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Vitaliano Ravagli -Wu Ming
Asce di guerra

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  • SECONDA PARTE
    • 58 Sentieri dell'odio (Eh, dio boia…)
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58

Sentieri dell'odio

(Eh, dio boia…)

 

 

 

Tornai a casa stanco e malridotto, spossato nel fisico e molto confuso.

Ero stato lontano da Imola circa diciotto mesi e già facevo fatica a parlare in dialetto. Avevo perso l'abitudine, le parole mi uscivano con impaccio, e soprattutto non ero più capace di usare un tono di voce normale, mi veniva sempre da gridare, come durante i combattimenti o le esercitazioni.

Per riposare e stare un po' tranquillo, passai una settimana a casa di mia sorella Natalia. Volevo incontrare meno gente possibile: i miei familiari, Teo e pochi altri. Bene o male, tutti sapevano della fuga dalla caserma di Bari e mi chiedevano cosa fosse successo. Io mi sforzavo di essere vago, facevo capire che era meglio lasciar perdere, eh, dio boia, una brutta storia, che volevo dimenticare al più presto. Con mia madre fu più difficile evitare le domande. Le dissi che ero stato preso dallo sconforto, che la vita militare mi faceva schifo e quindi ero scappato, mi ero nascosto sulle montagne e avevo vagabondato per quattro mesi. Non volle insistere, ma si capiva benissimo che il racconto non la convinceva per niente.

Teo fu l'unico a sapere la verità e quello che gli raccontai lo riempì di ammirazione e nostalgia. Era molto contento di rivedermi e orgoglioso del mio coraggio. Purtroppo, il piano di mobilitazione di giovani rivoluzionari verso l'Indocina non stava funzionando granché, perché i ragazzi disposti a correre quel rischio erano davvero pochi.

 

Non appena decisi di farmi vedere di nuovo in giro, mi accorsi che le cose per cui incazzarsi erano ancora più di prima. Ero io ad essermi disadattato o la gente diventava sempre più stronza? Tra l'altro, mi trattavano tutti da marziano, forse perché incespicavo nel dialetto e avevo quella voce sempre troppo alta, oppure per via della misteriosa fuga dalla caserma, o perché i carabinieri erano venuti a cercarmi, o non so io per quale altro motivo.

Anche i fratelli mi guardavano come un tipo strano, uno sgrazié, quasi la pecora nera della famiglia. Ma come? Non ero stato io a farmi un culo così perché avessero da mangiare? Che razza di storia era? Adesso che si stava un po' meglio sembrava non ci fosse più posto per me, neanche ci si vergognasse ad essere parenti di uno così. Che gli era preso a tutti quanti?

Pensai di tornare a lavorare al più presto, mi avrebbe aiutato a distrarmi e a non pensare troppo.

Quando mi presentai in cooperativa, mi fecero festa. Baci, abbracci, pacche sulle spalle. E com'è andato il militare, e cosa vi facevano fare e cos'è questa storia che sei scappato e raccontaci, avanti, non fare il misterioso. Poi mi presento dal direttore e faccio domanda di assunzione.

«Eh, sai» mi fa lui con un ghigno strano «è un brutto periodo, non abbiamo lavoro, bisognerà che aspetti un po', appena le cose vanno meglio…»

Feci uno sforzo per trattenermi. Ormai il primo istinto che avevo di fronte a un torto era sparare. Provai a restare calmo: non gli saltai addosso ma iniziai a urlare.

«Cosa ho da aspettare io? Ho bisogno di lavorare, lo capisci? Sono stato via meno di due anni, non certo per colpa mia, e voi non mi ridate nemmeno il posto? Andate a cagare, che razza di comunisti

Niente, non era cambiato niente. Erano i soliti stronzi: come avevo fatto a dimenticarmene? Purtroppo io non ero più lo stesso: non sopportavo più nulla, se avessi dato retta all'istinto, avrei fatto fuori centinaia di persone, bastava un'inezia a farmi imbestialire, ero sempre teso, sempre nervoso, sempre sotto sforzo per non reagire alle provocazioni in modo violento.

Ecco cosa dovevano aver provato Bob, Teo, Fatór e tutti gli altri. Non è solo che prima eri qualcuno, su in montagna, e in città ritorni ad essere niente, non è nemmeno l'aver perso l'abbraccio fraterno della brigata per ritrovare l'indifferenza di sempre. C'è anche qualcos'altro: uccidere un uomo non è come bere un bicchier d'acqua, ma quando superi quel limite molte volte, ti diventa più facile sparare che discutere.

Non potevo andare avanti così, rischiavo di uscirne pazzo o di combinare qualcosa di grave.

Non c'erano motivi per restare .

Avevo bisogno di combattere ancora e forse di non tornare più indietro.

Ripresi contatto con i milanesi, nella solita locanda, raccontando a mia madre che andavo per un colloquio di lavoro.

Dissi che mi avevano assunto, ottimo stipendio, un'opportunità da non perdere.

Anche questa volta non avrebbe avuto mie notizie per un pezzo e non ci avrebbe messo molto a capire che Milano era solo una balla.

I sentieri dell'odio mi riportavano in Laos.

 





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