo. Quando m'incazzo con qualcuno potrei anche farlo fuori, ma mi passa in fretta. Così, l'ultimo giorno, quando il colonnello ci passò in rassegna e si mise a stringere la mano a ognuno, pensavo che tanto valeva dargliela, la mano, era un patacca come tanti. Alla fine, non c'è stata l'occasione: dopo le prime cinque sei strette di mano si è stancato e ha fatto un saluto collettivo: «Fate conto che abbia stretto la mano a tutti…So che questi mesi sono stati duri per molti di voi, ma sono convinto che li ricorderete come uno dei momenti più belli della vostra vita…». Era proprio un patacca, non ci sono dubbi.

Al momento dei saluti, il capitano De Carlo mi fece una strana domanda, così, su due piedi:

«Allora Ravagli, cosa farai adesso, tornerai

Lo fissai negli occhi e mi tornò alla mente la frase che un ufficiale della "Pinerolo" mi aveva sussurrato nei corridoi del circolo: «Stai attento Ravagli, sanno tutto di te…». Allora avevo pensato che si riferisse alle mie convinzioni politiche, ai trascorsi sovversivi, alle amicizie. Ora quell'avvertimento suonava in maniera diversa, dopo il "Tornerai ?" del capitano De Carlo Mario.

Non chiesi nemmeno che cosa intendesse dire. Forse neanche lui lo sapeva, magari voleva soltanto fare il misterioso, immaginando che durante i quattro mesi di assenza dovevo essere stato in qualche posto particolare.

Alla fine risposi che pensavo proprio di sì, anche se non era vero, figuriamoci, mi pareva di aver fatto abbastanza laggiù, ora volevo riposarmi, stare con i miei, ritrovare il mio vivaio di fighe e tornare al lavoro, però dissi così, quasi per gioco, per mantenere l'aria da film di spionaggio e fare contento il capitano De Carlo, che annuì con un gran sorriso e mi strinse nell'ultimo abbraccio

 





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