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Sentieri dell'odio
(Laos centro-orientale, 1958)
Il sole cancella le ultime ombre di una
notte gelida e assordante. Gli animali notturni si radunano intorno al bivacco.
Forse ci seguono, in attesa che il prossimo combattimento gli risparmi la
fatica della caccia.
Nuvole di ogni colore fra gli squarci della
vegetazione. Ci godiamo la luce tenue dell'alba, prima che i raggi del sole
diventino roventi.
Respiro l'odore della giungla. Di nuovo in
questa terra verde. Da quando sono tornato mi sono accorto che le cose non sono
come le avevo lasciate. Il campo base è ormai soltanto un punto di transito e
di smistamento per i gruppi che si spostano sempre più a sud. Sono stato
contento di ritrovare il comandante Li, ma mi ha fatto impressione: è pelle e
ossa, porta in faccia i segni della malattia che lo consuma un giorno dopo
l'altro. Ha detto che mentre ero via sono cambiate molte cose: gli scontri sono
sempre più feroci, per l'aumentare del passaggio di rifornimenti. Ho Chi
Minh prepara la guerriglia nel sud. Adesso siamo nel pieno della stagione
secca, e i governativi sanno che la nostra attività deve aumentare, quindi
intensificano i raid e battono le piste. Li ha detto anche che nove italiani,
arrivati con me nel '56, sono morti: la loro postazione è stata centrata in
pieno da un bombardamento al napalm poco dopo la mia partenza.
Non mi ha chiesto perché sono tornato. Ma ha
voluto che fossi reintegrato nel suo gruppo per una missione che ci porterà nelle
province meridionali del paese, per alcune centinaia di chilometri. Il gruppo è
incaricato di seguire la colonna di rifornimenti, muovendosi parallelo a una
distanza di circa tre chilometri. In caso di attacco, dobbiamo tenere impegnato
il nemico per il tempo necessario ai portatori a disperdersi nella foresta
senza perdere il carico. C'è un contatto costante tra noi e la processione di
"formiche rosse", tramite staffette velocissime, ragazzini che volano
attraverso la foresta. Oltre al nostro ci sono altri gruppi, che coprono la pista,
con l'ordine di convergere nel caso il nemico ne attacchi uno.
Ho una nuova arma, appena arrivata dalla
Cina: la copia esatta della carabina automatica sovietica Simonov, calibro
7.62, con baionetta incorporata e piastra da dieci colpi. Un'arma utilizzata
con successo nella guerra di Corea. Pesa solo quattro chili, anziché i
dieci del vecchio mitragliatore.
Ci rimettiamo in cammino, una lenta
processione di uomini stanchi e infreddoliti. Senza fermarmi alzo lo sguardo verso
i ritagli di cielo, incorniciati dalle cime degli alberi e provo a dare forma
alle nuvole. Il volto severo di mia madre, quello di mio padre, mobili e
frastagliati. So che non li rivedrò. Non uscirò vivo da qui, non è possibile.
Ed è questo che ho scelto.
All'improvviso uno sparo, gli squarci di
cielo si coprono di rosso scarlatto. I colpi arrivano da vicino. Il sangue di
un compagno mi schizza in faccia, il tempo di buttarmi a terra e l'agguato è
già finito.
Niente di grave. Le perdite sono esigue: un
gruppo di ragazzi di sedici-diciassette anni.
La lunga fila si ricompone, la marcia
riprende lenta, gli occhi e le orecchie tesi.
Lo sguardo non è più sui ritagli di azzurro,
ma puntato nell'ombra che ci circonda.
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