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Sentieri dell'odio
(Guerra nel paradiso)
Percorremmo molti chilometri verso est, fino
ai confini del Vietnam, e deviammo a sud per ricongiungerci con la colonna di
portatori.
Una marcia di tre giorni, in un paesaggio
primitivo e selvaggio, stupefacente. In quelle valli incassate tra le montagne
c'erano alberi di ebano, mogano, palissandro e taek, con grappoli di
gigantesche liane. Alberi alti come cattedrali, con tronchi enormi e radici
contorte che uscivano dal terreno come grandi serpenti. Pareti rocciose con
ampie fenditure dalle quali sgorgava acqua fresca e limpida. Acquedotti
rudimentali, costruiti con canne di bambù svuotate, incanalavano l'acqua pura.
Congegni antichi, tramandati da secoli, forse da millenni. Eravamo degli
intrusi in quella regione: la scarsa presenza umana aveva creato un rapporto di
rispetto ed equilibrio tra l'uomo e la natura. Qualcosa che la guerra rischiava
di spazzare via in ogni momento.
Nelle improvvise depressioni del terreno, si
aprivano grandi acquitrini immersi nella nebbia e punteggiati di alberi
solitari, gli unici spazi liberi dalla fitta vegetazione. L'incanto per quel
paesaggio cozzava con la paura delle insidie naturali.
In quei giorni non incontrammo nemici. Anzi,
non incontrammo essere umano. Eravamo soli, in un territorio sconosciuto. Ci
infilammo in una valle non più larga di duecento metri. Le pareti rocciose
erano color alabastro, altissime e levigate come marmo. I raggi del sole le
accendevano di riflessi. Più avanti, la nebbia sospesa a due metri da terra
sembrava un immenso soffitto bianco, sotto il quale ci muovevamo come in sogno.
Era un mondo irreale, incantato, una valle di neve, con alberi secolari di un
verde intensissimo che squarciavano il tetto di nebbia, lasciando filtrare
colonne di luce.
Ero nella terra più bella del mondo. Ed ero
lì per combattere.
Giungemmo a venti chilometri a nord dalla
cittadina di Ban Napaē. Non potevamo proseguire lungo il crinale, perché
la montagna diventava invalicabile. Dovemmo deviare a sud, per attraversare la
rotabile e raggiungere la colonna dei rifornimenti.
Il punto di passaggio doveva essere a est
del centro abitato, verso il Napaē Pass. I governativi avevano capito che
l'unico punto per tagliare verso sud era in quei venti chilometri e lì avevano
concentrato i reparti guidati via radio dai T28 e dai Cobra, che sorvolavano la
zona di continuo.
All'alba del quinto giorno riuscimmo ad attraversare,
dopo che un convoglio era transitato da poco. Successe tutto in cinque minuti.
Eravamo febbricitanti, stremati dalla stanchezza e molti erano feriti, anche se
in modo non grave. Eravamo prostrati anche dalla fame. Io ero ferito, una
pallottola di rimbalzo si era conficcata nello stinco sinistro e mi procurava
un dolore insopportabile. Ma dovevamo camminare senza sosta, veloci, per
allontanarci il più possibile da quel nastro bianco polveroso. Non c'era
possibilità di procurarsi cibo in quella zona e non potevamo certo
metterci a cacciare. Le scimmie facevano piazza pulita di tutti i frutti maturi
e a noi non restava che guardarle. I soli colpi che sparai in quei giorni
furono per una scimmia maledetta, che mi soffiò l'unica banana matura da sotto
il naso, per poi rifugiarsi sui rami più alti strillando come un'ossessa. Non
ci vidi più: la centrai con una sequenza di colpi, che la fece piroettare tra
gli alberi come uno straccio insanguinato. Dio boia: ero al secondo
viaggio in Laos e ancora non ero riuscito a mangiare una banana.
Solo dopo aver percorso una trentina di
chilometri verso sud, aver guadato tre fiumi ed essere entrati nella provincia
di Kham Mouan, capimmo che ce la saremmo cavata.
Terminato quel lungo peregrinare, stanchi
morti, ci imbattemmo per pura fortuna in un nostro gruppo di quindici armati
che scandagliavano la boscaglia alla nostra ricerca, con portatori carichi di
cibo. Avevano considerato che se eravamo ancora vivi, saremmo scesi a sud
mantenendoci a ridosso del confine di una decina di chilometri.
Per fortuna avevano visto giusto.
Ci riposammo per parecchie ore e mangiammo a
sazietà. La mattina dopo ci rimettemmo in marcia. Alla nostra sinistra, lungo
la curva dell'orizzonte, troneggiò per molti chilometri la maestosa mole del
monte Keo Neua, alto duemila e trecento metri, piantata in mezzo alle
nuvole, sulla dorsale del confine col Vietnam.
Il comandante Li non ce la faceva più: le
ultime azioni lo avevano fiaccato a morte e il fisico lo aveva abbandonato.
Anche la mente cominciava a vacillare.
Lo convincemmo a separarsi dal gruppo armato
per raggiungere la carovana dei portatori. Fu una decisione sofferta, non era
facile lasciare l'uomo che ci aveva portati fuori dalle situazioni peggiori. Ma
in quelle condizioni non gli sarebbe restato molto tempo da vivere. E anche
lui lo sapeva.
Tre giorni dopo, attraversato un paesaggio
indimenticabile, entravamo nelle valli dei fiumi Mon e Yang. In quel paradiso
terrestre incontrammo animali mai visti: una famiglia di elefanti che migrava
lontano dai rumori; serpenti boa, indolenti e pigri, attorcigliati ai rami
degli alberi; galletti selvatici rumorosissimi e grandi farfalle multicolori.
Vidi famiglie di gibboni, con le lunghe braccia e le mani bianche, che urlavano
contro gli intrusi. Nel folto dei grandi cespugli di bambù vivevano gli
sciamanghi, simili alle scimmie. Vidi indigeni delle tribù dei Thun, dei Hmong
e dei Ra-de, armati ancora di arco e frecce, che spuntavano dalle faretre di
bambù. Etnie isolate, che parlavano dialetti incomprensibili e avevano per me
lo stesso fascino degli indiani d'America visti al cinema.
I due terzi della provincia di Kham Mouan
erano selvaggi, l'unica cittadina si trovava a nord del fiume Mon; il rimanente
territorio confinante a sud con la provincia di Savannakhèt, era servito
da alcune rotabili, immerse nella foresta tropicale.
Il nostro gruppo fu rinforzato da partigiani
del luogo, molti dei quali avevano combattuto nel 1954 contro i francesi e i
governativi nella battaglia di Ban Mai, a sud della provincia di Savannakhèt.
Era stata una battaglia violentissima, impressa nei racconti e nelle leggende
locali: era durata cinque giorni e cinque notti e aveva segnato la sconfitta
dei colonialisti in quella parte del paese. Tuttavia i veterani non erano
abituati al nostro tipo di guerriglia, avevano un'impostazione classica, difesa
e controllo del territorio, quindi si rivelarono più utili come guide e
interpreti che come combattenti.
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