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Bologna, 7 dicembre 1998(!), 10.30
p.m.
Non dimenticherò questo gelo.
Quasi le undici di una notte polare. Sul bivacco,
che va avanti dall'alba, bloccando via Irnerio all'altezza della Montagnola,
pesa ormai una tensione insopportabile. Lacrime e malori ripetuti, falò
improvvisati e masserizie sparse, drappelli di poliziotti in assetto, sempre
più tesi, e cani di punkabbestia e bonghi e slogan di dieci disperati
incarogniti e sguardi bassi dei pochi qui intorno, e gelo, indifferenza e
assenza. Si tratta la resa, senza condizioni, dell'ultima battaglia persa.
Il funzionario della digos, molto noto in città, imbarazzato, nervoso si lascia
scappare una frase a mezza bocca con Monteventi, il consigliere comunale
indipendente di Rifondazione, tra i pochi che cercano di evitare il peggio:
«Questo lavoro di merda, noi non lo vogliamo più fare.»
E' presente anche una troupe della
trasmissione di Michele Santoro. Sono in cinque, si aggirano sbigottiti anche
loro. Poche domande in giro, le riprese parleranno da sole.
L'esercito sconfitto, che sta per essere
disperso, conta all'incirca settanta elementi, cinquanta tra donne e bambini,
esausti e assiderati.
Ciò che rimane dell' "orda
sacrilega", che ha occupato per due giorni la basilica di San Petronio, il
mese scorso, dopo i violenti sgomberi del 9 e 12 novembre, dei settanta
appartamenti occupati, di proprietà iacp,
tra i numeri civici 9 e 19 di via Rimesse. Più di duecento persone, circa
quaranta nuclei familiari e qualche decina di single. Più che altro magrebini,
ma non solo, anche egiziani, un palestinese, tutti con permesso di soggiorno,
la maggior parte degli uomini con un'occupazione, con storie e aspirazioni
molto diverse, ma tenuti insieme come in un incubo, dal bisogno di un tetto.
Questi lavoratori internazionali senza fissa
dimora, dopo mesi di tentativi frustrati, avevano coagulato quel bisogno
nell'atto di forza delle occupazioni, con il sostegno di un comitato
antirazzista cittadino non molto numeroso, ricevendo una risposta durissima.
Il 9 novembre, all'alba, il primo tentativo
di sgombero, violentissimo ma infruttuoso. Una quarantina di poliziotti tenta
l'irruzione nello stabile, incontrando una resistenza improvvisata. Grida,
spinte, colluttazioni e malori. Alcuni uomini tra i più esasperati espongono i
figli dalle finestre, tenendoli sul vuoto. La tensione è altissima, la polizia
insufficiente a fronteggiare la situazione. L'azione viene sospesa.
I quotidiani locali del giorno successivo
pubblicano a tutta pagina le foto degli "abusivi che usano i propri figli
come scudi, ostaggi". Lo iacp
annuncia a gran voce le denunce per tentato omicidio, seguite da quelle
dell'assessore alle politiche sociali Golfarelli alla Procura della Repubblica
e al Tribunale dei Minori. Cominciano le procedure per la sottrazione dei figli
alle famiglie e l'assegnazione ai servizi sociali. Abusi e maltrattamenti.
Il 12 novembre invece l'attacco avviene in
grande stile. Alle 6.30 del mattino sono duecento gli uomini in divisa
destinati all'operazione. Cento fanno irruzione negli appartamenti. Altrettanti
a bloccare la strada, completamente transennata. Molti degli occupanti sono già
al lavoro. Gli agenti sfondano porte, sbarrano finestre, un egiziano viene
colpito più volte e arrestato per resistenza. Comincia la demolizione
sistematica di bagni, sanitari, scale.
Alle 11.00 l'edificio è ormai del tutto
sgomberato. La strada sottostante è un ammasso di macerie personali. Materassi,
bombole del gas, coperte e pannolini. Il cordone di polizia è impenetrabile e
non consente ad alcun italiano di raggiungere la zona. Comincia un lungo e teso
faccia a faccia, tra un gruppo di donne arabe, molte con i bimbi in braccio, e
gli agenti, che finisce in rissa, con due bambini e varie donne contuse, ed il
primo di una lunga e impressionante serie di aborti spontanei.
Poco dopo mezzogiorno, porte e finestre
dell'edificio sono già murate. Nel frattempo, dietro le forze dell'ordine si è
assiepato un centinaio di persone, che di lì a poco accompagneranno i
centocinquanta immigrati, con materassi e coperte, in corteo verso il palazzo
comunale.
Alle tre del pomeriggio, dopo due ore di
desolata attesa l'amministrazione rifiuta sprezzante qualsiasi ipotesi di
soluzione anche temporanea del problema. La risposta è disperata e clamorosa. I
centocinquanta immigrati, bambini inclusi, entrano nella basilica di San
Petronio, ancora aperta, implorando quel diritto d'asilo che una volta era
caratteristica dei luoghi consacrati.
Il colpo giunge secco e inatteso. La polizia
perde subito le staffe. Un primo violento scontro con un gruppo di italiani,
proprio sulla scalinata della basilica, per impedire presunte, ulteriori invasioni.
Anche tra gli amministratori la calma non è di casa. Pochi minuti dopo infatti,
l'agitato sopralluogo dell'assessore sfocia di nuovo in calci, urla, cariche e
manganelli. Si grida all'oltraggio religioso, al sacrilegio e al complotto
politico. La Curia sprizza veleno, ci pensa la Caritas, nel tardo pomeriggio, a
provare una mediazione difficile. Gli immigrati, solo loro, trascorreranno la
notte dentro San Petronio, senza timore di sgombero; dopo si auspica una
soluzione ragionevole.
Passa la notte, lo schiaffo è fragoroso, i
media fiutano una preda succosa, la città è muta.
Il 13 novembre Il Resto del Carlino
impazza con la tesi del complotto politico ordito dalla Jihad e dagli Autonomi.
La giunta non lesina disprezzo per gli occupanti "manovrati" da
chissà chi. E i cittadini, tranne qualche centinaio in tutto tra solidali e
indignati da tanto accanimento, forniscono il loro silenzio-assenso alla
versione corrente: "uno sfregio alla città, premeditato e calcolato".
Si parla molto di "ferita difficile da rimarginare".
Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno, a
seguito di estenuanti tira e molla, giunge una concessione dal Comune:
l'utilizzo temporaneo, qualche settimana, della scuola in disuso di via del
Pallone, alle spalle della Montagnola. Sopraffatti dalla stanchezza, gli
occupanti accettano. Data la situazione sembra quasi una vittoria. I lavoratori
internazionali senza diritto a un'abitazione vengono caricati su autobus atc e portati a destinazione in tutta
fretta.
Cala il sipario, ma non le polemiche,
con la coda preannunciata di denunce di ogni genere. Istigazione e associazione
a delinquere, occupazione abusiva di luogo di culto, resistenza, oltraggio,
ecc., per i cittadini stranieri e italiani coinvolti.
Il sindaco Vitali prosegue in un arcigno
silenzio.
La Giunta insiste sulla necessità di colpire
i cospiratori, la magistratura apre più filoni di indagine.
Dal resto della città solo poche voci fuori
dal coro. Su tutte quella dello scrittore Stefano Benni: «Questa non è più la
mia città. Bologna è diventata razzista, perbenista e provinciale. Per colpa
della sinistra che la governa». Poi solo brusio.
Ma le peripezie di questo improbabile
invasore nemico sono tutt'altro che finite.
Giorni di incertezza e attesa che consumano
novembre, nuclei familiari che si deteriorano, prospettive zero. Il campanello
di fine ricreazione suona pochi giorni fa: il Comune reclama lo stabile, va
adibito a ostello per i pellegrini del Giubileo 2000. Nel fine settimana,
provocazioni e visite delle forze dell'ordine. Questa mattina lo sgombero. Come
gli altri, duro, impietoso. All'invasore sconfitto non viene offerta via di
fuga. Alla marmaglia esausta e rabbiosa non rimane che accasciarsi sull'asfalto
di via Irnerio.
Ed eccoci qua.
Eccole qua. Persone, storie, aspirazioni
diverse, ma tutte sul lastrico.
Accomunate solo dalla necessità miserabile
che è poi l'unica cosa che tiene i miserabili assieme, stretti in una morsa,
avvinghiati contro ogni volontà, sospinti come mandrie nella transumanza.
Non sono belli per un cazzo adesso, nemmeno
i bambini, stralunati dal freddo, sporchi, già intaccati nell'anima. Non sono
belle le donne, che cedono all'angoscia, svenimenti a raffica dal pomeriggio in
poi, tre ricoveri e due sospetti d'aborto. Sono brutti e puzzano gli uomini,
molti già fuori di testa, umiliati davanti alle famiglie, litigano fra loro,
non tarderanno a mostrare il peggio di sé.
Eccoli qua. C'è Said Moukharbel, che è mio
assistito, uno di quelli a cui vogliono levare l'affidamento del figlio, Nidal.
Con lui c'è Kadisha, che non regge al freddo e alla tensione e sviene di
continuo. Said è tunisino, una trentina d'anni, da più di dieci in Europa,
parla quattro lingue: arabo, francese, tedesco e italiano. Mi sembrava in
gamba, abbiamo parlato tre volte dopo i giorni di San Petronio, ma adesso
sconnette, dice cazzate, fa cazzate, mette una pressione insopportabile sulla
donna e il bambino. Ha la barba incolta di giorni, il lavoro in cooperativa
l'ha perso già da un paio di settimane. Adesso non riesce a fare altro che
agitarsi e bestemmiare sul ricongiungimento che l'ha fottuto, sì, l'ha fottuto,
perché da solo, se ti fai i cazzi tuoi, ce la puoi pure fare a vivere in un
cesso di centro di prima accoglienza, ma con moglie e figlio no, non bastano,
non possono bastare quei soldi di merda che prende. «Come cazzo faccio a pagare
la casa, i vestiti del bimbo, l'asilo? Vaffanculo ho studiato medicina io e lei
biologia, vaffanculo!»
Poi c'è Habib, tunisino pure lui, con la
ragazza, giovane, pallida e incinta. Da mesi vivono in macchina. Lui ha la
faccia da finto furbo con anche un bel paio di cicatrici sopra, litiga spesso
con gli altri. Lei non parla mai, lo trattiene solo quando alza la voce, ma è
disperata.
Mustafà di figli ne ha tre, con moglie, e Abdel
Khader, suo fratello, due. Marocchini. Loro un alloggio ce l'avevano. A Loiano,
più di un'ora e mezza di macchina dal posto di lavoro, all'aeroporto Marconi.
Dividevano sessanta metri quadri di umido e muffa, un solo servizio igienico,
in nove, costo di mercato lire ottocentomila. Volevano avvicinarsi a tutti i
costi alla città e al lavoro. Hanno mollato Loiano e provato con via Rimesse.
Mosse sbagliate.
Aziz è giovane e single, e l'Italia l'ha
girata tutta: Catanzaro, Napoli, Formia, Roma, Torino e Bologna. Con i centri
di prima accoglienza ha chiuso per sempre, dice. Fa il facchino da uno
spedizioniere, ha lo sguardo sveglio, una cicatrice impressionante sulla tempia
sinistra. Vuole una fidanzata italiana. «Per me non c'è problema, quando è
momento io vado. » Mi sorride e mi passa una canna.
Tutti qua, intirizziti da un gelo biblico
mentre si tratta la resa.
I poliziotti premono, nervosi e congelati
anche loro, per liberare il blocco, gli stranieri allo stremo, gli italiani
presenti desolati e desolanti. Dal bivacco dei punkabbestia e degli incazzati
parte una bottiglia, che sfiora teste civili e militari, nazionali ed estere,
per infrangersi poco dietro una delle file di agenti. Ne nasce un parapiglia,
una mezza carica, l'ennesimo casino, l'ultimo segnale di una disfatta. Bisogna
inventarsi qualcosa, subito.
Monteventi parla fitto con i ragazzi del
Teatro Polivalente Occupato, a due passi da qui, dove avevano uno spettacolo
teatrale, e sono usciti per solidarietà ai senza casa. Hanno portato coperte e qualcosa
di caldo. Non basta, serve altro.
L'onnipresente assessore alle politiche
sociali dichiara: «Per noi questi abusivi non hanno diritto a nulla.»
Dopo mezz'ora di discussioni serrate,
ripensamenti e dubbi e mal di stomaco, la decisione: le porte del tpo sono le uniche ad aprirsi per dare
un riparo a chi aveva sfidato il santo cittadino.
Per quanto tempo? In quali condizioni? E
dopo?
Domande troppo impegnative per questo
freddo.
Le telecamere di Santoro si fiondano nel
centro sociale per riprendere l'ingresso degli straccioni.
Osservo attonito l'allestimento di decine di
posti letto improvvisati, tra platea e palcoscenico. Materassi, coperte, donne
in lacrime, un brusio silenzioso, dimesso, pesante.
Anche questo è teatro. Lo spettacolo
schifoso della povertà e dell'arroganza.
Passata la mezzanotte da un pezzo, giunge
tempestiva l'unica dichiarazione del sindaco Walter Vitali sull'intera vicenda:
«Il TPO non è una struttura di proprietà del Comune. Per noi il caso è chiuso.»
Anche Bologna, stanotte, mi sembra un caso
archiviato.
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