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Bologna 14 giugno 2000
7.00 a.m.
Via Indipendenza è una strada di Belfast.
Camionette, almeno dieci, la bloccano in direzione di Piazza Maggiore. Poliziotti
schierati da un portico all'altro, in assetto anti-sommossa. Caschi, scudi e
manganelli. Un centinaio solo in prima linea.
Tutte le strade laterali sono presidiate.
Il più grande spiegamento di forze che abbia
mai visto. Quattromila agenti disseminati su un perimetro di meno di un
chilometro quadrato.
Ministri e rappresentanti delle 53 nazioni
più ricche si riuniscono stamattina a palazzo. Tema della giornata: strategie
d'avanguardia per ottimizzare lo sfruttamento di manodopera nei paesi più poveri.
Prima sento la musica, rimandata dagli
amplificatori sul camion. Un enorme cimelio svenduto da qualche esercito
dell'Europa orientale in smobilitazione.
Poi la vedo spuntare da via Irnerio.
L'Armata Brancaleone.
Il caldo si fa già sentire. Per fortuna la
strada è ombreggiata. Il sole non spunterà dai tetti prima delle 11.00.
Hanno scudi di plexiglass. Caschi da moto e
mascherine anti-smog. Sono ricoperti di gommapiuma, pezzi di pneumatico e
imbottiture sportive. E sotto, la tuta da imbianchino. La stessa per tutti:
bianca.
Un'armata senza armi.
Dietro di loro: un corteo di cinquecento
persone.
Si fermano compatti a poche decine di metri
dallo schieramento della polizia.
Sgomito tra la gente fino a raggiungerlo:
«Ehilà, Meco, allora? Giornata campale?»
Non è in vena di ironia: «Ciao, Zani, cercavo
proprio te…»
«Presente» gli faccio un saluto militare
svogliato.
«Abbiamo messo su un gruppo di
contatto con la Digos. Ci sono già due avvocati, però è meglio che rimani
in giro, che uno in più non guasta. Ho dato il tuo numero di
cellulare…»
«D'accordo. Se c'è bisogno chiamatemi.
Quando comincia la rumba mi metto lì, sotto il portico.»
«Ci vediamo dopo» fa per allontanarsi.
«Oh, Meco…» si volta e gli grido «In
bocca al lupo!»
9.30 a.m.
Si lanciano comunicati dai megafoni, si
raccomanda di non scagliare oggetti contro i poliziotti, né contro le vetrine
dei negozi. Si intonano slogan, perfino canzoni partigiane. Trattative fitte
tra il gruppo di contatto e la questura. Due parlamentari, inchiodati ai
telefonini, parlano con Roma.
Qualcuno distribuisce limoni. Si versa nei
secchi la soluzione che dovrebbe neutralizzare i lacrimogeni.
Attesa snervante. Le tute bianche sudano
sotto le bardature, appoggiate agli scudi: una squadra di football americano in
attesa di entrare in campo.
Nel gruppo dei fotografi riconosco un paio
di amici. C'è anche Gianluca, la pettorina con su scritto stampa e la solita aria stravolta di
chi non dorme da duemila anni.
«Fai anche il reporter di guerra, adesso?»
Una pacca sulla spalla: «Sfotti,
sfotti…» alza la macchina fotografica « ma questa è l'unica garanzia» la
punta sui poliziotti «Lo sanno che li tengo sotto tiro!»
Il corteo avanza ancora di qualche passo.
Sono a ridosso dei poliziotti. Scudi contro scudi. In mezzo, meno di tre metri.
Uno dei fotografi si ferma di fianco a me
per cambiare rullino, guarda le prime file e scuote la testa: «Ragazzi, ci
vuole un bel sangue freddo…»
10.05 a.m.
I minuti passano lenti.
Poi, l'ultimatum della polizia. Non saranno
concesse ulteriori dilazioni allo sgombero della strada.
La tensione sale, posso respirarla.
Mi sposto sotto il portico, dove stanno i
giornalisti.
Poi gli scudi autocostruiti si alzano,
stretti tra loro, a formare la testuggine.
Finalmente la vedo.
Dal megafono: «Compagni, tra un minuto
avanzeremo compatti per difendere il nostro diritto ad andare in piazza e
manifestare pacificamente il nostro dissenso. Dissenso contro chi vuole
decidere per tutti, senza consultare nessuno. Contro chi decide a tavolino i
destini di interi paesi, sottoponendoli agli interessi delle multinazionali.
Contro chi è costretto a riunirsi in segreto e a farsi difendere da migliaia di
poliziotti per tenere lontana la protesta. Tutti quelli che stanno dietro le
tute bianche avanzino con le mani alzate, per far vedere alle forze dell'ordine
che non abbiamo niente in mano, che siamo disarmati.»
Una pausa che sembra eterna.
Poi: «Avanti.»
Le viscere si allentano.
La testuggine avanza piano.
«Compagni, avanti, con calma, facciamo
vedere a tutti che sono loro che menano!»
Dal fronte opposto, accento ligure,
manganello in mano: «Vedete di non cadere qui davanti, bastardi. Che vi
facciamo male, belìn!»
I fotografi scattano a ripetizione.
Pochi passi.
L'impatto.
Gli agenti arretrano per guadagnare spazio,
poi scattano, i manganelli rovesciati calano sugli scudi, mollano calci sul
muro di plastica, partono i lacrimogeni, a parabola, piovono alle spalle della
testuggine, sul corteo, li lanciano anche dalle strade laterali, un poliziotto
in borghese ne fa rotolare uno tra i piedi della gente, i tonfi sono sempre più
assordanti, la barriera di plexiglass regge ancora, cercano di strappare via
gli scudi, un cedimento sulla sinistra, qualcuno cade, poi mi spingono, c'è un
fuggi fuggi sotto il portico, i fotografi mi passano davanti di corsa, Gianluca
il fotografo si becca due manganellate nella schiena, urla oh, sono della
stampa cazzo!, aiuto a rialzarsi un ragazzo scivolato per terra, quello che
posso fare, i poliziotti ne brancano un altro, lo trascinano via, cinque contro
uno, calci, pugni, bastonate, la testuggine scomposta si ritira, i poliziotti
si fermano, i cordoni delle tute bianche si ricompongono cinquanta metri più
indietro.
Tutti fermi.
Mentre il fumo dei lacrimogeni si dissolve,
mi infilo tra le prime linee in cerca di Meco. Lo trovo che parla con un altro:
«…ne ho visti andar giù due o tre lì davanti, se li sono tirati
fuori…
Chiedo: «Quanti ne hanno presi? »
«Tre, sembra. Uno l'hanno
picchiato dietro la camionetta. Adesso li hanno portati al pronto
soccorso.»
«C'è bisogno di me?»
«No, sono già andati gli altri
avvocati all'ospedale. Ci fanno sapere come stanno…»
«Oh, comunque io sono qui. »
10.45 a.m.
In pochi minuti l'accordo è raggiunto: la
liberazione dei compagni contusi in cambio dello scioglimento del blocco.
Le tute bianche girano gli scudi e il corteo
si incolonna dietro al camion con la musica.
Si rompono le fila, la tensione si scioglie.
Le finestre delle case vengono spalancate.
16.30 p.m.
Il corteo si è ingrossato. Saremo almeno
quattromila a premere sui cordoni di poliziotti che sbarrano via Ugo Bassi. Ci sono
i reduci del Sessantotto e quelli del Settantasette, ragazzini freschi di
immatricolazione e trentenni da settimo fuori corso. Riconosco perfino un paio
di colleghi, dello studio di Palombarini, e quello della concessionaria che mi
ha venduto il motorino. Qualche bandiera di Rifondazione e dei Verdi e una
mucca pezzata portata da chissà chi.
Qualcuno al megafono urla: «Siamo
diecimila!» e un coro di risate e pernacchie lo zittisce subito.
Sono in piedi dalle sei di stamattina. Primi
segni di cedimento.
Spunta al mio fianco all'improvviso: «Ciao,
Daniele, ti ho trovato, finalmente!»
«Manu… Ma da dove arrivi?»
«Dallo studio. Paperoga ci ha dato la libera
uscita per venire alla manifestazione. Figurati: ha detto che forse faceva un
salto anche lui. Ho sentito che il sindaco ha messo una buona parola per far
sfilare il corteo nella zona off-limits.»
«Pare di sì. Deve aver visto i servizi al
telegiornale sul blocco di stamattina. Però io non ce la faccio più. Ho bisogno
di lavarmi, di dormire… e anche di un massaggio Shiatsu. Domattina ho udienza
in tribunale.»
Mi prende sottobraccio: «Dài, sfaticato. Ti
accompagno a casa.»
Mentre raggiungiamo il margine del corteo,
la polizia si fa da parte e lascia passare i manifestanti.
Li guardiamo sfilare.
Manu sorride: «Hai visto? Ce l'hanno fatta.»
Le appioppo un bacio sulla bocca: «Si
direbbe proprio di sì.»
Frugo in tasca in cerca delle chiavi.
Manu fa segno di guardare in su: «Daniele,
c'è uno seduto sul pianerottolo…»
Allungo il collo: una sagoma scura, la testa
sulle ginocchia.
Saliamo l'ultima rampa e ci investe il puzzo
acre di sudore. Il respiro pesante di chi dorme della grossa. Un barbone
stremato dal caldo.
Ma il rumore della chiave nella toppa lo
scuote. Alza la testa di soprassalto.
«Avvocato!»
Accendo la luce dell'ingresso e lo guardo
meglio.
«Avvocato, sono io, Said, sono tornato!»
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