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Sentieri dell'odio
(L'albero sacro)
Per due giorni, una calma quasi irreale.
Percorriamo decine di chilometri sempre a mezza costa, senza mai attraversare
i pantani del fondo valle.
La zona in cui ci troviamo ora, è coperta da
vegetazione meno fitta: alberi radi e felci non troppo alte. Di solito, ci
avventuriamo su un terreno simile soltanto di notte, ma la tranquillità delle
ultime ore ci spinge a proseguire lo stesso.
Non facciamo nemmeno in tempo a ripartire
che veniamo avvistati da una squadriglia di T28. Sono cinque, aprono il
mitragliamento all'istante. La lunga colonna dei portatori si scompone per
cercare riparo nella boscaglia.
Iniziamo a sparare subito dopo la prima
picchiata, mentre gli aerei guadagnano quota, mostrando il largo ventre argentato.
Ne centriamo un paio: spariscono lontano perdendo fumo. Gli altri tornano
all'attacco. Preghiamo che non portino bombe al fosforo o napalm, altrimenti
non avremmo scampo.
Dopo la seconda picchiata anche gli ultimi
aerei si allontanano. Abbiamo commesso una leggerezza e corso un grave
pericolo. Forse, la nostra fortuna è stata la sfortuna di altri: se il
mitragliamento è durato poco, qualche altra colonna, più a sud, dev'essersi
presa il grosso.
Di corsa, abbandoniamo la zona. Nel caso
tornino indietro con nuove munizioni, non devono trovarci nei dintorni.
La marcia di allontanamento è estenuante,
chilometri e chilometri senza mai fermarsi, durante le ore più calde della
giornata, i polmoni che sembrano assorbire acqua.
Verso sera, troviamo una radura, nel cuore
della foresta, dominata da un unico, gigantesco albero piantato nel centro.
Sembra finto, tanto è simmetrico.
Gli indigeni del gruppo sono molto agitati,
parlano fitto tra loro, si consultano, infine ci comunicano che siamo sotto un
Albero Sacro, il posto più sicuro che possa esserci per trascorrere la notte.
L'Albero Sacro protegge chi sosta sotto i suoi rami. Il comandante getta uno
sguardo sui volti stremati e decide di dar retta agli indigeni.
Mentre scende la notte i compagni si fanno
sotto ed esigono una delle mie storie. Il mio inglese è sempre molto stentato e
approssimativo, ma qualcosa dovrebbe capirsi comunque. Quando tutti gli sguardi
sono su di me, attacco il racconto.
«Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la
mia famiglia era molto malridotta. Alcuni di noi erano tibicì, altri molto
denutriti e deboli. Mia madre, prima di farsi ricoverare in un sanatorio, volle
chiamare il dottore, perché le facesse un quadro della salute dei figli. La
risposta fu che, se voleva salvarci dalle malattie, doveva nutrirci con una
dieta ricca di pane, carne e ferro.
Il pane lo avevamo. Quanto alla carne, mia
madre si faceva dare a credito del cascame dal macellaio. Per il ferro pensò
che potesse andare bene la canna di un vecchio Mauser, il fucile da guerra
tedesco, che conservava sotto un armadio. Disse a me e a mio fratello
Benito di prendere una lima e di grattare ogni giorno un po' di ferro da quella
canna, che diventava sempre più corta. La limatura, poi, veniva buttata
nell'acqua della pasta insieme con il sale. Per questo, posso dire che la mia
famiglia si è mangiata un pezzo di nazismo.»
Il racconto ottiene l'effetto desiderato, la
risata contagia tutti. Ce n'era bisogno.
Le storie che si sentono in queste occasioni
sono davvero incredibili. Le sofferenze della mia famiglia, qua in Indocina non
sono niente. Da queste parti la tibicì è una malattia molto diffusa, tanto da
essere accettata con rassegnazione. Anche la malaria, il colera, la dissenteria
e il vaiolo sono piuttosto comuni.
Terminati i racconti, ci prepariamo per
dormire, mentre gli indigeni onorano con canti e offerte il loro Albero Sacro.
All'alba, mi sveglio con addosso uno strano
nervosismo, la sensazione che di solito mi avverte di un pericolo, ma
non è il caso di offendere gli amici indigeni, che considerano questo luogo il
più sicuro di tutta la foresta.
Quando però le fronde e il tronco
dell'Albero Sacro si mettono a tremare, mi sale il panico.
Non c'è un alito di vento e la terra è
ferma come sempre. Che succede? Una pioggia di foglie scende dai rami più alti,
fitta e continua.
Gli indigeni sembrano impazziti, ci urlano
di raccogliere in fretta tutto quanto, l'albero ci avverte del pericolo
imminente. Incredulo, alzo lo sguardo, le foglie continuano a cadere, senza una
ragione plausibile.
Prepariamo gli zaini e ci allontaniamo in
gran fretta, addentrandoci di nuovo nel fitto della foresta.
Non passa nemmeno un quarto d'ora che il
rumore degli elicotteri echeggia nella vallata alle nostre spalle.
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