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Bologna, 13 maggio 2000, 10.15
a.m.
Piazza Maggiore. Davanti al Sacrario dei
caduti, partigiani presidiano la memoria dei loro morti.
L'amministrazione comunale di centro-destra
ha concesso a un gruppuscolo neo-fascista di tenere a Bologna il raduno
nazionale. All'inizio si era parlato di un corteo e un comizio, poi il Questore
ha capito che la città sarebbe esplosa e ha spostato tutti in una saletta
defilata. Ma ormai la frittata è fatta. Casino garantito. Anche perché da
queste parti, l'antifascismo è l'unica colla rimasta, per i cocci della
sinistra .
I vecchi possono anche sembrare patetici,
con gli stendardi delle Brigate e il fazzoletto rosso al collo, ma quelle facce
sul muro per loro non sono santini: persone che conoscevano, che magari gli
sono morte di fianco, bastava un niente e oggi le parti sarebbero invertite.
Lasciamo stare: i patetici stanno altrove.
Mi aggiro tra le teste canute finché non
intravedo l'inconfondibile berretto di Mirco. E' a ridosso del palazzo e parla
con un coetaneo.
«Oh, ciao, sei venuto allora!»
«Potevo mancare? Eccomi qua.»
«Ti presento Ming, un casalecchiese doc, che era nella Stella Rossa del
comandante Lupo.»
Stringo una mano nodosa. Quanti partigiani
ho già conosciuto?
Mirco è più arzillo del solito, sarà
l'effetto della rimpatriata.
«Allora» gli faccio «come mai tante storie
per incontrarci qui? Non hai più voglia di difendere Bologna dai fascisti?»
Coglie l'ironia e fa un mezzo sorriso
«Magari! Quei quattro balordi meritavano una bella lezione, altroché. Invece,
eccoci qui, buoni buoni… A proposito, là in mezzo c'è anche la foto di Gario,
che salì con me all'Albergo di Cortecchio e poi è morto quando i fascisti ci
hanno attaccati.» Indica il muro del palazzo ricoperto di ritratti dei caduti
«Il mio primogenito l'ho chiamato Gario in sua memoria.»
Ming fa per dire qualcosa, ma la tosse
spezza le parole. Appena riesce a tirare il fiato, si scusa: «Bisogna che la
smetto di accompagnare i ragazzini delle scuole a Monte Sole, non ho mica più
l'età , devo aver preso del freddo, ieri, avevo anche un po' di febbre…»
Mirco intanto ha cambiato espressione. Non
saprei definirla. Provo a insistere sul tasto di prima, per vedere la reazione.
«Ma come, non ti piace il presidio? Oggi
pomeriggio arrivano anche i giovani…»
«Sì, tutti qua, evviva! Per questo non
volevo venire: il presidio va benissimo, figurati, ma per i fascisti ci vuole
altro. Il modo migliore per onorare i morti è seguirne l'esempio, no?»
Ming si inserisce, inghiottendo l'ennesimo
colpo di tosse: «Già. E questa qui è gente che è morta, mi spiego?, morta, per
scacciare quelli là.»
Grandi, questi settantenni, niente da dire:
«Insomma, era più giusto andarli a menare…»
«Menare!» esclama Mirco con un acuto
improvviso «Non so, quelli sono capaci di fare le vittime, dopo…»
«E allora cosa?»
«Beh, io dico che il Comune e la polizia non
dovevano darsi tanto da fare per contenere la protesta. Questi vogliono venire
a Bologna? E allora si prendono i loro rischi, ecco la democrazia!»
Straordinario. Le stesse cose che ho cercato
di spiegare a Giorgio, due sere fa: lui si dice di sinistra, ha quarant'anni
meno di Mirco, eppure non la capisce. Dice che siamo in democrazia, appunto, e
tutti hanno diritto di parlare. Già, gli ho risposto, però se sei un
neo-fascista e per il tuo raduno scegli Bologna, vuol dire che non hai solo le
tue cose, da dire, c'è dell'altro, vuoi dare un segnale ed è questo che non
deve passare. I tifosi della Fiorentina verrebbero mai a festeggiare una
vittoria in Piazza Maggiore?
«Allora, Ming» prosegue Mirco, col gomito
piantato nel fianco dell'amico «l'avresti detto che ci saremmo trovati ancora
qua in piazza?»
«Eh, guarda, avrei preferito esser là, al
Baraccano, per sentire cos'hanno da dirsi, ‘sti fascisti…»
Lo rassicuro «Credo niente di interessante:
è solo un pretesto per farsi vedere…»
«Sì, però mi piacerebbe sentirli, davvero» insiste
Ming «Potevano mettere degli altoparlanti, come quando fecero il processo a
Tartarotti, eh, c'era tanta di quella gente…»
Drizzo le orecchie, ormai ho un radar nel
cervello: «Tartarotti il torturatore?»
«Eh, lui, lui.»
«Ne ho sentito parlare…»
«Solo?» gli occhi di Ming si illuminano.
Mirco si guarda bene dall'intervenire. «Tartarotti è stato il più crudele dei
torturatori fascisti. Una bestia. Aveva una squadra, una ventina di ragazzi
della Brigata Nera, specializzati in confessioni. Legavano i partigiani a un
tavolaccio e poi via, gliene facevano di tutti i colori: frustate sulla pianta
dei piedi, sigarette sui testicoli e altre porcate. Allora, quando gli hanno
fatto il processo, la gente che voleva assistere era tanta, ma tanta, che hanno
dovuto trasmetterlo in piazza»
«E alla fine?»
«Alla fine l'hanno condannato a morte.»
Mirco sogghigna: «Raccontagli pur tutto.»
«Tutto!» Ming alza le spalle e si
schernisce: «Si fa presto: io ero nel plotone d'esecuzione. Ho fatto il mio
dovere, punto e basta.»
«No, no» fa Mirco «Non credere di cavartela
così. A questo giovane piacciono le storie, e dopo ce ne deve raccontare una
incredibile. Fai la tua parte, allora, dì tutto per bene.»
«Beh, guarda, la guerra era appena finita.
Trovare lavoro non era facile. Io ero stato in montagna, avevo imparato a
sparare e mi arruolai nella polizia partigiana, che dava una mano a quella di
Stato. Un giorno di ottobre vado al Comando, in via Cartolerie, a prendere lo
stipendio. C'è una gran confusione, servono dei volontari per fucilare un
fascista, il plotone dev'essere misto, metà partigiani e metà poliziotti, ma
molti dei nostri hanno paura di ritorsioni, perché quello da eliminare è uno
importante. Chiedo di chi si tratta. Tartarotti.» Si batte una mano sul petto
«Pronti! Ecco il volontario, gli faccio.
Esita un attimo, incerto se fermarsi qui,
senza scendere nei particolari. Lo invito a proseguire:»E dopo com'è andata?
«Ah, è andata che ci hanno caricati su un
camion e ci hanno portato in via Agucchi, al poligono. Tartarotti era già lì,
di spalle, legato a una sedia. Ci fecero mettere su due file: in piedi e in
ginocchio. Quelli in piedi come me dovevano sparare alla testa, gli altri al
corpo. Però mi sa tanto che abbiamo mirato alla testa tutti quanti, perché alla
fine gli è saltata via.»
«E gli altri che stavano con lui? Dove sono
finiti?»
Sospira: «Se la sono cavata. Sono scappati e
poi hanno avuto l'amnistia, credo, perché uno ha fatto pure un sacco di soldi,
con le assicurazioni. Sì, uno famoso, che fa sempre la pubblicità con
quell'omarino, aiutami Mirco, come si chiama…»
«Aspetta, aspetta…Trentani, no?»
«Trentani, proprio lui.»
Lo sapevo che dovevo portarmi il
registratore, cazzo! «Grazie del racconto, Ming. Posso chiederti come ti chiami
davvero?»
«Venturi Carlo.»
«E perché un soprannome cinese?»
«La
Cina non c'entra. E' un personaggio dei fumetti. Hai presente Gordon?»
«Flash
Gordon?»
«Sì, ai miei tempi andava un sacco, io avevo
una gran passione e leggevo sempre l'Avventuroso, che pubblicava i
fumetti. Allora quando ho dovuto scegliere il soprannome, un mio amico ha
appeso il fumetto a un albero. Sulla copertina c'erano Gordon e Ming. Ha detto:
se colpisco Gordon ti chiameremo così, se no ti chiamiamo "Ming". Ha
lanciato il coltello e ha preso Ming.»
Mirco interviene deciso: «Non starete mica a
parlare di Gordon, vero? Ti ricordo che sono venuto qua per sentire la storia
del "Vietcong romagnolo", e ho paura che se andiamo avanti così, coi
ricordi di noi vecchi non la finiamo più.»
«Va bene, d'accordo. Ecco qua: si chiama
Vitaliano Ravagli, tanto per cominciare e viene da Imola.»
Mirco si esalta: «Ma allora siamo quasi
compaesani! E com'è che non lo conosco? Va bene che Imola è parecchio
cresciuta, negli ultimi tempi, però, una storia così…Si vede che non è andato a
raccontarla in giro. E tu, Daniele, perché non gli hai detto di venire oggi?»
«Eh, sai, gliel'avevo chiesto. Però lui ha
detto che a queste cose preferisce non venire, ci sono sempre delle telecamere,
ti riprendono, dopo sanno chi sei. Dice che non vale la pena, conviene di più
farsi dare i nomi dei capoccia e vedersela con quelli…»
15.00 p.m.
Com'era quella scena di Peppone e don
Camillo? L'onorevole Peppone ronfa sui banchi del parlamento, mentre tutt'intorno
il dibattito si infiamma. Si sveglia di soprassalto e si mette a urlare: «Fassisti!»
La paranoia miete vittime. C'è chi vede nero
dappertutto, nazisti dietro ogni sigla, infiltrati ovunque.
Primo pomeriggio: la piazza si riempie. Ci
sono i partigiani e quelli del sindacato, la Sinistra Giovanile e le "tute
bianche", con caschi integrali e camere d'aria a mo' di scudo, e purtroppo
anche mentecatti a petto in fuori, fazzoletto sulla faccia, manico da piccone
in pugno.
A che servirà mai portarsi in piazza il
cosiddetto "stalin", quando poi non lo sai nemmeno usare ed è la
prima cosa che molli per scappare a gambe levate coi celerini dietro? E poi,
trent'anni fa i celerini avevano la cravatta, uniformi di tessuto pesante,
scarpe basse, caschi senza paranuca... I lacrimogeni erano barattoli che si
potevano prendere in mano e rilanciare al mittente. Oggi ci sono i robocops:
paranuca, parastinchi, paragomiti, parapraticamentetutto, e i lacrimogeni sono
veri e propri missili che chissà cosa contengono. A che cazzo serve un misero
bastone, se non per allestire una patetica auto-rappresentazione, fingersi
"uomini veri", giocare la simulazione dei "duri e puri"?
Poveretti.
Le "tute bianche" hanno tutt'altra
strategia: imbottiture con la gommapiuma o protezioni da sport a contatto
pieno, scudi di plastica chiusi "a testuggine", davanti una muraglia
di camere d'aria gonfiate e rivestite di poliuretano. Si fronteggia la polizia
e si avanza, niente strumenti offensivi, solo una nuova e più sicura "disobbedienza
civile", con tutte le precauzioni del caso, senza alcun desiderio di
martirio.
Imbottirsi per non farsi rovinare dalle
manganellate.
Era l'uovo di colombo. Perché nessuno ci
aveva mai pensato?
La tuta di Meco è un po' sudicia per la verità, ma pur sempre bianca. Si ferma
un attimo a parlare, ma si capisce che ha fretta, è agitato.
Butto lì la notizia, tanto per informarlo.
Non è certo il momento di raccontare.
«L'ho poi trovato sai? Quel romagnolo che è
ha fatto la guerra in Laos…»
«Ah, sì? Grande!» qualcuno lo chiama,
si volta, fa cenno di aspettare «Vediamo se si riesce a far partire
il corteo, adesso… »
15.40 p.m.
Tra Piazza Galvani e via Farini c'è il primo
blocco.
«Cazzo succede, sfondiamo o no?»
«Stai ben tranquillo! Stanno cercando di
mettersi d'accordo.»
«Mettersi d'accordo? E con chi?»
«Con quelli della digos.»
«E i fascisti allora?»
Sulla sinistra un colpo improvviso e un
migliaio di teste che si voltano. Anche senza vedere, il rumore è quello di un
sasso contro un vetro, e visto il punto in cui siamo, potrei scommettere che si
tratta di una vetrina del bar Zanarini, storico ritrovo di fighetti. Poi un
altro colpo, stessa direzione, sempre Zanarini. Il rumore della crepa che
allunga i tentacoli dal punto dell'impatto. Alzo la testa e intravedo la scena:
le bacheche laterali del bar attraversate da una ragnatela di incrinature. Voci
che si rincorrono, urla.
«Fermi, che cazzo fate?»
La carica parte a sorpresa.
«Ma non si stavano mettendo d'accordo?»
Grumo di corpi e grida. Gente che corre in
direzioni opposte. Poi tutti indietro, non si passa, il corteo respinto
rifluisce verso il Sacrario.
Secondo tentativo. Con la differenza che la
massa di gente è almeno triplicata. Parti, ti bloccano, ti buttano indietro, ritorni
e riparti con più gente di prima. Di solito succede il contrario. Per molti è
già una vittoria.
Si avanza, più di prima, lungo via Farini.
Poi sento i botti. Come degli spari, ma più
sordi. E vedo il fumo, davanti, intorno. Lacrimogeni. Prendo dalla tasca il
fazzoletto bagnato e lo premo sulla faccia. Il sapore fino in gola e gli occhi
che piangono senza motivo. Di fianco a me, qualcuno comincia a tossire, un
altro avvita il filtro sulla maschera antigas come se non aspettasse altro.
I vecchi si allontanano, respirare questa
roba a settant'anni non dev'essere il massimo. Qualcuno si butta per terra,
seduto, le mani sul petto.
Ancora botti.
«Hanno beccato uno, hanno beccato uno!»
«Cosa?»
«Nel petto. Sparano i candelotti a un metro
d'altezza.»
Le retrovie si disperdono
Caricano di nuovo, le camionette a passo
d'uomo, quasi ferme, usate come arieti contro gli scudi pneumatici.
Spunta a braccia alzate, larghe, in mezzo al
fumo. In piedi su un fittone, in faccia alla folla che cerca di avanzare. Avrà almeno
ottant'anni, e qualcuno dovrebbe dirgli di scendere di lì e mettersi in fondo.
Ma lui è convinto di averne di nuovo venti e dovesse essere l'ultima cosa che
fa nella vita, si mette a urlare, con tutto il fiato che ha, la voce un po'
stridula:
«Fate che non siano morti invano!
All'attacco!»
Poi il gas gli si infila in gola e gli
squassa il petto, quasi casca per terra, da lassù, gli amici pronti ad
afferrarlo e trascinarlo nelle retrovie.
18.30 p.m.
Me lo vedo passare di fianco mentre
camminiamo di nuovo verso la piazza. Vasquez, lo sguardo stralunato e un rotolo
di giornale in pugno, neanche si accorge di me. Un urlo nelle orecchie e
ottengo la sua attenzione.
«A' Zani, hai visto? Vittoria!»
Scuoto la testa: «Be', adesso, proprio
vittoria…»
«Ma come? C'era un sacco de gente,
alla fine saremo stati diecimila, hanno dovuto portare via i fasci col pullman,
a Granarolo, dove ce fanno il latte e i formaggini, e tu non me la
chiami vittoria?»
«Sì, sì, d'accordo» cancello l'argomento con
una mano «hai ragione tu. Vittoria.»
«Ma che c'hai? Sei di nuovo depresso? A'
Zani, a' ripijate!»
Mi tocca piano sulla testa col manganello di
carta che stringe in mano. Piano, d'accordo, ma sembra che m'abbia colpito con
del ferro.
«Che cazzo è quella roba?»
«Questo? Non lo conosci?»
«Dovrei?»
Se lo batte sul palmo con aria da
intenditore: «Questo è un pezzo di storia del tifo inglese! Si chiama Millwall
brick, per via che l'hanno inventato i tifosi del Millwall, ‘na squadra
scrausissima de Londra, però con degli ultras incazzati neri. Loro
entravano allo stadio con il giornale, no? La polizia li faceva passare,
tranquilli, poi questi lo aprivano, lo arrotolavano ben bene sul lato lungo, lo
piegavano, et voilà, roba che puoi anche spaccare la testa a uno.»
Sono colpito, il risultato è un affare
leggero e duro come pietra al tempo stesso. «Complimenti, Vasquez. Il miglior
uso che si possa fare della stampa. Mi avevano detto che se impili per bene dei
giornali, stretti stretti, puoi farci persino deragliare un treno…Adesso che ho
visto ‘sta roba, potrei quasi crederci.»
«Scherzi? La carta se la comprimi è uno dei
materiali più duri…»
«A proposito di giornali, l'hai mica trovato
l'articolo sul romagnolo in Indocina?»
Si batte ancora due volte il Millwall
brick sulla mano, questa volta con aria pensosa. Poi si blocca di colpo, lo
fissa per un attimo, lo riapre, lo srotola.
«Vedi» dice senza alzare gli occhi, stirando
la carta tra le due mani «Me lo sentivo che ci incontravamo, oggi…»
«Te lo sentivi? Qua in mezzo, tra migliaia
di persone?»
«A' Zani, che te devo di'? Me lo
sentivo, se ti dico che me lo sentivo…e infatti te l'ho portato l'articolo, poi
sai, la polizia, il tafferuglio, volevo far vedere a una tipa ‘sta cosa del Millwall
brick, me so' distratto un attimo…Comunque, ecco, guarda, dovrebbe
leggersi ancora, mica s'è stracciato, no?»
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